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Home Cultura Letteratura

Il mondo del lavoro nella poetica di William McIlvanney

Carmine Mezzacappa by Carmine Mezzacappa
10 Aprile 2016
in Letteratura
0
Il mondo del lavoro nella poetica di William McIlvanney
  • (Paginauno n. 47, aprile – maggio 2016)

(5ª parte) – Leggi la quarta parte qui

Dopo Docherty, McIlvanney sperimenterà il genere poliziesco (etichetta che lui rifiutava con garbata irritazione) per osservare, attraverso la figura dell’ispettore Laidlaw, una violenta e inquietante Glasgow degli anni ‘80-90. Ritornerà alle tematiche più esplicitamente storiche e sociali legate al mondo del lavoro con The Big Man (1985, The Big Man, Tranchida 2003).

L’eroe che, nella narrativa di McIlvanney, sintetizza in sé tutte le conflittualità della società scozzese durante i governi presieduti da Margaret Thatcher è Dan Scoular, protagonista di The Big Man, l’operaio disoccupato che per disperazione accetta di partecipare a un combattimento a pugni nudi organizzato da due bande rivali di gangster che controllano il sottobosco delle scommesse clandestine. In caso di vittoria, riceverà una borsa di cinquecento sterline.

Estraneo ai valori morali che avevano guidato suo padre e dato un senso alla sua esistenza all’interno della comunità operaia di Thornbank anche nei momenti di crisi sociale, Dan non trova conforto in nulla perché, a differenza delle esperienze vissute da suo padre, può solo constatare che si è perduto il valore della solidarietà e lui, come tanti nelle sue stesse condizioni, non possiede più i mezzi culturali e politici né la forza contrattuale per rifiutare le nuove regole sociali imposte dai governi conservatori guidati dalla Thatcher la quale, in un’intervista televisiva del 1980, aveva affermato che la sua responsabilità non era di preoccuparsi del numero crescente di disoccupati ma di rilanciare l’economia nel suo complesso.

Nelle prime pagine del romanzo, McIlvanney fa una lunga premessa sulle condizioni economiche del sud ovest della Scozia in cui è nato Dan Scoular. Quando si esaurirono le miniere di carbone, la gente non colse la gravità del problema perché il rischio di alta disoccupazione fu inizialmente assorbito dalle assunzioni nelle distillerie di whisky e nelle fabbriche di macchine agricole. L’unica cosa che i lavoratori capirono fu “che vi erano forze oscure e incontrollabili a cui tutti erano soggetti” e che un nuovo e ancora più squallido modo di concepire la politica stava nascendo. Non essendo sorretti da un’adeguata sensibilità sindacale e politica, molti di loro accettarono le liquidazioni e subirono i licenziamenti senza chiedere garanzie per il loro futuro.

Quando tutti si resero conto che la crisi stava stravolgendo non solo l’economia ma anche i valori morali e i provvedimenti del governo avrebbero peggiorato la situazione, era ormai troppo tardi. I politici e gli intellettuali non spiegarono che la Thatcher, per difendere i conti delle aziende, aveva messo in atto un sistematico smantellamento di tutti i valori della società civile per sostituirli con regole che permettevano ai più ricchi di sfruttare impunemente i più poveri.

In un clima del genere era normale che alcuni individui, incapaci di accettare le nuove regole – e Dan Scoular è uno di questi – non riconoscessero più nemmeno se stessi. Il suo dramma è di non sentire più come sua l’eredità morale del padre operaio che, pur avendo vissuto soltanto di sacrifici, era bene inserito in un suo mondo basato su princìpi interni condivisi da tutti. Quel mondo delle fabbriche e delle miniere – sostenuto dalla coscienza di classe e da un forte senso di solidarietà – scompare e Dan si trova senza punti di riferimento e non vuole affidarsi ai valori dei suoi genitori perché teme che contengano l’inganno di invitare la gente a soffrire nella vita presente in attesa di una ipotetica vittoria futura della classe operaia.

L’espressione afflitta e rassegnata sul volto del padre gli pare una sorta di predestinazione da cui non si può fuggire – una malattia ereditaria che lui non vuole assolutamente contrarre. Allo stesso tempo, tuttavia, sente di possedere quell’orgoglio che aveva consentito ai suoi genitori di difendere la loro dignità nei momenti più difficili – anche se la loro situazione era stata meno complicata di quella in cui si trova lui ora, dato che teme di perdere l’amore di Betty, sua moglie, e ha la sensazione che i suoi amici non siano pronti a offrirgli il loro sostegno.

Tormentato da questi dubbi, è comprensibile che provi fastidio nei confronti di Vince Mabon, uno studente universitario che proviene dallo stesso ambiente sociale di Dan ma parla solo per frasi fatte infarcite di belle parole senza riuscire a cogliere la realtà che lo circonda. Per Dan è soltanto un ragazzo che inneggia alla rivoluzione rimanendo tranquillamente seduto in poltrona.

McIlvanney ha scritto questo romanzo nel periodo in cui il thatcherismo era all’apice delle privatizzazioni e dello smantellamento dello Stato attraverso le riforme della sanità e dell’istruzione in nome del libero mercato, contro il quale un disorientato partito laburista non aveva saputo – o voluto – fare un’opposizione efficace. (Di fronte a questo quadro desolante, si comprende lo stato d’animo di McIlvanney che, per anni, aveva ripetuto, a ogni occasione, con tono sconsolato, di essere “a homeless socialist”.)

Quando il gangster Matt Mason cerca l’uomo giusto per un combattimento a pugni nudi in un giro di scommesse clandestine, lo trova in Dan Scoular proprio per la sua condizione di disoccupato disposto a guadagnare qualche sterlina anche se ciò comporta entrare nel sottobosco criminale. Dan, tuttavia, deve trovare una motivazione valida che dia un senso alla violenza che dovrà tirare fuori nel combattimento contro Cutty Dawson, un altro disperato come lui. Vuole scatenare una sua personale ribellione? E contro chi? O lo fa per riconquistare la stima e l’amore della moglie?

Decide allora che affronterà l’incontro non solo per sé ma per i problemi sociali che affliggono tutta Thornbank di cui si sente portavoce. In quegli anni di crisi economica, le persone che lui conosce hanno imparato a loro spese che l’effetto più letale non è la cassa integrazione ma la consapevolezza di non contare più nulla e lo strisciante senso di rassegnazione, anticamera dell’annullamento totale della volontà. Dan, in sostanza, spera di trovare una propria nuova identità anche aiutando la sua cittadina a riprendere fiducia in se stessa. E infatti gli abitanti di Thornbank, di fronte al combattimento di Dan, sentono rinascere dentro di loro l’antico spirito di mutuo soccorso di un tempo.

Sono proprio tutte queste sensazioni a rendere ancora più eroico il gesto finale di Dan. Quando egli scopre che Cutty Dawson, ricoverato in ospedale con il rischio di perdere la vista, non riceverà alcun compenso per il combattimento perché ha perso, aggredisce Matt Mason. Per la prima volta nella sua vita sente di avere indirizzato la propria forza fisica verso un atto di violenza per un giusto fine – anche se sa che questa sua sfida potrà costargli cara – e preleva dalla cassaforte del gangster una somma di denaro utile per consentire a Cutty di ricevere cure adeguate. Finalmente Dan riconosce se stesso, ritrova il proprio orgoglio e si riconcilia con il padre e con la gente di Thornbank, che gli viene in aiuto facendogli capire che l’unico modo di rispondere alla certa vendetta di Matt Mason è di evitare di nascondersi.

Tutti, infatti, si offrono di stargli vicino in ogni momento della giornata per non lasciarlo mai solo, e così facendo riscoprono il valore di una solidarietà che non è più solidarietà di classe ma un nuovo spirito di reciproca assistenza in cui i disperati come Dan e Cutty – e tutte le vittime di una società basata sul fondamentalismo liberista – non devono più ammazzarsi tra di loro. Un segno di solidarietà gli giunge anche dalla moglie che lui credeva di avere perso. Betty si schiera al suo fianco in una silenziosa e coraggiosa accettazione della prospettiva che lui, un giorno, possa essere eliminato dai sicari di Matt Mason.

Forte della positiva risposta di amici e famigliari, Dan capisce che non sarà certo la sua sfida a Matt Mason a migliorare le condizioni di vita sue e della sua gente e che sarà quasi impossibile fermare le forze politiche che stanno stravolgendo i valori sociali con le loro scelte insensibili alle
esigenze collettive. L’unica soluzione valida immediata sta nella risposta solidale che l’intera comunità di Thornbank gli ha dato venendogli in soccorso in un momento cruciale della sua vita.

Un pilastro della poetica di McIlvanney è stata l’attenzione nei confronti delle cosiddette persone comuni. In un suo corsivo apparso sull’Herald di Glasgow, e poi inserito nella raccolta di articoli intitolata Surviving the Shipwreck, scriveva: “Una tragedia può essere così sommessa, causale e normale che, a volte, è passata prima che noi siamo pienamente consapevoli che si sia consumata”. E proprio perché sente il dovere morale (più che un istinto creativo) di essere testimone delle sofferte esistenze di tutti coloro che rimangono in disparte e in dignitoso silenzio, McIlvanney decide che la sua scrittura si sarebbe messa anche al loro servizio.

La raccolta di racconti Walking Wounded (1989, Feriti vaganti, Tranchida 2004) parla delle vittime invisibili della vita quotidiana di cui non ci accorgiamo mai. Sembrano condurre un’esistenza normale e affrontano piccole gioie e piccoli traumi senza mostrare evidenti segni di cedimento; in realtà soffrono a causa di ferite che non rimargineranno mai perché lo squallore sociale circostante li costringe a una solitudine interiore a cui essi non trovano soluzione. Anzi, peggio ancora, ai feriti vaganti del tempo di pace non è concesso – come invece accade, alla fine di un conflitto, ai feriti del tempo di guerra – di provare l’esaltante sensazione che dagli errori si possa trarre una nobile lezione morale.

In tempo di pace non si avverte la tensione interiore di voler essere migliori perché si crede che la società in cui si vive sia la migliore possibile; perché ci si illude che non vi siano situazioni talmente gravi per cui valga la pena di indignarsi; perché non si riesce a percepire le sue forme di terrorismo occulto come, per esempio, il promettere a tutti un benessere a cui, invece, solo pochi hanno accesso oppure il far credere che mostruosi atti di violenza che colpiscono gente inerme nascano sempre altrove e non negli angoli più bui della nostra civiltà. È stata la convinzione che una società in pace, spocchiosamente priva di autocritica, sia devastante quanto una società in guerra a spingere McIlvanney a raccontare con delicatezza della gente comune che cerca di difendere la propria dignità ma non suscita, quando soccombe, nessuna riflessione sulle forme di crudeltà invisibile di cui si macchia ogni giorno il nostro decantato modello di civiltà occidentale.

McIlvanney ci spiega i guasti provocati dal rampantismo thatcheriano – ripreso e consolidato negli anni Novanta dai ‘nuovi’ laburisti di Tony Blair – e ci avverte che i danni del libero mercato sono visibili in tutto il mondo occidentale, non solo nella circoscritta realtà scozzese. In tutta la sua opera, a differenza dei messaggi consolatori trasmessi da film come The Full Monty e Billy Elliot (dove si gioisce per l’arte di arrangiarsi dei disoccupati di Sheffield e per il successo di un adolescente di una città mineraria dello Yorkshire che diventa un ballerino classico, ma ci si dimentica che decine di migliaia di persone hanno perso il lavoro), viene dato doveroso risalto alla frustrazione di cassaintegrati e licenziati e, senza toni melensi, viene espressa la nostalgia di un’epopea finita – quella di una Gran Bretagna che, negli anni ‘60, si sforzava di essere veramente democratica e rispettosa delle classi meno abbienti.

Nella raccolta Feriti vaganti, per esempio, il racconto La giornata di Mick è il ritratto più rappresentativo degli effetti devastanti dell’ascesa del libero mercato e del conseguente smantellamento dello stato sociale. La strategia thatcheriana del consenso contemplava una vera e propria lobotomizzazione/auto-inibizione degli individui i quali rinunciavano a combattere in difesa dei loro diritti. Mick vive in attesa di un lavoro che non arriverà mai e trascorre tutto il tempo in casa, come se fosse un carcerato agli arresti domiciliari.

È a figure come lui, e a una moltitudine di altri feriti vaganti che riescono incredibilmente a conservare la forza interiore di non abbrutirsi, che McIlvanney esprime la sua più totale solidarietà. Illuminante è la voce fuori campo che accomuna tutti i personaggi e denuncia i disastri provocati da politici britannici privi di rispetto delle esigenze più elementari della gente comune: “Il mondo intero era un bel somaro. Prendi la Gran Bretagna. Negli ultimi quindici anni, o giù di lì, aveva fatto passi da gigante verso il diciannovesimo secolo. Non riusciva a credere quanto in fretta una società in gran parte decorosa fosse stata spinta a depredare se stessa. […] Una donna, con la prospettiva di una formica soldato, era riuscita a sputtanare il Regno Unito. De-umanizzazione per statuto”.

Solo pochi riescono a non rassegnarsi. Pensiamo, per esempio, alla scanzonata disobbedienza civile di Sammy Nelson, nel racconto Dreaming, un ragazzo a cui non importa quale prezzo dovrà pagare pur di non farsi annientare dal conformismo di famigliari e conoscenti. Ha capito subito, ancor prima di avvicinarsi allo spietato meccanismo del mercato del lavoro, quanto sia importante avere una mente libera da condizionamenti e capace di vedere la realtà attraverso la sovversiva leggerezza della fantasia. Dopo una giornata trascorsa a sostenere colloqui di lavoro, Sammy torna a casa e prova pena e tenerezza per il padre che si è addormentato in una posa scomposta davanti alla televisione rimasta accesa.

Affidandosi alla sua fantasia, Sammy immagina che venga trasmesso un programma satirico (la corrosiva serie intitolata Spitting Image) in cui la maschera di Margaret Thatcher fa affermazioni che rivelano la miseria morale del suo piano politico che, distruggendo sanità, istruzione e mercato del lavoro, ha fatto regredire la società britannica, nell’arco di un decennio, a un medioevo post moderno in cui l’unica regola – occultata dietro una sinistra facciata di finta democraticità – è quella di tutelare gli interessi dei più potenti: “I risultati di cui mi sono vantata in realtà non esistono. Quello che il mio governo ha davvero fatto è stato di cercare di smantellare generazioni e generazioni di progresso nella nostra società. Noi abbiamo creato la disoccupazione di massa. Noi abbiamo reso più ricchi i ricchi e più poveri i poveri. Noi abbiamo creato una nazione divisa. Noi abbiamo reso i vecchi miserabili e i giovani senza speranza. Il nostro primato è totalmente abominevole e se voi aveste un po’ di buon senso non votereste di nuovo per noi”.

Sammy, a differenza di altri personaggi di Feriti vaganti, si addormenta tranquillo, in pace con se stesso, orgoglioso di avere ufficialmente iniziato in modo positivo la sua personale guerra di resistenza.

Tags: mcilvanney
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