di Sabrina Campolongo |
Recensione de Lo schiaffo, Christos Tsiolkas
mmaginate un marmocchio iperviziato, prepotente, senza freni e aggressivo, immaginate di doverlo sorbire per una giornata intera, durante un barbecue, di dover cercare parole per i vostri figli esasperati che chiedono una giusta punizione alle sue malefatte, mentre i genitori del delinquentello sorseggiano seraficamente vino bianco lanciando di tanto in tanto occhiate indulgenti verso il loro bambino che sta strappando i capelli alla figlia di qualcun altro, o distruggendo suppellettili, o minacciando un coetaneo con una mazza da cricket.
Per quanto il romanzo Lo schiaffo di Tsiolkas sia ambientato in un sobborgo residenziale di Melbourne, Australia, non è difficile immedesimarsi nella situazione e avvertirne il senso di impotenza, la frustrazione, immaginarsi sulla via del ritorno a casa, nella privacy della propria auto, a sfogare la rabbia e l’indignazione proferendo giudizi feroci e inappellabili nei confronti dei genitori molli o inetti. Questo è grossomodo ciò che accade normalmente: sorrisi tirati e sguardi indifferenti o al più imbarazzati durante la tempesta, parole di blanda comprensione, addirittura, che lasciano posto alla condanna più violenta non appena ci si ritrova tra fidati, a minacce sul genere ‘so io cosa ci vorrebbe per un bambino così’.
Ma ecco che se, malauguratamente, uno a caso dei presenti, non il genitore o altro avente diritto sul pargolo, si alza in piedi e, senza nemmeno preoccuparsi di nascondere un ghigno soddisfatto, appioppa alla piccola peste quello schiaffo sonoro che prudeva sui palmi di tutti i presenti, beh, allora la faccenda si fa diversa, molto diversa.
Il suono secco di una mano adulta che colpisce con forza una rosea guancia infantile è quello di uno strappo, segna un punto di non ritorno, finisce per l’opporre mariti e mogli, amiche del cuore, genitori e figli. Nella cosmopolita, multirazziale, multiculturale middle class emergente australiana, con i piedi che affondano ancora nel proletariato di padri immigrati da ogni parte del mondo e lo sguardo proiettato verso un futuro sfavillante, la scelta della parte della barricata su
cui stare rispetto alla faccenda – tra i ‘qualcuno doveva pur farlo!’ o, al contrario, nella schiera de ‘i bambini non si toccano’ – prende proporzioni ben più vaste e imprevedibili.
L’episodio dello schiaffo e i suoi strascichi – denuncia, tentativo di conciliazione e quindi processo – si declina nelle vite di otto personaggi, intrecciandosi con le loro storie personali, i molti scheletri nell’armadio, il rapporto di ciascuno con la violenza, subita, osservata o inflitta, la loro onestà, spingendoli – individualmente e in segreto – davanti a uno specchio.
Nessuno alla fine pagherà, dall’autoprocesso usciranno tutti assolti per insufficienza umana, si potrebbe dire. Ogni ritratto è tracciato con crudele precisione, ma anche con una buona dose di pietas e benevolenza.
Così il narcisista Hector adora davvero la moglie Aisha, per quanto abbia ceduto alla tentazione di sedurre la giovanissima Connie; il cugino Harry, quello che ha mollato il ceffone alla piccola peste, è tutto sommato un buon padre di famiglia, pur con un’amante e la tendenza – ma si sforza di controllarsi e ci riesce quasi sempre – a mettere le mani addosso alla moglie e a chiunque gli metta i bastoni tra le ruote; la sardonica Anouk in fondo è buona, anche se non risparmia certo giudizi feroci sulle amiche e allo stesso tempo le tiene all’oscuro di quei segreti che scatenerebbero il loro giudizio; Aisha riesce a fare sentire bene tutti quelli che la conoscono, così che nessuno immagina la sua sostanziale freddezza, e tanto meno se ne sente ferito; la debole Rosie, la madre del piccolo tiranno, occupata in apparenza per la maggior parte del suo tempo a offrirgli il seno (da più di tre anni), per quanto isterica paga lo scotto di una feroce insicurezza e tiene in piedi eroicamente il matrimonio con un uomo alcolizzato e inetto.
Insomma, i ragazzi sono anime davvero pure, anche se non fanno che impasticcarsi e fantasticare sul sesso, i genitori, nonostante la tendenza generale a bere troppo e ad andare a letto con chiunque, cercano di fare del loro meglio, le zie strambe sono piene di attenzioni e tenerezza, così come i padri gay, le madri lesbiche, gli amici e le amiche ex teste calde ora convertite all’islam, e anche i nonni greci, vestigia viventi di un mondo sorpassato, regalano un passaggio di sobria poesia nel capitolo dedicato a Manolis, padre di Hector.
Nel piccolo ecosistema creato da Christos Tsiolkas tutto, alla fine, sembra tenersi assieme e girare morbidamente sulla rotaia di una morale condivisa, ben oliata da una generosa dose d’ipocrisia: passate e presenti violenze, tradimenti, vizi privati… alcol sesso e droga scorrono a fiumi, in ogni capitolo, senso di colpa ed eccitazione sessuale sembrano essere i principali motori che muovono i personaggi, ma, nonostante tutto, i loro passi ‘pubblici’ vanno sempre nella direzione della famiglia, del nido, degli affetti.
Ci appaiono quasi come bambini lasciati soli in casa: al tempo stesso eccitati fino al parossismo e spaventati dalla loro libertà, insicuri, edonisti, inconcludenti, ma più che pronti a tornare in riga, a tornare a fare sul serio, al ritorno dei genitori. Fanno tenerezza. E, per dirla come il vecchio Manolis, “c’è qualcosa di sbagliato nel mondo quando il vecchio ha compassione del giovane”.
Solo l’episodio dello schiaffo, la plateale violenza sotto agli occhi di tutti, sembra avere il potere di mettere temporaneamente a rischio quel fragile ma perfetto equilibrio. Come dire che tutto è lecito, purché portato avanti discretamente o, almeno, ammantato di una patina glamour, mentre un solo gesto compiuto sotto al sole, rozzo e spudorato fin nelle intenzioni, ingiustificabile ma anche profondamente umano, costituisce una minaccia allo status quo, deve essere stigmatizzato, analizzato, passato al vaglio della legge, della famiglia, dei rapporti interpersonali. L’aspetto più snervante della faccenda è che da subito è evidente che non sarà possibile evitare di prendere posizione: l’atto è stato così deliberato da non poter essere eluso, si frappone come un ostacolo inevitabile fra i personaggi, ma anche tra ognuno di loro e l’immagine che ciascuno si è costruito e ama coltivare di sé.
Eppure, anche questo maremoto viene superato. Scatena colpi e contraccolpi, è vero, ma alla fine tutto viene assorbito; il carnevale di sesso, violenza, segreti, alcol, droga, barbecue e mezze confessioni riprenderà con la stessa disperata allegria.
Nessuno dei personaggi si discosta dalla morale claustrofobica e sessuofobica borghese, quel modello è stato completamente introiettato, per quanto platealmente lo si trasgredisca.
Nessuno mostra serie intenzioni di provare a demolirlo, di affermarne uno nuovo.
Qualche residua speranza l’Autore sembra regalarcela nell’ultimo capitolo, dedicato al giovane Richie, omosessuale e sfigatello, alle prese con la costruzione del suo campo di valori. Superando il tradimento della figura paterna, l’idealizzazione della madre e dell’amica del cuore, dopo un tentativo poco serio di suicidio, è alla ricerca di un’etica personale, di uno scheletro, leggero, traslucido, elastico che possa tenerlo in piedi senza appesantirlo. Il suo avanzare danzando, in un crescendo di musica, baci, incontri e promesse, riesce a emozionare, la sua innocenza adolescenziale, il suo romanticismo ci tocca e ci lascia con un sapore dolce sulla lingua. In verità, non è difficile immaginarlo tra qualche anno, con una villetta dal prato intonso, una bella moglie e un paio di bambini, mentre, dopo averli messi a letto leggendo loro una fiaba politically correct, gira per bar a rimorchiare giovanotti.
Non bastano i consigli di una zia vetero-hippy all’adorata nipotina su come e quante droghe assumere, mentre le aggiusta addosso uno dei suoi vecchi abiti, agghindandola come una principessa per il ballo; non basta mettere nel calderone una quota di personaggi omosessuali, neri, musulmani, asiatici, per creare un nuovo modello sociale. Del resto, questo non è compito di un romanziere, a cui possiamo chiedere al massimo di mettere in discussione quello esistente. Si può dire che Tsiolkas ci riesca, scandalizzando e divertendo il lettore, sebbene l’attacco non appaia così netto e feroce, scivolando alla fine, in una sorta di malinconica nostalgia.
Il rischio – che vale la pena di correre, comunque, anche solo per il puro piacere di una buona lettura – è di ritrovarsi a chiudere un romanzo come Lo schiaffo con un sospiro e un’amara, inconcludente riflessione da anziano alla panchina, sul genere: ‘Si stava meglio quando si stava peggio’.
O, al massimo, si stava uguale.
Lo schiaffo, Christos Tsiolkas, Neri Pozza, 2011