di Felice Accame e Davide Bigalli |
Incontro dibattito sul saggio Il ritorno del re di Davide Bigalli (Bevivino, 2011) alla libreria Odradek di Milano, 6 maggio 2011
Felice Accame. Tra il 1950 e il 1960, Alfred Lukjanovic Yarbus, psicologo russo, compì alcuni esperimenti aventi lo scopo di verificare i movimenti dei bulbi oculari in rapporto a compiti visivi e categoriali. Per uno di questi esperimenti (pubblicati a Mosca nel 1965 e già in precedenza ripresi e modificati da Silvio Ceccato al Centro di Cibernetica e di Attività Linguistiche di Milano), Yarbus si servì di un’opera dipinta dal pittore russo Ilja Repin nel 1884 (un’opera che, nel 1987, è stata re-inventata da Robert Hammerstiel come Hommage an Ilja Repin) che era stata intitolata Il ritorno dell’inaspettato. I risultati dei tracciati dei bulbi oculari dei soggetti all’esperimento furono i seguenti: la guida linguistica – nel caso costituita dal titolo e dalla domanda relativa al tempo da cui chi, entrando in una stanza dove si muovono altre quattro persone, era stato assente – vincolava la percezione orientandola essenzialmente verso i volti dei protagonisti principali – chi entrava, chi scattava in piedi al suo entrare, chi spostava repentinamente la propria attenzione. Nella postura delle teste si vede – si crede di vedere, si categorizza – l’aura del ritornato e le sue priorità in ordine alle relazioni in essere (prima l’ipotetica madre, poi la sorella, poi i bambini, nessuna attenzione per chi gli ha aperto la porta),
l’intensa emozione di chi lo riceve, un misto di sorpresa, riverenza e affetto.
Diciamo che la guida linguistica – quasi costringendo alla categorizzazione – rivela tutti gli investimenti valoriali effettuati sul ritorno.
Il ritorno assume un significato simbolico anche nella rappresentazione della vita quotidiana. Tanto è vero che, tra i tanti titoli ottenuti da una frettolosa ricerca in film e romanzi che s’intitolano al ‘ritorno’ di qualcuno, ho fin trovato un certo Joe Dakota a firma di Richard Bartlett, che, in italiano, nel 1957, fu trasformato in Il ritorno di Joe Dakota. A testimonianza del fatto che, pur di usufruire del clima ideologico dell’attesa e della sua soddisfazione – pur di caricare di valore la persona o il personaggio – si è pronti anche a far tornare anche chi partito non lo è affatto.
La narrativa si alimenta di storia – lo insegna il libro di Bigalli – e la storia, ovviamente, si alimenta di narrativa. Tanto è vero che, in chi ritorna senza mai esser partito – l’impostore di turno – spesso il confine tra consapevolezza e inconsapevolezza si attenua.
Come racconta Bigalli, c’è chi – risultato di forze che lo trascendono – ci lascia la pelle per poter recitare fino in fondo il canone dei valori che il suo ritorno vuole incarnare. A maggior ragione allorché si tratta di re – persone che si assumono un carico di responsabilità tremendo, che parlano e agiscono in nome di popoli interi, di nazioni, di imperi – non di rado circonfusi in aure di religiosità.
Dando un coerente seguito al precedente Il mito della terra perduta (Bevivino, 2010) (1) questo libro di Bigalli – che spazia dal Graal e da re Artù ai vari Sebastiani che avrebbero dovuto rappresentare il riscatto politico e militare del Portogallo ma sfiora anche il duo Bruneri/Canella impersonificatosi nello ‘smemorato di Collegno’ – insegna anche che il carico simbolico del ‘ritorno’ è tale da far passare in secondo piano, presso popoli più o meno interi, qualsiasi coerenza storico-narrativa. C’è da spaventarsi per il modo con cui viene accettato e accolto il revenant e c’è da spaventarsene ancora di più dal momento in cui, ragionando – cercandosene una ragione – si formuli l’ipotesi che questa fiduciosa credenza serva – serva parecchio – a mascherare, nascondere, occultare, rimuovere, altri spaventi – ben più insopportabili dell’incoerenza narrativa che si è disposti a ingerire e a metabolizzare.
Davide Bigalli. Innanzitutto devo premettere che in questo libro non c’è tutto quello che ci potrebbe essere. La forma, il racconto, la narrazione di un re che ritorna dopo essere stato dato per morto o per scomparso è un topos, un luogo comune che percorre tutte le culture e tutte le letterature, e io mi sono limitato a scegliere solo quegli esempi che maggiormente mi interessavano.
L’elemento che caratterizza tutte queste storie è l’importanza del corpo: il corpo del sovrano scompare, ed è la scomparsa a generare l’apertura alla speranza, all’attesa del ritorno. È per questo che Mengistu, per esempio, teneva il corpo di Hailé Selassié sepolto sotto una scrivania, nell’ufficio dei servizi segreti. Ed è per questo che probabilmente, nella recente vicenda di Bin Laden, la questione del corpo finirà per saltare fuori: perché stiamo assistendo alla creazione del nucleo originario della narrazione di un re che ritorna.
Non solo a causa della conduzione dell’impresa da parte dei Navy Seal, che non è stata né chiara né brillante – e quindi permetterà il nascere di nuove leggende – ma anche per il fatto, che tutti sembrano dimenticare, che Bin Laden era considerato il Mahdi, ossia l’uomo nel quale si incarna la figura del Messia islamico, più volte ritornato nella Storia dell’Islam a partire dai tempi di Maometto fino all’Ottocento, quando gli inglesi furono sconfitti in Sudan dalle truppe, appunto, del Mahdi.
Ma il corpo è anche l’unica dimensione con la quale i seguaci, i credenti, si confrontano, quando il re ritorna. Si comincia a osservare la sua fisicità, vengono misurate l’altezza, le fattezze.
Don Sebastiano, il re portoghese, viene addirittura denudato e misurato, in una sorta di autopsia da vivo, nella quale si constata che un lato del corpo è più corto dell’altro, che un braccio è più corto dell’altro, che la verruca del mignolo del piede è lunga quanto un altro dito; tutti gli elementi, che vanno da una generica somiglianza – il colore dei capelli, la barba – fino all’analisi fisica del corpo, vengono analizzati nel dettaglio. Perché il corpo è il luogo della sacralità del sovrano; il corpo è l’elemento che viene conservato quando il re muore. E il fatto che il corpo dei sovrani di Francia venisse spezzettato e distribuito nel regno stava a indicare l’unità del regno: il regno si ricompattava attraverso una specie di eucaristia funebre del corpo del sovrano.
L’impostore che si presenta come il re che ritorna è un uomo, generalmente, dalla personalità borderline, disturbata da crisi di identità. Sono spesso figli bastardi o illegittimi, persone in crisi d’identità e quindi alla disperata ricerca di una identità; identità che viene loro offerta da un ruolo di primo piano, da un ruolo di estrema visibilità nel quale si identificano per un’esigenza psicologica di fondo. Arrivando anche a negare l’evidenza, a farsi giustiziare senza mai confermare l’inganno.
Queste figure sono importanti perché stanno a indicare crisi nelle continuità dinastiche. Quando una dinastia è in crisi, ecco che emergono gli impostori, i quali si insinuano in un gioco di aristocrazie. Un esempio emblematico è quello degli York: Lambert Simnel viene spinto ad agire come un legittimo sovrano York dalla nobiltà irlandese, la quale aggredisce dalla periferia il cuore della monarchia inglese, il cuore di Londra, il cuore dell’aristocrazia londinese. Quando il legittimo sovrano lo sconfigge, non lo uccide: dato che il giovane ha un nome che richiama quello di una torta, lo costringe a fare il cuoco di corte. Organizzando poi una cena alla quale invita proprio quella nobiltà irlandese che aveva sostenuto il falso York, e che ora lo vede servire a tavola.
Questo aspetto sta a indicare come l’impostore, questa figura borderline, sia spesso la punta di emersione di complotti che servono a squilibrare i giochi di potere all’interno delle aristocrazie.
Più rari i casi, infatti, nelle monarchie in cui la continuità dinastica è sicura. In Francia, per esempio, non abbiamo grandi impostori, salvo casi sporadici quando la dinastia dei Borboni tenta di sostituirsi ai Valois: in quel frangente si è assistito all’emergere di una serie di figure di impostori, anch’essi eterodiretti, in questo caso dal Papa. È attraverso il Papa che i Borboni diventano pretendenti del trono dei Valois.
Un altro aspetto interessante del ‘ritorno del re’ è la questione della credenza popolare: perché la gente ci crede? Ci sono interi popoli che credono al ritorno del sovrano, popoli che vivono in un processo di mancata elaborazione del lutto.
Il Portogallo, per esempio. Il re Sebastiano muore, non si trova il cadavere (o meglio, viene ritrovato sfigurato, quindi di difficile riconoscimento) e il popolo, che in un colpo solo perde il re, la propria aristocrazia, l’esercito, un impero, la libertà e l’autonomia, non riesce a elaborare il lutto.
Opera al contrario un processo di rimozione: il re non è morto, il re è nascosto e vi starà per sette anni perché deve scontare delle pene, aspettiamo che ritorni. Ed è un ritorno alla grande, nel quale non c’è semplicemente il risarcimento del danno, la chiusura della falla che si è aperta, ma addirittura un potenziamento: il ritorno del re coinciderà con la ripresa, con una rinnovata potenza del regno che diverrà addirittura planetario e che potrà avere una missione, una funzione, che è quella di assicurare la cristianizzazione del mondo; e con la cristianizzazione dell’intero pianeta, e di conseguenza la fine dei tempi, si realizzerà l’avvento di Cristo. Quindi una missione provvidenziale:i portoghesi come popolo eletto.
Questo elemento è qualcosa di realmente sentito dalla popolazione, tanto che se esaminiamo la cultura portoghese vediamo che Sebastiano esiste anche dove non si penserebbe di poterlo trovare: in un autore come José Saramago, per esempio. Scrittore fortemente laico, i cui romanzi sono tuttavia pervasi da un’attesa del re e di una ripresa del Portogallo. Che poi Saramago intenda il ‘ritorno’ come quello del Portogallo democratico, del Portogallo europeo, questo è un altro discorso. Ma il caso più avvincente è quello di Fernando Pessoa, che concepisce la sua visione politica come una variante forte del sebastianismo.
C’è, quindi, l’aspetto della speranza, di un sogno che deve essere il risarcimento di una sofferenza, dietro al racconto di certe attese. La sofferenza presente nel popolo afroamericano che si esprime in Marcus Garvey e Bob Marley, la sofferenza dei portoghesi che si vedono emarginati e tagliati fuori da quello che poteva essere il normale destino di un Paese imperiale che dominava il mondo. Ecco allora che la speranza, il risarcimento, si identificano nella figura del ritorno del re. Ecco che nel salto indietro, poderoso, che facciamo in quello che si chiama inconscio collettivo, c’è la saldatura tra la comunità concreta e il suo sovrano, il sovrano che è insieme guida e vittima; è il mito, la leggenda, che troviamo nel racconto del re pescatore. Il re malato infetta il Paese, infetta il regno. Se il re è ammalato, il regno non è che un regno turbato da morti, carestie, epidemie. Nel momento in cui il re viene curato, allora il regno torna a ritrovare la salute, ritorna a splendere e a brillare al sole, ritorna a vivere una vita tranquilla e felice. L’aspetto drammatico è la profonda tragicità esistenziale di queste storie: l’attesa della salvezza, di qualcuno che ci porti fuori da una condizione di dolore, di penuria. La condizione tipica dei romanzi ‘arturiani’: Re Artù, in fondo, tornerà. Sì, ma quando? Re Artù sta ad Avalon, curato da Morgana e dalle sue sorelle, ma le ferite di Artù guariscono per merito di Morgana e delle sue sorelle, di giorno, ma di notte si riaprono. Il re rimane sempre malato, il re rimane per sempre malato. La vita è per sempre un dramma.
(1) Cfr. Storia e geografia della colpa, Felice Accame, Paginauno n. 20/2010