Alla faccia del Black Friday (astenersi è un obbligo morale, prima di tutto) mi sa che per Natale mi regalo un pezzo di storia, e così colgo anche l’occasione per dare un suggerimento ai miei lettori. L’occasione è stata scoprire su Netflix uno straordinario documento su una altrettanto straordinaria storia, rimasta in cantina per cinquant’anni.
Immaginate di vivere dentro una bolla trasparente e di essere nel 1969. L’avvenimento apparentemente più segnalato sui giornali di maggiore diffusione nazionale, così come sulle televisioni mainstream, è il festival di Woodstock. Ne parlano prima, durante e dopo. Ne parlano talmente tanto che Woodstock diventa una sorta di leggenda che si trascina nel tempo. Ma appena prima di Woodstock e neanche cento miglia a sud, ad Harlem, il cuore più nero dell’intera New York, c’è un’altra bolla, probabilmente più grossa della prima, dentro la quale si svolge un altro evento culturale di massa. Si tratta dell’Harlem Cultural Festival e il film-documentario che lo testimonia e ci emoziona ha per titolo Summer of Soul (…Or, When the Revolution Could Not Be Televised), film che segna l’esordio alla regia di Ahmir “Questlove” Thompson, l’ex batterista di quello straordinario collettivo di poeti e musicisti hip-hop che è stato The Roots.
Thomson ha scavato dentro le quaranta e passa ore di registrazione disponibili (il festival è documentato nella sua interezza!) e ha messo assieme una solida e coinvolgente narrazione di due ore e mezza. Qualcuno potrà disquisire in futuro sulla scelta dei brani, se mai venissero rese disponibili tutte le registrazioni. Io però considero una grossa fortuna che qualcuno dentro la cultura nera si sia accollato il compito di dare forma a questo magma, e mi accontento. Anche perché le registrazioni originali sono intervallate da interviste a quelli che furono i protagonisti, a loro volta cucite da commenti del regista con materiali d’archivio dell’epoca. Che succede negli USA in quel periodo? Robetta. Tipo che da inizio anni ‘60 c’è stata una seria impressionante di disordini politici, rivolte, omicidi di leader politici: Medgar Evers nel 1963, Malcolm X nel 1965, e poi il Reverendo Dr. Martin Luther King Jr. e Robert F. Kennedy nel 1968. Come se non bastasse c’è l’escalation della guerra in Vietnam e l’elezione a presidente di un guerrafondaio come Richard Nixon. Nell’anno del festival invece, altra robetta: il 1969 è stato l’anno dello sbarco sulla Luna, il culmine della cultura giovanile bianca a Woodstock e la sua scomparsa prematura con gli omicidi di Manson a Bel Air. Insomma: il governo USA mostra i muscoli al mondo e tutta la controcultura hippie va nel tritarifiuti, compresa la sua musica fatta di buoni sentimenti.
Ad Harlem, New York, questi problemi sono meno importanti dell’ascesa della coscienza nera. Se si ascoltano bene le interviste ci si rende conto della consapevolezza dei neri che disprezzano lo sbarco sulla Luna: con gli stessi soldi, dicono, si sarebbe potuta estinguere la povertà in tutti i ghetti neri in un solo colpo. E invece no: repressione poliziesca violentissima e invasione di eroina a bassissimo costo in tutto il ghetto. Oggi sappiamo, dopo la desecretazione di molti documenti dell’epoca, che la cosa non fu affatto casuale, così come non lo è stata in Europa e specialmente in Italia (operazione Blue Moon [1]). Ma per l’intanto, per chi organizza e chi partecipa, Harlem è la Luna. Nel senso che non si è mai data l’occasione di vedere tutti assieme e gratis per una settimana un numero così impressionante di stelle della musica.
Il film sottolinea con una certa ironia la fattiva collaborazione e sponsorizzazione del popolarissimo sindaco di New York, il Repubblicano John Lindsay (che diventerà Democratico nel 1971) oltre che lo sponsor commerciale vero e proprio cioè il caffè della Maxwell House e per i beveraggi l’unica azienda di soft drinks posseduta da una persona di colore, cioè il bandleader jazz Ben Branch, che rincontreremo tra poco. Il festiva ospita 50.000 persone al giorno e in totale fa impallidire Woodstock.
La cerniera tra i due eventi è costituita da Sly and the Family Stone, il gruppo probabilmente più rivoluzionario di entrambi i festival, in termini politici e musicali. Basta che Sly e i suoi attacchino a suonare e tutto cambia, irreversibilmente. Innanzitutto ci sono due musicisti bianchi in un gruppo di neri e uno è Gregg Errico, il batterista, che di solito è un ruolo fisso per un nero e l’altro è Jerry Martini che suona il sax, ma accidenti non sono mica bianchi normali, sono italoamericani e le due comunità a New York non si amano troppo! Poi ci sono addirittura due donne, e va bene che una è Rose, la sorella di Sly (tastiere e voce) e di Freddie (chitarra e voce), visto che il gruppo anche nel nome è una famiglia, ma l’altra donna, Cynthia Robinson, è un altro scandalo perché suona la tromba! A mettere a tacere tutti c’è il bassista Larry Graham, che per fortuna è nero e pure del Sud (Texas) e soprattutto suona il basso funk in un modo stravolgente, stoppando le corde con la mano sinistra e percuotendole col pollice della mano destra: è la tecnica slap, bellezza, è la cifra del gruppo e da lui in poi nessuno potrà farne più a meno. Solo per dirne una, quel semidio di Miles Davis deve moltissimo a Sly e a Larry Graham, già a partire dalla svolta elettrica di Bitches Brew. Ma questo avviene perché Larry in quel momento è andato a suonare nella band della seconda moglie di Davis, cioè Betty Mabry, la donna che ha cambiato radicalmente il look e il sound del marito oltre a suonare un funk indemoniato che tiene sulla corda (soprattutto per i testi) tutti i maschi d’America, neri e bianchi – e mica per caso nella band ci sono membri dei Tower of Power e delle Pointer Sisters.
E già da questo che vi ho detto cominciate a capire che al di là del festival sono le sue ramificazioni che fanno la storia della musica USA, specie e soprattutto quella di matrice nera. Per farvela breve sul palco di Harlem saliranno musicisti del calibro di B.B. King e Stevie Wonder, autore di un’infuocata session alla batteria (!), ci sarà Nina Simone al culmine del suo impegno politico (avrà minacce d’arresto per incitamento all’odio razziale) e della sua tremenda capacità di coinvolgimento, c’è la divina ala pop del movimento costituita da Gladys Knight and the Pips; c’è la coppia voce/batteria più bella della storia del jazz, cioè Abbey Lincoln e Max Roach, ci sono gli stellari ‘cugini’ latinoamericani come Mongo Santamaria e Ray Barretto, e ci sono i ‘cugini’ africani della diaspora dell’apartheid come il marito di Myriam Makeba, il trombettista Hugh Masekela; ci sono i 5th Dimension reduci dal musical Hair e la sua Era dell’Acquario, e c’è infine e soprattutto l’intreccio a cui non ci si può sottrarre nelle comunità nere, quello tra fede religiosa, musica e impegno politico. Su questo palco salgono i Singers del compositore, direttore e arrangiatore Edwin Hawkins, che venderà 7 milioni di copie con la sua Oh Happy day oltre a quattro Grammy Award. Sono loro che preparano il terreno a due pezzi da novanta: la cinquantottenne Mahalia Jackson, regina indiscussa del gospel, e la trentenne Mavis Staples degli Staple Singers. In comune le due cantanti hanno il reverendo Martin Luther King e tutto il movimento dei diritti civili dei neri d’America.
Quando Mahalia sale sul palco dietro di lei ci sono il giovane reverendo Jesse Jackson e il bandleader Ben Barker, che erano al fianco del reverendo King quando questi venne assassinato. Ma anche Mahalia e gli Staple Singers avevano seguito King nelle sue marce e avevano cantato ai suoi raduni. Le ultime parole di King, rivolte a Barker, lo invitano a suonare Take my hand, precious Lord al suo funerale. E così sarà, per la voce e le lacrime di Mahalia. A un anno di distanza sono tutti assieme sul palco di Harlem. Mahalia non sta bene, teme di non farcela a intonare proprio quel brano, un po’ per la salute un po’ per l’emozione e chiama ad aiutarla la giovane Mavis Staples. È uno dei duetti più straordinari ed emozionanti dell’intera storia della musica nera, ed è, giustamente, un passaggio iniziatico. Le due si passano il microfono, si sostengono a vicenda quando la musica sale, giocano a rincorrersi sulle scale basse, il pathos di Mahalia sostiene la graffiante energia della voce roca di Mavis. È un’apoteosi, per nostra fortuna documentata, ed è il climax emozionale del film. Persino le Black Panthers, che fanno il servizio d’ordine perché la polizia di New York si è rifiutata, sono commossi dietro le loro lenti a specchio.
Tutto il festival venne seguito da alcune Tv locali e non ci fu una sola grande rete televisiva nazionale disponibile a distribuirlo. Per anni si è provato a trovare un regista che volesse montare i filmati: solo negli anni ‘70 ci provò il produttore e regista Hal Tulchin, ma di nuovo non si trovò nessuno disponibile. Sicché, per parafrasare il titolo di un famoso brano di Gil Scott-Heron, The revolution will not be televised, la rivoluzione non sarà trasmessa in tv, il sottotitolo del film ci racconta un’esperienza fantastica quanto amara, visto che questo materiale, se montato all’epoca, aveva decisamente un potenziale eversivo e invece dormì in archivio per cinquant’anni. Molti degli intervistati sono un po’ melanconici nel rivedersi, altri sono molto fieri e coscienti. Più di tutti mi piace citare Mavis Staples, una voce e una personalità di cui pare nessun musicista né bianco né nero possa fare a meno, da Prince indietro sino a Bob Dylan (che voleva sposarla, ma lei disse di no perché era troppo giovane). Sono contento che la Stax abbia deciso l’edizione in cofanetto di 7 CD di tutti gli album in studio degli Staple Singers, editi a suo tempo in vinile… altro che le canzoncine di Natale!
1) Cfr. Afshin Kaveh, Anni Settanta. Operazione Blue Moon, Paginauno n. 66/2020