intervista di Giuseppe Ciarallo |
I monologhi di Alberto Patrucco sorprendono per cura e attenzione al senso di ogni singola parola, denunciano con eleganza linguistica la protervia del potere, sono a volte violenti, altre lievi, comunque sempre tesi a denudare un re oramai tanto arrogante quanto ridicolo. Riguardando oggi le sue passate apparizioni televisive, confuso tra comici, anzi barzellettieri senza arte né parte e capaci solo di banalissimi tormentoni, ogni suo sketch risalta come una rosa in un campo di carciofi, o meglio come un bel carciofo vero e pungente, in un campo di fiori finti. Per questo vien da porgere al satirico attore la fatidica domanda di chatwiniana memoria (lui, Bruce Chatwin, ovunque si trovasse si chiedeva: che ci faccio qui?): dunque, Alberto, tu che ci facevi lì?
Di primo acchito mi verrebbe da risponderti: a saperlo… Poi invece, riflettendo, la televisione in sé è un elettrodomestico intrigante e tecnologicamente avanzato. Oggi, ha anche più programmi della lavatrice. Il problema è che, finendoci dentro, il più delle volte non ne esci ‘pulito’. Scherzi a parte, per dirla con le parole dell’amico Paolo Hendel in quel bellissimo film di Daniele Luchetti, Domani accadrà: se non si va, non si vede. D’altronde ogni artigiano che si cimenti con una qualsiasi forma artistica, dalla letteratura alla musica, dalla pittura al teatro, crea per trovare un canale di comunicazione con chi la sua opera dovrà leggere, ascoltare, osservare. E io, pur cosciente di non poter minimamente scalfire un mondo granitico come quello della televisione e dello show business, speravo almeno mi fosse concesso di mantenere un certo controllo sul mio materiale e un livello accettabile di dignità ‘artistica’. Pensavo al gruppo di comici entusiasti e allo spettacolo che andava crescendo come a un campo fertile appena concimato, nel quale ognuno di noi era chiamato a gettare il proprio semino per poi vedere germogliare e raccogliere dei variopinti e profumati fiori. Di quel campo concimato, nella mia memoria è rimasto solo un insopportabile odore di merda.
E giacché siamo in tema, voglio togliermi un sassolino dalla scarpa. Trovo vergognosa l’ipocrisia di alcuni personaggi che pur di giustificare la loro permanenza nel mondo dorato, mentendo sapendo di mentire, asseriscono che non esiste la censura e che ogni artista è libero di esprimersi senza alcun tipo di limitazione. È chiaro che le cose non stanno proprio così. La censura è tornata a battere come un metronomo i tempi della comunicazione, dai telegiornali all’ultimo spettacolo d’intrattenimento (sono stati capaci di tagliare la scena clou del film I segreti di Brokeback Mountain, senza la quale l’intera narrazione perde totalmente di senso). E gli artisti non hanno alcuna libertà di azione, schiacciati come sono dai tempi sempre più ristretti, dall’imposizione di squallidi tormentoni e dall’esigenza metodica, scientifica, di abbassare sempre più il grado di comprensione del bello, quindi del livello culturale dello spettatore. I padroni della comicità, ai quali accennavo prima, sono le classiche persone che come dicono a Napoli con un detto molto colorito: ‘chiagneno e fottono’. Da una parte, diffondono un genere di comicità di bassissima lega, dall’altra lamentano, da ipocriti soloni quali sono, che ‘non c’è più nessuno, in Italia, capace di fare satira’. Sono loro, in fondo quelli di ‘chi non la pensa come noi è un coglione!’.
Colgo nelle tue ultime parole il nemmeno tanto velato invito a riportare il discorso sul binario dei tuoi attuali e futuri impegni. Veniamo dunque al tuo ultimo lavoro, il disco Chi non la pensa come noi, nel quale interpreti dodici brani di Georges Brassens, inediti in italiano, tradotti per l’occasione da te in collaborazione con Sergio Secondiano Sacchi. Conoscendo i tuoi monologhi, ho trovato abbastanza naturale la tua empatia per l’opera del grande chansonnier: vi ho trovato la stessa rudezza contrapposta all’eleganza dei versi, la volgarità che si alterna alla gentilezza, lo spirito aristocratico e insieme plebeo. Insomma un personaggio, Brassens, che fa tesoro della più profonda tradizione culturale francese, che partendo da Rabelais per arrivare a Vian pratica, con un uso colto persino della scurrilità, una feroce satira antiborghese e anticlericale…
Ho cominciato ad ascoltare Brassens prestissimo, quando da bambino frequentavo la casa dei miei zii. Quando poi, da adulto, ho riascoltato quelle canzoni capendone il significato, anzi i significati che si rivelano stratificati all’attento ascoltatore, me ne sono innamorato e ho cullato per tanti anni il sogno di potermi cimentare con l’opera del Maestro, anche per rendere giustizia alla sua arte sopraffina non certo adeguatamente valorizzata in termini di diffusione.
Riguardo alla vena satirica di Brassens, hai ragione, affonda le proprie radici in una tradizione tutta francese e che sinceramente stento a ritrovare nell’ambito di altre culture. Che sia il frutto, questo, di una importante rivoluzione che altri popoli non hanno avuto? I cantautori di casa nostra, ce ne sono di straordinari come De André, Guccini, De Gregori, non hanno lasciato un grande spazio all’ironia, come chiave interpretativa dei loro lavori. Forse Gaber… Sì, Gaber è stato il più vicino alla poetica di Brassens, pungente, profondo, ironico, anticlericale, tanto feroce contro il potere e la borghesia quanto ipercritico con le storture e le ipocrisie di ‘quelli della sua parte’.
Malgrado la bellezza e la profondità dei testi (di cui l’autore non poteva non essere consapevole), Brassens ha sempre affermato di attribuire maggior importanza alla musica che alle parole. “Il mio piacere viene solo dalla buona musica. Se voglio anche delle parole che funzionino, mi leggo Verlaine, Baudelaire” dice all’amico, giornalista e prete cattolico André Sève che lo sta intervistando. Anche da questo punto di vista mi sembra tu abbia fatto un ottimo lavoro, accompagnandoti a musicisti del calibro di Mauro Pagani, Giorgio Conte, Locasciulli, Lino Patruno, Gianni Coscia, el flaco Biondini, Ellade Bandini e tanti altri…
Sì, ho avuto la fortuna di essere accompagnato, in questa mia esaltante avventura, da musicisti di altissimo spessore artistico, tu ne hai nominati solo alcuni… Tra gli altri credo sia giusto citare Daniele Caldarini, grandissimo musicista nonché arrangiatore di tutti i brani dell’album. Che dire? Mi sembra che il risultato sia del tutto soddisfacente, stando anche ai giudizi che il pubblico e la critica esprimono. La musica, in Brassens, è essenziale – l’autore non perdeva occasione di sottolinearlo – ma anche i testi lo sono. E di questo lui non solo era conscio, ma lo voleva fortemente, altrimenti non avrebbe creato delle storie così ben congegnate, non avrebbe curato in maniera maniacale il perfetto equilibrio tra lingua colta, parlata popolare e slang; se avesse voluto fare delle semplici anche se bellissime melodie orecchiabili, non avrebbe sentito poi il bisogno di rimpolparle con parole che vanno a toccare in profondità abissali temi quali la morte, l’amore gioioso ma anche quello malato, l’ipocrisia, la sopraffazione, la devianza, tutti argomenti, questi, che mal si sposano col semplice bel motivo e che rischiano di essere indigesti al pubblico se non amalgamati con una giusta dose di sana ironia.
Ma torniamo ai testi. Quali sono state le difficoltà che hai incontrato nella traduzione, vista la diversità della struttura morfologica delle parole tra il francese e l’italiano, oltre all’abbondante uso di argot che Brassens fa nelle sue canzoni?
Ci tengo innanzitutto a chiarire che questo lavoro non è un tributo a Brassens. Un atto d’amore, sì, ma non un tributo. Brassens e le sue canzoni, che pure con molta fatica ho tradotto in italiano, sono un pretesto, anzi un pre-testo in quanto rappresentano l’occasione per parlare di tematiche molto attuali. Il mio spettacolo è un recital in cui le canzoni si alternano ai monologhi che ho scritto con Antonio Voceri, in una sequenza di senso compiuto. Dunque, l’idea di tradurre e cantare Brassens è nata in primis da un’antica passione e in secondo luogo – con questo, spero che nessuno si senta offeso – dall’aver trovato poco ‘brassensiane’ le traduzioni sin qui fatte in Italia delle canzoni dell’insuperabile chansonnier. Mi sembrava, ascoltandole nella nostra lingua, che perdessero qualcosa della loro profonda bellezza, che venisse meno l’originale ‘originalità’, se mi si passa il termine. Ma mi chiedevi delle difficoltà incontrate. Da buon masochista quale sono – nel senso della scrittura, beninteso – le difficoltà ho deciso di crearmele da solo, decidendo di operare nell’ambito di paletti alquanto rigidi: innanzitutto quello di cimentarmi con canzoni mai tradotte prima in italiano (senza avere, quindi, dei punti di riferimento), e poi la decisione di trasporre i versi in rima anziché lavorare per assonanza; in questo sono stato implacabile con me stesso, alla ricerca di soluzioni linguistiche rigorosamente rispettose della poetica di Brassens.
Ovviamente una traduzione letterale sarebbe stata metricamente impossibile date le differenze tra la nostra lingua e il francese, così ricco di parole tronche. Per restare fedele allo spirito dell’autore ho dovuto quindi pensare ai testi da me partoriti non come veramente ‘brassensiani’ (come avrei potuto pretendere di eguagliare la forza dell’originale?) ma come verosimilmente ‘brassensiani’.
Come in una inscindibile Trimurti della canzone d’autore francese, il nome di Brassens viene spesso accostato a quello di Ferré e di Brel (anche se i testi di quest’ultimo, a mio avviso, hanno un respiro meno ‘epico’ rispetto ai primi due). Trovo che nella poetica di Ferré l’anarchia e la parola siano un’unica cosa: il coinvolgimento dei suoi versi distruttivi, granitici, a volte veri e propri cazzotti nello stomaco, è totale e inscindibile dalla sua militanza anarchica. In Brassens, invece, che pure non ha mai nascosto le sue simpatie libertarie, la ruvidità delle tematiche viene spesso stemperata da un’ironia di fondo, che nel tempo è riuscita a procurare all’artista persino le simpatie di quel ceto, da lui tanto ‘maltrattato’, quale è la borghesia…
I nomi che hai appena fatto incutono timore e rispetto. Jacques Brel ha avuto una vicenda artistica e umana a mio avviso molto legata alle tematiche esistenzialiste. Ascoltare Brel che canta Amsterdam è cosa che mette i brividi. E che dire di Ferré? Cazzotti nello stomaco, sì, ma anche carezze nei suoi versi, amore per gli ultimi e odio per i potenti, una forza poetica la sua, che si sposa con una coerenza nei comportamenti, mantenuta costante per una vita intera.
Ma Brassens, per me, ha qualcosa in più che lo rende unico. Brassens è la pernacchia di Totò in faccia al potente di turno, Brassens è quello che sa contrastarne la protervia con colte argomentazioni, che sa ridimensionarlo con la sapiente invettiva, e che sa bene che nulla ferisce di più dello sberleffo. Ecco, è in Brassens, più che in Ferré che riconosco il famoso detto anarchico: ‘sarà una risata che vi seppellirà’.
Premesso che non ho trovato un solo brano nel disco che non abbia un valore artistico altissimo, sia nella traduzione che nell’orchestrazione e nella capacità interpretativa, io personalmente ho trovato più ‘mio’ rispetto agli altri Stanze per uno svaligiatore, dove l’autore ringrazia il topo d’appartamento che ha violato la sua abitazione per avergli dato l’opportunità di scrivere una bella canzone (anch’io, al pari del maestro francese, dopo una rapina subita in un locale, concludevo un mio racconto con la seguente considerazione: quegli stronzi credevano di avermi rubato qualcosa… e invece mi avevano regalato una storia tosta da raccontare). Ma senza dubbio il pezzo più attuale del disco è Quegli imbecilli nati in un posto, visto che viviamo un momento storico sospeso tra globalizzazione e misero attaccamento al proprio giardino, alle proprie confuse e sconosciute radici e culture, che si traduce in paura e rifiuto del diverso, dell’altro da sé.
Permettimi una piccola divagazione sull’attualità dei testi di Brassens. Volevo farti notare che ascoltando le sue canzoni è rarissimo incappare in qualcosa che ti faccia identificare con precisione l’epoca in cui la vicenda si svolge. Non ci sono punti di riferimento temporali, non si parla di automobili, aerei, lampadine, radio, televisione. Le canzoni di Brassens sono mondi atemporali e forse proprio per questo resistono all’usura del tempo e rimangono, per le loro tematiche, di un’attualità sconcertante.
Tornando alla tua considerazione, è vero, politicamente – se per politica dobbiamo intendere il pensiero becero di una classe che oramai esercita il potere per il potere fine a se stesso e che ha perso di vista i più elementari sentimenti che dovrebbero essere patrimonio, non della destra o della sinistra, ma del puro e semplice essere umano – dicevo, politicamente parlando, Quegli imbecilli nati in un posto è un brano terribilmente attuale in quanto parla proprio di quegli uomini, limitati come il loro ristretto campo visivo, che magnificano e difendono a spada tratta il loro misero orticello, sotterrandovi la curiosità dello scoprire le bellezze del resto del mondo. Persone con una confusione abissale nel cervello – parlo soprattutto di quelli che più conosco e cioè dei miei conterranei, ma gente così ce n’è dappertutto – che cianciano di radici celtiche ma anche di radici cristiane, del Dio cattolico apostolico (romano un po’ meno) ma anche del Dio Po. Ma, Quegli imbecilli nati in un posto non è la più attuale delle canzoni da me tradotte. Pensa a quanto dell’oggi c’è ne I rampanti, in Babbo Natale e la fanciulla, in Don Giovanni, ne La falsaria…
Fedele al detto ‘l’appetito vien mangiando’ credo proprio che l’avventura con la poetica di Brassens non si sia esaurita con l’uscita di Chi non la pensa come noi. O sbaglio?
È proprio così. Sto lavorando alla traduzione di nuove canzoni di Brassens, questa volta optando per una strada un po’ più aperta che comprenda anche un paio di testi già tradotti in italiano molti anni fa. E se mi permetti vorrei concludere questa interessante chiacchierata con una strofa tratta dalla canzone Il plurale, i cui contenuti ci riportano, come accennavamo prima, a un Brassens anarchico individualista il quale riconosce la massima qualità dell’uomo nella sua unicità e che vede nel consociativismo basato sull’interesse una sorta di corruzione della natura umana, tanto da fargli cantare: “quando si è più di quattro, si è già una banda di stronzi!”.
Alberto Patrucco è un comico anticonformista che si presenta in palcoscenico semplicemente con la sua faccia, la sua verve e un abito di scena scuro, in omaggio alla scuola minimalista che imponeva massima attenzione alle mani e al volto. Voce profonda, almeno quanto i temi che affronta, non vuole trasmettere messaggi; dice e ripete che non ha niente da insegnare a nessuno e, addirittura, afferma di non sapere di preciso ciò che vuole. E non gliene importa niente. Perché, di sicuro, sa ciò che non vuole.