Scrivo queste righe con lo stomaco ancora in subbuglio per la disgraziata visione notturna del programma Mitici ’80, propinato dalle reti Mediaset. Dirà qualcuno che sparo sulla Croce Rossa – che diamine, che moralismo, si dirà, in fondo è solo un programma.
Meno male che è solo un programma. In quanto tale, è suscettibile di rapida obsolescenza, né ci lamenteremo se non seguiranno repliche e ulteriori puntate. Per nostra disgrazia non è solo un programma: è un vero e proprio manifesto del berlusconismo. Per nostra fortuna (tocco ferro e spero) è solo un colpo di coda.
Mi spiego: innanzitutto vorrei spezzare una lancia per l’abolizione volontaria dal vocabolario corrente dell’aggettivo ‘mitico’. Era adeguato al sostantivo corrispondente, ossia ‘mito’, quando il mito stesso governava. La mitologia spiegava il perché del mondo, mica palle, in un linguaggio che al tempo stesso ne celava ai profani la complessità, raccontando loro una bella storia, e permetteva di comprendere, a chi doveva sapere, come stavano realmente le cose.
Si dirà che il tutto non era molto democratico: ma volete paragonare la conoscenza del cielo, tra equinozi, solstizi, comete e musica degli astri, di un orizzonte che è oltre il potere degli umani e che permette di intravedere, se non un numinoso, almeno un bagliore di trascendenza dentro le nostre stesse azioni, con ciò che il mito è stato fatto diventare? Eh sì, perché ha un bel dire Barthes nel suo celebre Miti d’oggi, che a una serie di miti se ne sono semplicemente sostituiti altri, provvisti di una sacralità apparente anche se non meno operativa. Quello che è successo è che dietro la parola mito (ovvero: dietro l’uso che di tale parola si fa a partire dagli anni ’80) adesso c’è lo stesso sapore del chewing gum quando l’avete masticato abbastanza ed è ora di buttarlo via perché non sa più di nulla.
Mito, nel migliore dei casi, sta per “cosa o persona o avvenimento così bello e significativo da diventare un punto di riferimento”. Oggi anche le tagliatelle di tua zia sono mitiche se sono veramente buone. Io mi leccherò i baffi al solo pensiero e ne godrò quando ti deciderai a invitarmi a mangiarle, ma questo mito non mi fornirà neanche la minima idea di come vanno le cose nel mondo e men che mai lassù nel cielo, e quanto al godermi una bella storia, scordatelo.
Dunque in senso proprio e tecnico niente di ciò che oggi viene definito ‘mitico’ lo è davvero: e non ha neanche la grande dignità della leggenda! Aldo Giovanni e Giacomo hanno intitolato un loro film La leggenda di Al John e Jack, e guarda caso non gli è andata tanto bene: sarà che il film non è un granché, oppure dovevano piuttosto chiamarlo ‘I mitici Al John e Jack’?
L’inflazione del cattivo uso produce deterioramento dei termini, inevitabilmente. Ma nell’effimero televisivo? Il deterioramento non dovrebbe trascinare con sé anche la fortuna di un programma? È quello che, secondo me, è infatti successo a Mitici ’80.
Apparentemente presentato come l’ennesimo revival di usi costumi e mode di trent’anni fa (un revival di solito comincia più o meno quando i ragazzi diventano padri di famiglia e i loro padri sono nonni), questo programma è una spudorata autocelebrazione dei fasti del berlusconismo televisivo allora nascente. All’epoca non ci fu gara. Spazzato via il monopolio televisivo da una sentenza della Corte costituzionale, si aprì la porta per una ‘sana’ concorrenza nel mercato: ma chi aveva già capito le potenzialità immense della tv commerciale impiegò pochissimo tempo a papparsi il mercato stesso, complici i governanti craxiani suoi alleati.
Bei tempi, in cui anche la Lega insultava sistematicamente Silvio dalla colonne della Padania dandogli del mafioso e del criminale. Bruttissimi tempi, in cui le tette e i culi delle ragazze di Drive In furono altrettante corazzate contro le caste ballerine Rai. La fame di novità fece il resto, e gli italiani si buttarono a consumare un prodotto nuovo con una voracità resa possibile dalla stessa televisione pubblica, che nei trent’anni precedenti di monopolio, grazie a un bombardamento sistematico, aveva operato una mutazione genetica nel Paese: i cittadini erano divenuti consumatori, anzi, bravi consumatori. Come tali, ora poteva essere loro propinata una notevole mole di pubblicità spacciata per spettacolo e un’altra notevole massa di pubblicità invasiva, pervasiva e sottile: entrambe possedevano e posseggono tuttora una caratterizzazione sessuale estremamente marcata, di cui l’Italia per anni è stata portabandiera in tutto il mondo, Europa in primis.
Drive in è stato il luogo celebrativo del Paese della Cuccagna, mondo mitico fatto a immagine e somiglianza del mondo USA, dove chi consuma è bravo e chi obietta è uno scocciatore da irridere: il resto del pianeta televisivo si è affollato di tette e culi, doppi sensi da avanspettacolo promossi a cultura di massa (il Bagaglino), banalità assolute dei tg e dosi altrettanto massicce di fiction statunitensi e giapponesi (Rai e Mediaset hanno vuotato i magazzini dei network per cominciare poi a prodursi le fiction in proprio, importando e aggiornando al tempo stesso i format stranieri), nani, ballerine, veline, letterine e via discorrendo. Tutte novità, percepibili come tali solo in un Paese affamato di qualcosa di più ‘mo derno’ dei programmi Rai e dei loro mezzibusti soporiferi.
Ricordo, da ex studente ventenne, l’invasione progressiva di culi e tette che cominciavano a fuoriuscire dallo schermo come fossero un blob tracimante. La fine progressiva degli anni di piombo andò di pari passo con l’aumento di quantità, frequenza e tempo di esposizione degli attributi femminili, anche sulle copertine dei giornali: per un periodo il giornale satirico Cuore tenne una rubrica aggiornata e spaventosa sulla composizione tette/culo delle copertine dei magazine più popolari (Espresso e Panorama, per esempio). Ricordo con orrore gli anni ’80, e con comprensibile rinnovato orrore guardo a ogni loro revival, come questo Mitici ’80.
I risultati poco lusinghieri di audience, nonostante le spinte dei parafernalia come i calendari dove le tette giovani imitano quelle che furono, mi confortano. Forse è arrivato il momento della saturazione: dato che non si possono esibire atti sessuali espliciti ma solo allusioni sempre più scoperte, spero in una assuefazione esponenziale dei consumatori di prodotti televisivi (prodotti peraltro oramai omogenei). Ecco l’inghippo: siccome l’Italia è un Paese cattolico a oltranza, l’unico modo per smuovere un poco gente assuefatta, cioè la pornografia tout court, non è praticabile.
Spalmare sesso sui vari canali ha effetti positivi limitati e già caduchi. Per nostra fortuna il cesaropapismo televisivo ha saturato talmente i suoi consumatori che non sarà più vendibile se non a prezzi carissimi, il che lo renderà progressivamente inavvicinabile. Alla stessa maniera gli orrendi divi di plastica e spacchi e capelli cotonati degli anni ’80 sono scomparsi: zombizzarli avrà esiti modesti se non nulli. Al confronto dei danni creati da Mauro Repetto con gli 883 in termini di vocabolario (Sei un mito), i Duran Duran sono seminaristi benemeriti.
Io mi tengo stretti i pochi alieni degli anni ’80 che hanno positivamente sconvolto le orecchie e le chiappe di molti, come questo capolavoro dei Talking Heads, Remain in light (Sire Records, 1980). Il possibile disagio di una sospetta vampirizzazione africana post-coloniale, viene meno quando scopro che sono stato allegramente tre-infettato anni dopo Art Blakey dai (poli)ritmi africani in salsa funky-elettronica dei mezzibusti urbani capeggiati dallo spiritato sciamano David Byrne, con la complicità di elettronica e arrangiamenti di Brian Eno, della tromba astratta di Jon Hassell, assoli chitarristici da elefante lisergico di Adrian Belew e l’ugola black di Nona Hendryx.
Il tutto spalmato su melodie cantilenate quasi atonali, assieme a brandelli di un lamento gospel primordiale, specchio e nemesi dell’egoismo crudele e narcisistico degli yuppie. Ho ancora nelle orecchie la meditazione del brano Listening Wind: il protagonista, Mojique, in cima a una collina, guarda il suo villaggio e ripensa a quando non c’erano ancora gli americani, e nessun luogo si chiamava America: “E pensa ai giorni che riesce a ricordare… ancora”. Il battito ritmico sembra unire i nativi agli schiavi africani che arriveranno, con un’onda di infinita tristezza, per una terra e un popolo invasi e violentati. Mojique, l’Uomo con il vento nel cuore e la polvere nella testa, quasi prega: “Vieni e portali via. Portali via”.
Per favore, portate via gli anni ’80 e ogni loro revival, e se un giorno felice se ne parlerà ancora, spero sia per raccontare una favola ai bimbi che amano spaventarsi: «C’era una volta la Strega con le Poppe al Vento che abitava in un Drive In. Il suo servitore era il nano di Arcore, amico di Bettino Scolagrassi…»
Talking Heads, Remain il light, (Sire Records, 1980)