Tra stagnazione secolare e riequilibri globali, il capitale italiano arranca e la sharing economy è la nuova frontiera dello sfruttamento
Il processo di globalizzazione non si arresta. Una tappa dietro l’altra, le politiche degli Stati proseguono nella creazione di un unico libero mercato mondiale, senza barriere protezionistiche per merci, servizi e capitali. A Occidente dodici Paesi, tra cui gli Stati Uniti, hanno firmato il TPP, il Trattato di libero scambio dell’area del Pacifico (1), e sono in corso i negoziati tra Usa e Europa per il TTIP (2). A Oriente la Cina preme per essere riconosciuta dall’Unione europea come ‘economia di mercato’, un cambiamento di status che cancellerebbe i dazi doganali oggi applicati ai suoi prodotti. Difficilmente accadrà ora, ma è solo questione di tempo. A fine 2016 avrebbe dovuto infatti concludersi il processo avviato nel 2001, quando il Paese asiatico entrò nel Wto accettando un periodo di osservazione di quindici anni. Oggi gli Stati Uniti fanno pressione per respingere la richiesta, e l’Europa va nella medesima direzione.
Ufficialmente la politica cinese è ancora troppo presente nella struttura produttiva per essere considerata un’economia di mercato, in realtà, visto l’evolversi della crisi nei Paesi a capitalismo avanzato, aprire adesso le porte alle merci cinesi a basso prezzo significherebbe annientare l’industria manifatturiera ancora rimasta nel Vecchio Continente. Il 12 maggio scorso dunque il Parlamento europeo ha votato a grande maggioranza (546 sì, 28 no e 77 astenuti) una risoluzione contraria, e anche la Commissione si sta allineando. Ma l’attuale rifiuto non è indicatore di un’inversione di tendenza: il processo di globalizzazione sa essere flessibile, sa rallentare per poi ripartire più vigoroso.
C’è tuttavia chi parla esplicitamente di ‘stagnazione secolare’ – ma non per questo, per inciso, mette in discussione la globalizzazione. Ne dibatte un filone di economisti, capeggiati dallo statunitense Lawrence Summers (3), il quale ha proposto per la prima volta la sua analisi davanti al Fondo monetario internazionale nel novembre 2013. Secondo Summers da circa vent’anni l’economia reale non registra una crescita ‘sana’: prima del 2001 l’aumento del Pil è coinciso con la bolla borsistica delle dot.com, tra il 2002 e il 2007 con la bolla immobiliare poi esplosa con i mutui subprime. Da allora, siamo ancora qui a dibatterci con la recessione, nonostante le banche centrali, la Fed prima e successivamente la Bce, abbiano portato praticamente a zero il costo del denaro e inondato il mercato di liquidità. Sono gli investimenti privati nel capitale produttivo a mancare, sia per Summers che per il Fmi, mentre il denaro prende la strada della finanza – si temono, ancora, bolle finanziarie.
Né Summers né gli analisti del Fmi spiegano tuttavia le ragioni del calo degli investimenti, limitandosi a scattare una fotografia di ciò che hanno davanti: forse perché per farlo dovrebbero scomodare Marx e la teoria della caduta tendenziale del saggio di profitto.
Contemporaneamente, la divisione internazionale del lavoro, strutturata dall’organizzazione produttiva su base globale, si va modificando. Le tre grandi aree del mondo inizialmente create stanno cambiando. L’Africa e il Medio Oriente sono ancora le zone di estrazione delle materie prime, ma l’Asia non è più solo la ‘fabbrica del mondo’ e Stati Uniti ed Europa hanno forti difficoltà a continuare a essere le regioni in cui vendere le merci prodotte. E infatti il Fmi, lanciando l’allarme sull’eccessiva lentezza della crescita economica mondiale, spinge la Cina a favorire la nascita di un mercato interno, per creare quel ceto medio che possa acquistare i prodotti fabbricati non solo in Asia ma anche in Europa e Usa (4).
In tutto questo, l’Italia arranca più di altri Paesi; sta faticando non poco per adattarsi alla globalizzazione. Le cause della sua ‘arretratezza’ vanno ricercate nelle caratteristiche storiche della classe dirigente politica ed economica, e di conseguenza nella struttura produttiva messa in piedi. Pochi capitali investiti, innanzitutto – la maggior parte dei profitti è sempre rimasta nelle tasche degli imprenditori invece di prendere la via dell’innovazione e della ricerca – e un forte sostegno/legame con la politica alimentato dalla micro e macro corruzione; una quota molto alta di piccole e medie imprese contro pochi grandi gruppi a controllo familiare, che si giovavano di posizioni di monopolio/oligopolio proprio grazie alla vicinanza con la politica; una forte presenza dello Stato nell’economia, con la proprietà diretta di banche e aziende; l’esistenza della cosiddetta ‘galassia del nord’, riunita nel patto di sindacato di Rcs, con Mediobanca a ruolo di coordinatore di quello che è stato definito ‘capitalismo di relazione’; e infine il ‘bancocentrismo’, la caratteristica tutta italiana di rivolgersi alle banche per trovare capitali da investire – sottoscrivendo prestiti – invece di andare sul mercato azionario.
Anche l’esistenza all’interno dei confini di una ‘zona depressa’ nella quale investire con il forte sostegno dello Stato, il Meridione, ha inciso nella mancanza di interazione con l’estero del capitale italiano. La bella penisola, insomma, ben più di altri Paesi, si reggeva su un sistema economico chiuso e protetto (oltre che colluso con la criminalità organizzata), e per questo poco concorrenziale; quando si sono aperte le frontiere, non ha saputo stare sul mercato.
L’euro è stato il fattore decisivo per iniziare a modificare la struttura economica, a partire dalle privatizzazioni avviate nel 1992, ma il processo è stato lento e ha incontrato non poche resistenze da parte di imprenditori abituati a stare al caldo. Ora il problema è che la crisi globale, giunta a questo punto, lascia ben poco tempo per riorganizzarsi.
Lo sa Renzi, che da quando è entrato a Palazzo Chigi ha il piede premuto sull’acceleratore, e sembra averlo ben chiaro anche il nuovo presidente di Confindustria. Alla sua prima uscita pubblica, il 26 maggio scorso, Vincenzo Boccia è stato esplicito. Ha parlato della necessità di attrezzarsi “al nuovo paradigma economico. Noi imprenditori dobbiamo costruire un capitalismo moderno fatto di mercato, di apertura ai capitali e di investimenti nell’industria del futuro”; ha affermato che oggi servono “dimensioni adeguate. Per questo dobbiamo crescere. Crescere deve diventare la nostra ossessione. […] Ricordando a tutti, a partire da noi stessi, che ‘piccolo’ non è bello in sé, ma è solo una fase della vita dell’impresa. Si nasce piccoli e poi si diventa grandi”; ha condannato il ‘bancocentrismo’ italiano e promosso la raccolta di capitali sui mercati azionari (“Il nostro obiettivo come imprenditori è raccogliere capitale adeguato ai piani di crescita industriale: più capitale di rischio, meno capitale di debito. Le imprese devono utilizzare strumenti finanziari alternativi e diventare meno ‘bancocentriche’”); ha promosso fusioni e acquisizioni, anche con realtà straniere, criticando la struttura familiare tipica delle imprese italiane (“Non dobbiamo rimanere soggiogati dalla paura della perdita del controllo”).
Boccia (classe 1964 – Giorgio Squinzi, fino a ieri presidente, era del 1943) ha lanciato il sasso nello stagno del capitale italiano: o si adatta alla globalizzazione o muore. Perché anche i dati del 2015 confermano che la capitalizzazione della Borsa di Milano è tra le più basse dell’Unione europea, appena il 35% del Pil a fronte di un 65% della media Ue, con la Francia che tocca l’81% e la Gran Bretagna il 121%; su 6.000 imprese italiane che fatturano più di 50 milioni, solo 220 sono quotate in Borsa. Spingere il mercato dei capitali significa non solo uscire dal bancocentrismo ma anche favorire i processi di fusione e acquisizione, superando in tal modo il controllo familiare, il capitalismo di relazione e la struttura a piccole/medie imprese. In questa direzione va anche la lotta alla diminuzione del debito pubblico: ridurlo, infatti, significa spostare il risparmio italiano dai titoli di Stato alla Borsa.
Si tratta di una riorganizzazione complessiva dell’economia e della struttura delle imprese italiane, che fino a oggi ha proceduto con lentezza e ora deve farsi più rapida; una trasformazione che si inscrive nel passaggio da una fase capitalistica nazionale a una globalizzata. Ciò significa che la riduzione del numero di imprese, per chiusura o per acquisizione, che si registra da quando è scoppiata la crisi nell’economia reale nel 2008, non è un processo negativo che la politica italiana sta cercando di contrastare, ma il necessario percorso di adattamento alla globalizzazione che sta favorendo, e che oggi esplicitamente spinge.
La situazione ha del paradossale. Sulla sponda dello sfruttamento del lavoro l’Italia si è già adeguata alla globalizzazione: attraversando il Pacchetto Treu, la legge 30 e infine il Jobs Act il lavoro è oggi a uso e consumo delle curve produttive e la retribuzione collegata alla produttività; è a buon punto anche il welfare, dal quale lo Stato si sta rapidamente ritirando per lasciare spazio ai profitti privati; sul lato del capitale, invece, non è ancora pronta. Dunque continua ad annaspare più di altri Paesi, con il Pil asfittico, lo spettro della deflazione sempre accanto e la disoccupazione stabile a due cifre, mentre nelle grandi città si sopravvive grazie alla sharing economy, Airbnb e Uber su tutte. Una situazione che non cambierà nemmeno se il capitale italiano riuscirà a globalizzarsi e a registrare una crescita economica, perché se gli equilibri della globalizzazione trasformeranno davvero la Cina nel nuovo mercato di vendita, a che prezzo potranno essere vendute le merci in Asia, e quindi a quale costo del lavoro potranno essere prodotte nei Paesi a capitalismo avanzato?
E allora più che sharing economy sarebbe corretto definirla survival economy, perché già ora a tenerla in piedi non è la favoletta della condivisione, che ha così positivamente colpito l’immaginario delle nuove generazioni, ma l’incubo della sopravvivenza.
“Airbnb è più di un gruppo di case. È un modo radicale per ripensare l’economia. Circa il 62% degli host di Airbnb usa il servizio per pagare l’affitto o il mutuo” (5), dice Brian Chesky – classe 1981, cofondatore e oggi amministratore delegato di Airbnb, patrimonio netto di 3,3 miliardi di dollari secondo la rivista Forbes – che centra il punto: ci si paga l’affitto o il mutuo. Airbnb si affianca al welfare familiare per compensare le entrate di un lavoro sottopagato, o gratuito (stage) o inesistente. Gli host sono per lo più giovani, che si dividono un appartamento di due/tre camere e ne danno la disponibilità intera su Airbnb, o che vivono in un monolocale o in un appartamento con due stanze e ne affittano una. Il disagio è evidente: pulire casa e cambiare la biancheria ogni volta, fare la questua dagli amici per poter dormire sul loro divano, o sopportare, con il sorriso e la gentilezza, estranei per casa.
Uno studio dell’Università Bocconi intitolato “L’ospitalità alternativa a Milano” del febbraio 2015 – quindi precedente ai sei mesi di Expo, che hanno fatto esplodere il fenomeno – fotografa l’esistenza di 6.800 alloggi proposti su Airbnb, contro 455 alberghi e 398 esercizi extra-alberghieri (B&B, affittacamere regolarmente iscritti al registro, ostelli ecc.). Una vera economia parallela che offre prezzi per tutte le possibilità, dai 20 euro a notte a qualche centinaio, a seconda delle sistemazioni e delle zone.
Certo c’è anche chi ha fiutato l’affare. Analizzando la sola zona del centro storico, lo studio Bocconi prende a campione 505 alloggi: il 61% degli host offre una sola sistemazione (è quel 60% che ci paga l’affitto), il restante 39% due o più case, a Milano e/o in altre città (il 4% gestisce almeno dieci alloggi). Si sono quindi inseriti nel circuito Airbnb anche proprietari di tre o più case (sfitte) e imprese immobiliari: per loro è un’ulteriore occasione di profitto, che si inserisce nella logica capitalistica.
Ma ciò che segna la differenza è quel 60% di individui sottopagati o disoccupati di cui Airbnb mette a valore la casa/camera privata, trattenendo per sé commissioni che variano dal 9 al 15%. In meno di otto anni l’azienda californiana ha superato i 20 miliardi di dollari di quotazione,
mentre l’host è contento se a 30, o 50 o 100 euro alla volta riesce a pagarsi l’affitto. Airbnb non rappresenta solo un ‘nuovo modello economico’, come dice Chesky, ma anche una nuova forma di sfruttamento.
Così come Uber, che trasforma la tua auto privata in un taxi e ti propone di diventare ‘autista’. “Guida quando vuoi, guadagni quello di cui hai bisogno” recita il sito; puoi guidare di notte, o nel fine settimana, quando sei libero dall’altro lavoro sottopagato. Si potrebbe anche riflettere su come l’economia ‘digitale’ stia grattando via la terra da sotto i piedi a quella ‘analogica’ – i tassisti, gli albergatori… – ma questo è un altro discorso.
Di sicuro, tra i ‘se’, i ‘forse’ e i rallentamenti che caratterizzano questa fase della globalizzazione, il processo di sfruttamento dell’Uomo all’interno del sistema capitalistico, italiano e mondiale, è in continua evoluzione e non conosce momenti di arresto. Accanto a quello classico legato alla forza lavoro si è sviluppata la messa a profitto del comune (6), il lavoro gratuito che tutti noi forniamo alle multinazionali GAFA – Google, Amazon, Facebook, Apple – (7) e la sharing economy. E se un tempo era semplice riconoscere la forma e il luogo di sfruttamento, oggi è molto più difficile. Ma è il primo passo da compiere per opporsi.
1) Sono coinvolti: Stati Uniti, Messico, Australia, Brunei, Canada, Cile, Giappone, Malesia, Nuova Zelanda, Perù, Singapore, Vietnam
2) Cfr. Iacopo Adami, Informazione, potere e TTIP, Paginauno 48/2016
3) Lawrence Summers, Segretario al Tesoro degli Stati Uniti dal 1999 al 2001 con Clinton, rettore dell’Università di Harvard dal 2001 al 2006, Direttore del National Economic Council dal 2009 al 2010 con Obama
4) Cfr. Giovanna Baer, Too slow for too long, Paginauno n. 48/2016
5) Rebecca Chao, How the Internet Saves at #PDF14, techpresident.com, 6 giugno 2014
6) Cfr. Giorgio Griziotti, Tecnologie, capitalismo e vie di fuga, Paginauno n. 48/2016
7) Cfr. Renato Curcio, Colonizzazione dell’immaginario e controllo sociale, Paginauno n. 47/2016