di Luciana Viarengo |
Recensione de L’italiano, Sebastiano Vassalli
Secondo un metodo forse poco ortodosso del quale già avevo accennato, la sorta di “degustazione” che mi offro prima di accingermi alla lettura di un libro mi ha permesso di scoprire la dedica che appare, con discrezione, al termine dell’ultimo lavoro di Sebastiano Vassalli, L’Italiano, uscito lo scorso giugno per i tipi di Einaudi.
La dedica è a Giulio Bollati ed è importante, a mio parere, non tanto per il riconoscimento di paternità di un titolo che rimanda all’opera omonima dello stesso Bollati (1983), quanto per la datazione di quei discorsi che, “in giardino sotto l’albero dei cachi”, avranno di certo accompagnato quel testo primigenio. Un quarto di secolo fa, anno più anno meno, Sebastiano Vassalli e Giulio Bollati parlavano di carattere nazionale. Vassalli ne riparla oggi ai suoi lettori con questo nuovo libro, perché tutto cambia senza che nulla cambi davvero.
Al termine di un suo precedente e famoso romanzo, La Chimera, edito sempre da Einaudi nel 1992, Vassalli cita un verso del poeta spagnolo Luis de Gòngora y Argote : “Di un uomo che cosa resta? / Terra, polvere, fumo, ombra, nulla”. Per Vassalli, tuttavia, di un uomo resta anche un’altra cosa, la più importante: la sua storia.
Nell’opinione dello scrittore – che mi trova entusiasticamente concorde – la storia (badate bene, non la Storia) è la sola, vera possibilità di eterno toccata all’uomo, l’unica forma di prevalenza consentita sulla caducità di ogni essere vivente, almeno per coloro i quali non accettano di demandare ad altre forme di eternità una possibile vittoria sul divenire umano.
La scelta di ogni scrittore di narrare, di intraprendere quel cammino affascinante che lo porterà all’interno della storia del singolo e, di conseguenza, alla necessaria analisi della documentazione storica di vicende o epoche nelle quali quella stessa storia si dipana, fornisce allo scrittore stesso – prima ancora che al suo lettore – la chiave per un’interpretazione della realtà attuale, del presente che, così com’è oggi, ha ben poco da raccontarci.
Mai questo processo è stato tanto palese come nel caso de L’Italiano, un libro che sarebbe inesatto definire una raccolta di racconti. Più adatta sarebbe la definizione di mosaico, sebbene anche questa non centri perfettamente l’obiettivo. Forse quella con un novello dottor Frankenstein che assembli i pezzi necessari per offrirci il suo homo italicus direi che è la similitudine più efficace –soprattutto a giudicare dalla scarsa avvenenza del prodotto finale.
I racconti potrebbero essere dodici, ma il dodicesimo è, in realtà, un sipario che apre e chiude il libro, una sorta di castone, prezioso almeno quanto le undici pietre che racchiude e valorizza. In questo racconto/sipario, l’Italiano si presenta al Giudizio Universale con tutto il suo bagaglio di opportunismo, di vigliaccheria, di furbizia. Impossibile non vederlo, dapprima, farsi piccino piccino e fintamente distratto per sfuggire all’occhio di Dio, e assumere poi, con mimica facciale e gestualità esasperate, l’aria innocente che renda credibile il suo “Chi, io?”.
Per cercare di comprendere quale sia davvero l’Italiano, definizione nella quale anche quest’ultimo rifiuta di riconoscersi, Vassalli ci racconta di undici personaggi realmente esistiti, in un contesto storico avallato da documentazioni rigorose che spaziano nei secoli. Nel caso dei primi dieci, sceglie tuttavia un momento particolare, privato, che li mostri al lettore per ciò che sono prima di tutto: esseri umani. E intorno a loro l’immenso tessuto delle vicende personali e nazionali che li hanno resi personaggi pubblici. Da questo connubio, in filigrana, ecco delinearsi il famoso carattere nazionale.
In tal modo, i diversi racconti che a una lettura superficiale possono apparire come le vicende di quel particolare personaggio, divengono in realtà delle miniature perfette di un’opera più corale, della quale tutti facciamo parte, poiché in ciascuno di essi, indipendentemente dall’evento specifico e dall’epoca storica, troviamo l’origine o la conferma di ciò che ancora oggi abbiamo davanti agli occhi. Difficile dire tra i ritratti che Vassalli dipinge, almeno tra i primi dieci, quale sia il meglio riuscito, se Manin, l’ultimo doge di Venezia, o il commendator Notarbartolo – personaggio già familiare a chi, di Vassalli, avesse letto Il cigno, uscito nel 1996; se Crispi, accompagnato verso la morte ormai prossima da una mente ossessionata dal passato o Sibilla Aleramo, intenta a fare i conti con l’immagine pubblica, generata da una vita coerente con i propri principi, e con la relazione privata, devastante, col poeta Dino Campana.
In ogni caso, al di là del ritratto, si finisce per apprezzare l’intero quadro, perché è comunque lo sfondo a venire fuori con forza. Tuttavia, tra i primi dieci racconti trovo particolarmente prezioso il decimo, I due rivoluzionari. La scrittura limpida di Vassalli dona ai due protagonisti una vivezza straordinaria, così come vivo e presente è il tumulto del pubblico mentre, nella Sala degli Stemmi della Normale di Pisa, assiste all’intervento di Togliatti che, simile a un preistorico pachiderma, fronteggia l’assalto di un giovane e risoluto studente.
“Provaci tu, a fare la rivoluzione” sbotta il primo in risposta alle accuse, mettendo in quel tu a lui inusuale tutto il suo sarcasmo.
“Ci proverò, può contarci. Senza il suo Partito Comunista e senza di lei!” è la risposta. Lo studente è Adriano Sofri.
Radici, sorgenti, origini, passato. Per giungere sin qui. All’undicesimo racconto, che costituisce – se vogliamo riprendere la similitudine delle pietre preziose – una gemma differente dalle altre.
Il racconto presenta caratteristiche diverse rispetto ai precedenti, a cominciare dal titolo: mentre per tutti gli altri troviamo la categoria/etichetta del personaggio di cui narrano (il doge, il prete, il commendatore ecc.) quest’ultimo è intitolato semplicemente Il signor B, a sottolineare l’impossibilità di ingabbiare il personaggio in una qualifica che risulterebbe limitante.
Anche lo stile narrativo scelto è diverso, si tratta di un dialogo fra lo scrittore e un amico, il cui argomento di discussione è, appunto, il signor B, personaggio che di diritto può, anzi deve, entrare nel libro di Vassalli, che a questo punto conia una qualifica ad hoc: l’Arcitaliano.
“Come Pinocchio è uscito dalle mani di un falegname chiamato Geppetto, l’Arcitaliano ha mosso i suoi primi passi, e ha emesso i suoi primi vagiti, uscendo dalle mani di un politico che si chiamava Bettino Craxi”, il quale – così come Garibaldi ha unito nord e sud – ha tentato di unire due Italie, quella ufficiale e quella sommersa che vive di regole economiche e politiche proprie. Per la realizzazione di tale progetto, era però necessaria la nascita dell’Arcitaliano, e l’intervento di un’entità superiore il cui nome inizia per M. Liberi di credere, suggerisce Vassalli, che si tratti della Madonna. Poi l’Arcitaliano ha preso coscienza di sé, ha mollato il suo creatore e l’entità M, e ha indossato una corona che ritiene gli spetti per volere di un Dio in tutto simile a lui.
In fondo, ci dice indulgente Vassalli, è un italiano come tanti “che le circostanze della vita hanno reso immenso ed esagerato”. E, a seguire si produce in un elenco, spassoso quanto veritiero, di una serie di elementi e peculiarità che tanto bene si adattano al signor B. quanto ai suoi connazionali.
Al termine di quest’ultimo racconto, si chiude quella sorta di cornice aperta alla prima pagina e l’Italiano è là dove l’avevamo lasciato, in procinto di conoscere la sua destinazione finale al cospetto di Dio, un Dio così obiettivo che, scorrendo la nostra storia in una sorta di computer divino, ascrive molte delle nostre manchevolezze all’effetto baliatico della religione nella quale siamo cresciuti.
Dove può finire una creatura ingegnosa, egoista, simpatica, furba, opportunista, in una parola, infantile come l’Italiano? Un geniale Dio/Vassalli ci scodella la soluzione perfetta. Una decisione finale che d’impulso fa sorridere, almeno finché non ci rendiamo conto di quanto sia senza appello, così tristemente attagliata ai tratti distintivi del nostro sfaccettato e sfuggente Carattere Nazionale, nella visione che Vassalli ci regala, scevra di cinismo ma senza alcuna speranza.
L’Italiano, Sebastiano Vassalli, Einaudi, 2007