intervista di Giuseppe Ciarallo |
Curiosando, come spesso mi capita di fare, tra gli scaffali di un negozio di dischi, sono incappato in un cd dallo strano titolo. Non conoscendo l’autore dell’opera, a convincermi all’acquisto è stato proprio quel particolare; non di rado faccio di queste cose, spesso attratto da elementi apparentemente secondari, come una bella copertina, per esempio: qualche volta sbaglio, quasi sempre ci becco.
Una volta a casa ho avuto la piacevole sorpresa di trovarmi tra le mani un disco estremamente ricco in tutti i sensi, nei testi, nella musica e nell’interpretazione canora. Sto parlando ovviamente de L’insulto delle parole, il tuo ultimo lavoro. Partiamo dal titolo, dunque. Che cos’è questo “insulto delle parole”?
So che il titolo è molto forte e me ne prendo la responsabilità. Anche l’indignazione è forte, ma ‘indignazione’ non è una parola abbastanza potente, consona a rendere l’idea dell’offesa che sentiamo di subire quotidianamente. Ho detto ‘sentiamo’ perché con me è subita dal mio coautore ai testi Kaballà, da molte persone che hanno dato voce ai contributi video del cd come Corrado Augias, Lella Costa, Pino Arlacchi, Marco Travaglio, Cesare Fiumi, e molti altri amici e non. La parola insulta quando è menzogna, volgarità, ingiuria. La parola è insultata quando non è rispettata nel suo significato profondo. Ora, l’utilizzo della parola a propri fini è tema vecchio come il mondo, ma oggi sta accadendo qualcosa di più pericoloso, a mio avviso. Si cambiano le cose mantenendone il nome, o se ne cambia il nome mantenendo le cose come sono. Cambiare nome alle cose: questo crea frastuono, confusione, incapacità di reazione o reazione troppo lenta. Nel frattempo siamo già stati divorati. Questo è il tema che percorre tutto il disco e al quale ogni canzone fa riferimento.
Gramsci diceva che la vera Babele non è dove si parlano lingue diverse, ma dove tutti credono di parlare la stessa lingua e ciascuno dà alle stesse parole un significato diverso…
La ‘parola’ ha un potere smisurato, a volte può fare persino la differenza tra vivere o morire. La ‘parola’ è sacra e chi la manipola sa benissimo ciò che fa. Insulto delle parole è appunto la manipolazione del vocabolario, è togliere spazio alle notizie vere per rendere i telegiornali simili a rotocalchi rosa, è non andare quasi mai a fondo della notizia; ma è anche tenere la televisione accesa quando parli con un ospite in casa, alzare la voce al cellulare quando sei in treno e qualcuno vorrebbe dormire o studiare ma soprattutto non ascoltare i fatti tuoi, è urlare
ai bambini, è offendere l’avversario politico senza entrare nel merito del suo programma.
Mi fermo qui per non annoiare.
Rimane il fatto che il mio è comunque un cd di canzoni dove la musica ha altrettanta importanza delle parole.
Mi viene in mente ciò che diceva, tanti anni fa, il mio maestro cinese di arti marziali a proposito delle armi e della violenza: «Un coltello è un coltello. Lo si può usare per tagliare il pane – ‘dell’amici potrei aggiungere, citando Leo Ferré – o per uccidere un uomo. La violenza è quindi non nel coltello ma nella mano che lo impugna». Mi sembra che lo stesso discorso possa essere applicato alla parola e all’uso che se ne fa…
Certo. Le parole possono essere l’inferno e Calvino mi ricordo scriveva: “Due modi ci sono per non soffrire. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e sapere riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare e dargli spazio”.
Ascoltando e riascoltando i brani del cd, ho notato un’attenzione quasi maniacale per i testi, come se questi fossero il prodotto di una lenta distillazione ottenuta attraverso la riscrittura di innumerevoli versioni prima di giungere a un risultato per te soddisfacente. È così o sbaglio?
È così. Però, come dicevo prima, ho la stessa attenzione maniacale anche nei confronti della musica. Questo è un album nudo: pianoforte, voce e archi. Tutto doveva essere pesato, la scelta di un accordo, di un rivolto meno che un altro, come arrangiare gli archi, il suono della voce, il tipo di pianoforte da utilizzare, anche il tipo di missaggio.
Gli arrangiamenti li ho curati io tranne gli archi scritti da Valentino Corvino con il quale ci siamo confrontati molto. Io volevo qualcosa di nostalgico e struggente che potesse trasportare immediatamente nel passato, non certo come rifugio o fuga, ma semplicemente come memoria. Sono cresciuta con la chanson francese di Brel e Ferré, però ascolto musica contemporanea di tutti i tipi, sono diplomata in pianoforte, uso la tecnologia e tutto questo crea una miscela strana di antico e moderno.
Perché non veicolarlo anche nella musica? Credo che la forza di ognuno di noi stia nell’unicità, nelle caratteristiche personali. Lo scopo di questo sistema, invece, è livellare tutto e rendere tutti simili, anche sottraendo l’intimità alle persone. È tutto enorme. I grandi magazzini, le multinazionali, il commercio globale. Ma nella quantità è raro trovare la cura del dettaglio; è nel particolare che si trova la bellezza, nell’amorevole attenzione, nella passione. Non c’è niente che mi emozioni di più in un’opera d’arte o in una esibizione, del sentirci dentro tanto lavoro, fatica, impegno e, se necessario, il ritrarsi dell’artista per far spazio alle necessità della musica.
Partendo da questa tua cura per ogni singola nota, e dalla fatica insita nella ricerca premurosa del termine più consono, cosa ne pensi del modus operandi di gran parte dei tuoi colleghi, soprattutto i più giovani (e il discorso può estendersi a ogni ambito artistico) che sembrano prediligere il successo facile, le scorciatoie per non dover faticare, ottenendo spesso il solo risultato di proporre lavori sconcertanti per pochezza e mediocrità?
La verità è che dischi non se ne vendono più. Tranne pochissimi artisti che hanno raggiunto la fama quando ancora la discografia funzionava. I colleghi di cui parli spesso sono personaggi televisivi, nati dalla televisione, modellati dalla televisione e spesso distrutti dalla televisione.
Tu non puoi immaginare quante storie di ragazzi conosco, che cadono in bulimia, anoressia, in depressione e che si rovinano la vita perché hanno conosciuto questa ebbrezza del successo troppo presto e soprattutto senza avere preparazione o talento.
Quindi la mia scelta non è eroica. Non avendo niente da perdere ho pensato di dare spazio alla mia immaginazione e solo a quella, che come dice Mozart forse è la vera felicità. Le soddisfazioni che ne derivano sono impagabili. Ho la stima di un pubblico che a mia volta stimo, dei miei allievi, di tanti meravigliosi musicisti che negli anni mi hanno aiutato e anche la possibilità di fare dischi. Cosa volere di più?
Facciamo un discorso di opportunità. Premesso che viviamo nell’epoca degli Amici di Maria De Filippi, di XFactor, dei reality show, il che ha favorito la quasi scomparsa di ogni strumento culturale nella massa dei fruitori che oramai non sembra essere più in grado di distinguere il valore o l’inutilità di un’opera; premesso che in questi squallidi tempi il più insignificante concerto viene spacciato per ‘evento epocale’ e ogni uscita discografica viene definita ‘capolavoro’ (ma quando ci troveremo per davvero di fronte a un assoluto capolavoro, con quali termini dovremo definirlo?), tutto ciò premesso: ma cosa ti è venuto in mente di indirizzare la tua arte in una direzione che, oggi, lascia uno spiraglio così esiguo, dal punto di vista della diffusione di massa? Non penserai mica di essere negli anni ’70?
Credo di avere già risposto in parte alla tua domanda. Diffusione di massa non significa vendere dischi. Le persone che subiscono i consigli della televisione spesso non sono quelle che vanno ai concerti. Certo aiuterebbe molto avere una visibilità maggiore, ma tieni conto, e anche questo molte persone non lo sanno, che per avere visibilità occorre molto danaro e visto che le case discografiche non investono più, cosa significa? Significa che tutto quello che ti arriva non è il talento, ma la persona che ha più soldi o più appartenenza politica, visto che, ogni fascia oraria, ogni canale televisivo è una spartizione tra partiti politici.
Riguardo i superlativi, ‘genio’ può essere Leonardo. Ma non ci basta neanche dire genio, diciamo ‘genio assoluto’. Di ‘assoluto’ c’è solo Dio e non siamo certi neanche di quello. Rallentiamo, rallentiamo. Assistiamo impotenti al decadimento semantico delle parole e purtroppo non solo a quello. Sarebbe bello, come dice Lella Costa nella traccia video del cd, che ognuno di noi adottasse una parola e la proteggesse come si fa con qualcosa di prezioso, perché la parola è uno dei pochissimi mezzi che abbia mo per raggiungere ‘l’altro’, ritrovare un luogo dove il ‘dire’ diventa un disvelare e il ‘pensare’ un prendere cura che custodisce nella fedeltà.
Scusami se insisto sulle parole più che sulla musica… I tuoi testi, per tematiche e linguaggio sono molto, come dire… letterari. Tra le altre cose ho visto che alcune delle tue canzoni sono ispirate da poesie di Edna Millay. Quali sono i tuoi riferimenti letterari e quali invece, quelli musicali?
Sono molti. Ho sempre amato la letteratura ma già dieci anni fa iniziai un certo tipo di ricerca per trovare una strada, tutta femminile, per cantare la nostra sensualità in maniera, a mio avviso, più vera. In Italia credo di essere stata la prima e non avendo riferimenti, sto parlando sempre della canzone italiana, non era facile trovare le parole giuste. L’equilibrio in questi casi è essenziale e si fa presto a esagerare o, per paura, a non dire quello che si vuole.
Mi avrebbe anche dato fastidio se qualcuno avesse pensato a un uso strumentale da parte mia di questo argomento; tanto per far parlare, tanto per attirare l’attenzione. Ecco perché insieme a Kaballà abbiamo lavorato molto in modo da tenere sempre presente questo equilibrio; e in questo ci ha aiutato la musica, la ricerca sul mio modo di cantare e soprattutto certe letture: Neruda, Apollinaire, Anaïs Nin, Verlaine, Baudelaire, Anne Sexton, Hetel Krauze, Henry Miller, André Breton, persino Petrarca e Ricciotto Canudo, o Giovan Battista Marino.
A parte, comunque, questo lavoro particolare, la verità è che vorrei passare il mio tempo a leggere. Ho libri in cucina, in macchina, ne leggo quattro o cinque contemporaneamente. C’è il rischio che una frase di Pessoa penso l’abbia scritta Galimberti… e, come ho scritto nella mia ‘non biografia’, l’unica cosa che mi dispiace dei libri è che non ci posso parlare. Non vorrei annoiare troppo e quindi faccio solo qualche nome in maniera disordinata: Montale, Pessoa, Garcia Lorca, Whitman, Marguerite Yourcenar, Emanuele Trevi, Umberto Galimberti, Gabriela Mistral, Rimbaud e, non ultima, Alda Merini.
Per la musica Tori Amos, Kate Bush, Angélique Kidjo, Gaber, De André, Fossati.
Ti faccio una domanda che ho già posto a un mio grande amico musicista, il bluesman Fabio Treves: se dovessi pensare a un concept album ispirato a un’opera letteraria, su quale libro ricadrebbe la scelta e perché?
Il fatto è che questa idea ce l’ho da molto tempo. È un progetto al quale sto già lavorando e che darà il titolo al mio prossimo disco previsto in uscita per ottobre, novembre. Ma di questo non posso proprio parlartene, ora. Mi spiace davvero.
Torniamo allora a L’insulto delle parole. Nell’ambito di un disco che non presenta un solo attimo di caduta di tono o di ritmo, personalmente trovo particolarmente vicini alle mie corde i brani Fa niente e il conclusivo L’applauso. Parlaci di Fa niente, sull’altro pezzo ci torniamo dopo…
È difficile per me parlare di Fa niente. Quando arrivi a dire ‘fa niente’, quando non senti più dolore, né amore, quando qualche volta ti è venuto in mente persino ‘di potercela fare’, con il tuo talento, con il lavoro e la fatica, ‘di poter cambiare le cose’, nonostante tua madre fosse ‘una schiava’, quando hai invidiato per anni le ‘posizioni erette’ e la proprietà di linguaggio, quando hai visto tua madre baciare il pane prima di buttarlo… Tutto questo potrebbe parlare di me… oppure no. A chi ascolta il disco lascio immaginare. Il fatto è che la particolare scelta delle parole non nasce solo da un accurato uso del vocabolario ma dalla tua storia, da qualcosa che hai visto e che altri, per fortuna, non hanno dovuto vedere.
Pare, dall’andamento del racconto, che l’amore non sia poi così naturale se qualcuno deve sempre sopportare dolore e umiliazione perché possa accadere qualcosa di meglio.
Quello fatto di “passerelle anoressiche e mamme euforiche”, di “gobbi e giullari, ciarlatani mediatici, servi e complici, nani e castrati”, di “nuovi maghi dell’anima, tra volto e maschera” è la triste umanità che abita questo indefinibile spazio/tempo, ed è questo l’humus da cui germoglia e si sviluppa il fiore malato della parola insultata e insultante…
Sì. L’applauso in fondo è una parola. Una parola di consenso. Nei secoli ha avuto il potere di
uccidere.
Dopo un lavoro dai significati così importanti e impegnativi, è difficile tornare ad argomenti più ‘leggeri’. Non vuoi/puoi dirci proprio niente del tuo prossimo disco?
Posso solo anticipare che il prossimo progetto è un’evoluzione di questo, e che tratta un argomento che mi sta a cuore da molti anni. Mi spiace non poter dire di più. Invece mi piacerebbe lasciarti e lasciare i lettori con queste parole di Garcia Lorca a cui sono molto affezionata: “Io se avessi fame e mi trovassi invalido in mezzo alla strada, non chiederei un pane, ma chiederei mezzo pane e un libro… Poiché ancora oggi l’ignoranza ha un terribile dominio e noi tutti sappiamo che dove c’è ignoranza è molto facile confondere il male con il bene e la verità con la menzogna”.
Interprete sofisticata e autrice di grande spessore, Susanna Parigi è stata pianista di Riccardo Cocciante, Claudio Baglioni e Fiorella Mannoia e vocalist di Raf, suona la fisarmonica, canta, scrive i testi, la musica e gli arrangiamenti delle sue canzoni.
Chansonnière fiorentina ma trapiantata a Milano, propone un genere originalissimo che potrebbe essere definito ‘pop letterario’. Sostenuta da artisti come il fotografo Sebastião Salgado e il filosofo Umberto Galimberti, diplomata in pianoforte, insegna al conservatorio di Trento. Ha inoltre collaborato con il celebre chitarrista statunitense Pat Metheny, la cantante israeliana Noa e il bassista e stickista statunitense Tony Levin.
Questi i suoi lavori precedenti: Susanna Parigi (1996); Scomposta (1999); In Differenze (2004); In Differenze: il dvd (2007).