Con Marx, alle radici della crisi: la caduta del saggio medio di profitto e la conseguente finanziarizzazione dell’economia
Sulle cause di questa crisi si è detto di tutto e di più, sia in campo borghese che in quello marxista. Nel secondo campo, quello che a noi più interessa, viene, tra le altre, riproposta la tesi ‘classica’ della sovrapproduzione o del sottoconsumo, con conseguente saturazione dei mercati, quale motore propulsivo della crisi. In questo caso non si prendono in considerazione gli aspetti peculiari che hanno caratterizzato la vita del capitalismo negli ultimi decenni e, quindi, le differenze – rispetto alle ‘normali’ recessioni – che sono all’origine del rigonfiamento e dello scoppio della bolla speculativa, dell’abnorme crescita del capitale fittizio e delle ricadute sull’economia reale, già ampiamente compromessa dalle sue insanabili contraddizioni.
Nell’approfondimento che qui andremo a sviluppare, prenderemo in considerazione gli aspetti generali e di metodo dell’analisi da sovrapproduzione per poi confrontarli e integrarli, sulla base dei dati empirici, con quella della caduta del saggio medio del profitto, affrontando la questione nel lungo periodo, e non soltanto relativamente agli anni immediatamente vicini al 2007, data di inizio della crisi. Un buon punto di partenza potrebbe essere l’enunciazione di Marx nel capitolo quindicesimo, del libro terzo, relativo allo sviluppo delle contraddizioni intrinseche alla legge: “D’altro lato in quanto il saggio di valorizzazione del capitale complessivo, il saggio del profitto, è lo stimolo della produzione capitalistica (come la valorizzazione del capitale ne costituiscono l’unico scopo), la sua caduta rallenta la formazione di nuovi capitali indipendenti e appare come una minaccia per lo sviluppo del processo capitalistico di produzione; favorisce infatti la sovrapproduzione, la speculazione, le crisi, un eccesso di capitale contemporaneamente a un eccesso di popolazione”.
È proprio la relazione tra la caduta del saggio del profitto, le crisi economiche e la sovrapproduzione di capitali – che non trovando ambiti sufficientemente remunerativi nella produzione vanno verso la speculazione, verso la creazione di capitale fittizio, contribuendo alla formazione di bolle speculative il cui unico approdo è l’esplosione del sistema finanziario con tutte le ricadute del caso sull’economia reale – che è stata la base di partenza.
Ma i teorici che non accettano una simile impostazione, in risposta alla nostra tesi che individua nella caduta del saggio medio del profitto la causa prima della crisi dopo una lunga ‘maturazione’ che prende le mosse dalla seconda metà degli anni Settanta, rispondono ‘piccati’: ma come si fa a parlare di crisi del saggio del profitto se, da almeno venticinque anni, nei Paesi ad alta industrializzazione, per non parlare dei Paesi emergenti, il saggio del profitto è aumentato, e tutti i dati statistici sarebbero lì a testimoniarlo?
In prima battuta rispondiamo che, se è vero che a partire dal 1982 sino al 1998, i saggi del profitto nei Paesi di vecchia industrializzazione (Usa, Giappone, Francia, Inghilterra, Germania e Italia) sono aumentati, non sono cresciuti a sufficienza rispetto al picco negativo degli inizi degli anni Ottanta. Secondo i dati riportati da quasi tutti gli analisti, tra il 1965 e il 1982, negli Usa – ma con piccole difformità di ordine temporale e di intensità il fenomeno si è prodotto anche negli altri paesi del G7 – si è avuta una formidabile caduta del saggio medio del profitto, pari al 50-53%. Nei due decenni successivi – e qui occorre affondare l’analisi – si è avuto un consistente recupero per poi continuare la caduta.
In termini percentuali, nel primo periodo considerato si è passati da un saggio medio del profitto del 24% al 12%; nel secondo è risalito al 19% per poi ridiscendere al 14%.
Prima di prendere in considerazione le cause che hanno prodotto il recupero, va sottolineato che passare da un calo del saggio di oltre il 50% a un più modesto calo di circa il 40% non modifica sostanzialmente il progredire della legge: semmai si può parlare di contenimento della velocità della sua caduta. Non per niente la legge della caduta del saggio del profitto viene indicata come tendenziale, ovvero si esprime sul lungo periodo all’interno del quale si possono verificare fasi, più o meno lunghe, di recupero e di ricaduta a seconda degli antidoti che, temporaneamente, il capitale pone in essere, e a seconda del livello di espressione della lotta di
classe. Il che sta a significare che, nonostante il recupero, o rallentamento della caduta, il capitalismo non è riuscito a uscire dalla morsa che lo attanaglia, morsa messa in atto dal suo stesso modo di raggiungere la massimizzazione del profitto, unico scopo del suo essere forma produttiva.
In seconda battuta va denunciato come il recupero sia stato, in buona parte, ‘drogato’ da una serie di fattori finanziari che il capitalismo moderno, in modo particolare dagli anni Novanta in poi, è stato costretto a mettere in atto, dilazionando nel tempo la deflagrazione delle sue contraddizioni che, ben lungi dall’essere superate, si sono ripresentate virulente, mettendo sul lastrico milioni di lavoratori, bruciando in poche settimane miliardi di capitale fittizio, creando le condizioni per l’emergere di tensioni sociali e del rischio di ulteriori guerre per la conquista dei mercati fondamentali, da quello della materie prime a quello energetico, da quello finanziario a quelli della forza lavoro a basso prezzo, e generando lo spaventoso spettro di una maggiore pauperizzazione generalizzata.
È proprio sull’aspetto del ‘recupero drogato’ che vanno centrate le analisi per capire, nel lungo periodo, i meccanismi che hanno portato alla più grave crisi del capitalismo moderno dopo quella del 1929. Prima però occorre affrontare il problema della crisi nel suo aspetto complessivo, in termini strutturali e temporali.
Alla fine degli anni Settanta, inizio anni Ottanta, quando il capitalismo americano prima, seguito dalle altre economie del G7 poi, si è trovato nella pesante e pressante situazione di fare i conti con un saggio del profitto che era sceso di oltre il 50%, ha reagito mettendo in atto una serie di misure che avevano lo scopo di opporsi a quello che sembrava essere, ed era, una sorta di cancro che metteva in seria difficoltà i meccanismi di estorsione del plusvalore e, quindi, della valorizzazione del capitale. Un così basso saggio del profitto, infatti, non solo rendeva sempre più difficoltosa la profittabilità dei capitali nell’economia reale; non soltanto restringeva i margini di profitto per ogni fase di produzione; rendeva altresì problematico il processo di accumulazione, favorendo una sovrapproduzione di capitali che non trovando margini di profittabilità sufficienti nell’ambito della produzione, si videro costretti a prendere la strada della speculazione, con tutte le conseguenze che andremo ad analizzare. Quindi è la crisi da caduta del saggio medio del profitto che ha posto in essere le ‘necessarie’ risposte del capitale. Non a caso il cosiddetto neoliberismo nasce in quegli anni; la deregulation, che ne è stata la spina dorsale, non ha fatto altro che accompagnarne il cammino sulla rotta del tentativo di recupero del ‘profitto perduto’ sulla scorta di tre grandi direttrici:
1) attacco alla forza lavoro sul salario diretto, indiretto, sui contratti, sui ritmi e sull’intensità di sfruttamento ecc.;
2) decentramento produttivo verso le aree dove il costo della forza lavoro è minore sino a 10-15 volte;
3) finanziarizzazione della crisi.
1) Nel primo caso, complice una quasi inesistente risposta da parte dei lavoratori, il capitale ha avuto buon gioco nel mettere in campo una serie di pesanti misure atte a tentare di riguadagnare margini di profitto. Sul terreno del salario diretto ha posto in essere un contenimento dei salari bloccandoli di fatto per un ventennio. Alle soglie del 2000 i salari reali, cioè il loro potere d’acquisto, erano rimasti quelli degli anni Settanta, nonostante l’incremento della produttività del lavoro.
I contratti a termine hanno fatto il resto. Per il capitale non era più possibile mantenere gli stessi livelli di occupazione anche quando la profittabilità del capitale era in diminuzione o nulla. Per cui si sono proposti contratti che avessero lo scopo di usufruire della forza lavoro quando esistevano i termini economici di una buona estorsione di plusvalore, e di allontanarla automaticamente quando queste condizioni venivano meno o erano pressoché inesistenti.
Sul salario indiretto ha operato attraverso un progressivo smantellamento dello Stato sociale, tagliando su pensioni, sanità e scuola, ovvero su quegli ‘oneri passivi’ per il capitale che erano – e sono – sempre meno compatibili con la crisi dei profitti. Il che ha rappresentato un recupero, anche se modesto, del saggio del profitto, accentuando la forbice tra profitti e salari come mai era accaduto nei decenni precedenti.
Per esempio negli Stati Uniti, come dimostra uno studio di due economisti americani, Bivens e Weller, dal 1975 al 2003 la quota dei profitti, calcolata sul Pil, è cresciuta passando dal 4 al 9,6% mentre è retrocessa quella dei salari di circa il 10%. Analogo è stato il fenomeno all’interno dei maggiori Paesi europei: mentre nel 1976 la percentuale dei salari era del 76% rispetto al Pil, nel 2002 era scesa al 68,5% per poi scendere al 62,2%. Ma, come vedremo più avanti, il recupero dei profitti non si è trasformato in nuovi investimenti, se non per piccole quote, a favore della speculazione.
2) L’altro punto di applicazione del neoliberismo si è concentrato sulla esternalizzazione dei servizi e sul decentramento produttivo verso le aree periferiche. L’obiettivo era quello di accedere ai mercati della forza lavoro il cui prezzo fosse notevolmente inferiore, e lo si è raggiunto tramite l’internazionalizzazione dei mercati e la libera circolazione dei capitali. In sintesi, si è assistito a uno spostamento dei capitali produttivi dalle aree ad alta composizione organica del capitale (più capitale costante e meno capitale variabile), a quelle a più bassa composizione organica (basata proporzionalmente più sul capitale variabile) a costi infinitamente inferiori.
Anche in questo caso si è verificato un recupero del saggio del profitto, ma non nelle dimensioni sperate e, comunque, i vantaggi economici del decentramento produttivo sono andati in minima parte agli investimenti produttivi domestici e in larga misura a quelli speculativi. Nei fatti, la risalita del saggio del profitto nei settori non finanziari dell’economia americana è stata ben al di sotto delle remuneratività attesa.
Solo nel quasi decennio 1990-98, grazie anche all’introduzione del microprocessore, l’economia reale ha un sussulto e riprendono gli investimenti, ma ben presto il tutto rientra nella linea di discesa e si ricreano le condizioni (aspettative) per una remuneratività dei capitali che passi sempre di più dalla speculazione, dalla creazione di capitale fittizio e non dagli investimenti produttivi. In conclusione, il recupero c’è stato, breve e di piccola intensità, senza mai nemmeno sfiorare i vertici degli anni Sessanta, e rimontando a quota -38% nel picco più alto del 1998, per poi, dopo una breve altalena, ricominciare la discesa.
3) Come dicono i dati empirici noti, la crisi del terzo ciclo di accumulazione si esprime a partire dalla seconda metà degli anni Settanta, sulla base di uno storico abbassamento del saggio medio del profitto. Il capitale non solo vede rallentare la propria capacità di realizzazione di adeguati profitti in rapporto al capitale investito, ma rallenta la propria crescita e ha sempre maggiori difficoltà a effettuare investimenti, nella cosiddetta economia reale, in grado di sostenere adeguatamente il processo di accumulazione. La via di fuga imboccata è stata la finanziarizzazione dell’economia, ovvero la finanziarizzazione come strumento di tamponamento
della crisi epocale. Il che, come vedremo, ha sortito una serie di effetti che, nel breve periodo, hanno dato l’illusione che attraverso la speculazione si potesse raddrizzare la tendenza alla caduta del saggio, ma che nel lungo periodo ha prodotto una sovrapproduzione di capitale fittizio (ossia prefigurazione di valore non ancora creato, e che probabilmente non verrà mai creato) che è letteralmente deflagrata nel momento in cui la catena di Sant’Antonio ha cessato di funzionare. L’illusione è stata che si potesse fare in maniera duratura danaro dal danaro senza passare dalla produzione, come se la speculazione potesse superare la sua funzione di trasferimento di valore (plusvalore) già precedentemente creato nella sfera produttiva, nel rapporto tra capitale e lavoro, pretendendo invece di arrivare alla creazione dello stesso nell’ambito della sfera finanziaria.
La finanziarizzazione dell’economia e le sue conseguenze
Il ricorso alla finanza non è certamente una novità nel capitalismo. L’agire in Borsa o sugli altri mercati finanziari da parte degli investitori istituzionali, quali i Fondi d’investimento, Fondi pensioni, assicurazioni e banche, ha sempre fatto parte dell’esprimersi del capitale in cerca di una remunerazione parassitaria. Ma quando il capitale ha problemi di remuneratività nell’economia reale, il ricorso alla speculazione diventa una necessità da perseguire con ogni strumento.
Per i detentori di capitale, la scelta di investire produttivamente nell’economia reale o di investire parassitariamente sul mercato finanziario, non è casuale ma in larga misura determinata dal rapporto tra il saggio del profitto e il saggio di interesse. Più il primo è basso, più si va alla ricerca del secondo. I due saggi non vivono di vita autonoma, non sono indipendenti uno dall’altro, ma l’uno, il saggio d’interesse, è vincolato al saggio del profitto, come due anelli costitutivi di una corta ma ferrea catena. Il saggio di interesse certamente varia e le sue variazioni, apparentemente, nulla hanno da spartire con il saggio del profitto. In realtà tutte le attività speculative, di creazione di capitale fittizio:
a) salgono e scendono per intensità al variare del profitto: salgono quando i saggi del profitto diminuiscono, si contraggono quando si determina il fenomeno contrario;
b) la speculazione e tutte le variegate forme di finanziarizzazione che creano l’interesse, possono variare entro due limiti, di cui uno è invalicabile: il limite più basso, difficilmente quantificabile e che dipende dall’andamento economico di ciclo, e quello più alto, che non può superare il profitto complessivamente prodotto nell’ambito della produzione.
Il principio è molto semplice: l’interesse non è altro che una quota parte del profitto. È solo un’illusione che il capitale finanziario possa autonomamente creare valore al di fuori della sfera della produzione. Ciò non di meno, quando i profitti latitano, il capitale corre verso altre forme di valorizzazione che tali sembrano, ma che in realtà non sono e che, nel lungo periodo, producono danni maggiori di quelli che avrebbero dovuto sanare. Quello che è successo è che si è dato vita a un sistema di appropriazione parassitaria di plusvalore il cui perno centrale era la produzione di capitale fittizio con la relativa espansione della sfera finanziaria.
Il punto di partenza, però, è sempre lo stesso. È la caduta del saggio del profitto che ha spinto quote di capitale sempre più consistenti a percorrere la strada della finanziarizzazione, sino a rendere il fenomeno abnorme e ingestibile, e conducendo l’intero sistema al crollo a cui abbiamo assistito di recente.
Uno degli aspetti della finanziarizzazione, oltre all’enorme incremento di capitale fittizio che si è prodotto nelle attività speculative (era del 15%, rispetto al capitale complessivo, negli anni Sessanta e Settanta, è diventato del 30% negli anni Novanta per poi proseguire la sua ascesa sino al 2002), è rappresentato dal numero di transazioni finanziarie rispetto agli scambi commerciali.
Agli inizi degli anni Duemila, le transazioni finanziarie sono ammontate a 1.500 miliardi di dollari al giorno, mentre quelle commerciali sono rimaste a un volume oscillante tra i 40/50 miliardi giorno. Il salto non è stato solo quantitativo ma anche qualitativo, nel senso che la finanziarizzazione non ha riguardato soltanto le imprese finanziarie ma anche quelle produttive, che non si sono limitate a trasferire parte dei loro profitti in ‘sofferenza’ verso la speculazione ma si sono, a loro volta, dotate di strumenti finanziari atti a incrementare la magra remuneratività del loro capitale.
Oltre cioè a incrementare notevolmente la quantità di titoli di altre imprese e di società finanziarie nel proprio portafoglio, con lo scopo di favorire gli aumenti di capitale e i flussi di cassa, hanno prodotto esse stesse dei servizi finanziari, aggiungendo al capitale fittizio altro capitale fittizio, in una forsennata rincorsa di ‘profitti’ virtuali che ha ulteriormente depresso il già compromesso meccanismo di valorizzazione del capitale.+
Detto in altri termini, molte imprese, invece di perseguire la strada dei profitti reinvestendo nella produzione di merci e servizi, hanno limitato l’aspetto produttivo per incrementare flussi di rendita parassitaria, giocando in Borsa e offrendo esse stesse servizi finanziari. I casi più evidenti, ma non isolati, vengono ancora una volta dagli Usa, nel settore manifatturiero e metalmeccanico.
La General Motors e la General Electrics, negli anni Novanta e nei primi anni Duemila, hanno realizzato dal 40% al 60% dei loro ricavi da operazioni finanziarie gestite in proprio come: depositi e prestiti, finanziamenti ai clienti per l’acquisto dei propri prodotti, carte di credito e assicurazioni proposte attraverso apposite ‘Divisioni delle imprese’ che si sono comportate come delle vere e proprie finanziarie.
In questo caso la correlazione tra un basso saggio del profitto e l’attività finanziaria è palese. L’alta composizione organica del capitale, i bassi saggi del profitto, la conseguente necessità di
‘galleggiare’ sempre più precariamente all’interno di un mercato altamente competitivo – con un’enorme capacità produttiva potenziale, anche se gli impianti erano costretti a funzionare al 70% – hanno indotto il capitale di queste majors a scomporsi in quote, proporzionalmente sempre maggiori, che si orientavano verso le attività speculative a danno, nel lungo periodo, della stessa base produttiva, dell’accumulazione e della possibilità di incrementare i profitti nell’ambito della produzione di merci. La crisi le ha colte sull’orlo del fallimento e solo l’intervento dello Stato ha garantito la loro sopravvivenza, ma non quella dei lavoratori che, in attesa di una lontana ripresa, hanno perso decine di migliaia di posti di lavoro. Il loro declino economico, il progressivo indebitamento, il rallentamento dell’attività produttiva, le difficoltà di remunerazione del loro capitale investito produttivamente, sono il prodotto e non la causa della caduta del saggio del profitto. Già molto prima, quando alle soglie del secondo millennio, per la GM, i margini di profitto si erano ridotti al 2-3% (poche centinaia di dollari di guadagno per ogni automobile prodotta), la strada della finanziarizzazione è diventata un percorso obbligato, da percorrere sino in fondo, con l’illusione che i ‘successi’ finanziari ottenuti potessero continuare per sempre.
Il capitale fittizio e il processo di accumulazione
La politica del basso costo del denaro, iniziata a praticare già dalle amministrazioni Clinton e proseguita da quelle Bush, trova in Greenspan l’artefice delle condizioni di una falsa ripresa dei
profitti, della crescita della bolla finanziaria, dell’indebitamento delle imprese e dello scoppio finale del settore immobiliare.
Con un eccesso di liquidità, con tassi di interessi bassi, praticamente negativi, molte imprese alle prese con saggi del profitto scarsi – anche se in recupero grazie, come abbiamo visto, all’attacco delle condizioni salariali dei lavoratori – e ancora poco remunerativi, avevano tutto l’interesse a indebitarsi a costi irrisori, per poi investire in parte nel settore produttivo e in parte in quello speculativo. Ciò è avvenuto negli Usa proprio in quei settori (automobilistico e dell’alta tecnologia) che già soffrivano di una sovracapacità di produzione, di un’alta composizione organica del capitale e di un mercato particolarmente esposto alla competizione internazionale. La finanziarizzazione ha però toccato, oltre a quello manifatturiero, anche altri settori, come quelli dell’informatica e delle telecomunicazioni.
Che le cose abbiano preso questa strada è constatabile dallo scarto che si è progressivamente prodotto tra il recupero di margini di profitto, anche se ‘drogato’ dalle attività finanziarie condotte dalle stesse imprese, e il tasso di accumulazione dell’intero sistema economico.
Negli Stati Uniti, Ue e Giappone, dove il fenomeno si è prodotto prima e in termini di alta intensità, il tasso di finanziarizzazione è ricavabile dalla crescente area che separa le linee dei due tassi.
Nel 1982 si arriva a toccare il limite più basso della caduta del saggio del profitto. Da quella data in avanti si assiste all’inizio della finanziarizzazione che, non solo si divarica sensibilmente dall’accumulazione, ma finisce per deprimere la seconda, imponendole tassi di crescita molto bassi, attorno al 3% negli anni Novanta e al 2-2,5% negli anni Duemila, prima dello scoppio della
crisi che tutto ha azzerato.
La spiegazione è ancora una volta da ricercare nella difficoltà di contenere la sempre latente, e molto spesso operante, legge della caduta tendenziale del saggio del profitto. La decisione, da parte del capitale, di orientarsi prevalentemente, o ben più di prima, sul terreno della speculazione, stornando quote di sé dalla produzione reale, ha alla base – è opportuno ricordarlo – una lunga fase storica di bassi saggi del profitto, talmente bassi (scesi di oltre il 50%) da giustificare un minore impiego nell’economia e maggiori investimenti nella sfera finanziaria, nella speranza di ottenere migliori condizioni alla sua valorizzazione. La coincidenza della data non è casuale ma indicativa del fatto che la ‘nuova economia’ muove i suoi primi passi proprio quando la crisi da saggio del profitto ha assunto dimensioni insostenibili per il capitale.
In più, quando i capitali soffrono per la crisi da saggio del profitto, tanto più vengono gettati nell’arengo di una maggiore competizione, e sono esasperati da una maggiore concorrenza che li costringe a percorrere anche quelle strade che prima praticavano di tanto in tanto, con il risultato di rendere più consistente l’accumulazione di capitale fittizio rispetto a quella di capitale da investimento produttivo.
A questo punto la risposta alla domanda, anche se retorica, su che fine abbia fatto il drenaggio di plusvalore sotto forma di salari stagnanti o in calo che la contenuta ripresa dei profitti ha implicato, è semplice:
a) una quota parte, minima, è andata al processo di accumulazione, così minima da non consentire un significativo aumento del suo tasso;
b) un’altra quota parte è andata sotto forma di consumi per la classe borghese, per i rantiers e per tutti coloro che si sono giovati della bolla speculativa nella sua fase montante;
c) la quota parte più consistente è rimasta nel circuito della speculazione, andando progressivamente a creare il fenomeno della sovrapproduzione di capitale fittizio.
Ma la vera questione è rappresentata dal rapporto tra lo sviluppo delle attività speculative e il saggio del profitto, ovvero la capacità di estorcere plusvalore nell’ambito della produzione reale.
L’eccesso di liquidità nelle Borse che si determina in modo consistente tra il 1993 e il 2000 è sorretto e accompagnato da una ripresa del saggio del profitto, nelle modalità che abbiamo osservato, negli anni che vanno tra il 1993 e il 1997. Poi il saggio del profitto ricomincia a scendere e, con uno scarto temporale di soli tre anni, impone alle attività di Borsa una flessione che dura sino al 2003. Da questa data in avanti, sino a metà del 2006, il saggio del profitto riprende per poi cadere verticalmente nei tre anni successivi sgonfiando la stessa speculazione borsistica.
Il senso di questa rappresentazione è che la presunta gallina dalle uova d’oro, la speculazione, essendo parte integrante del profitto che si ottiene nell’atto della produzione reale, non vive autonomamente, ma si gonfia a dismisura nello strenuo quanto inutile tentativo di valorizzazione parassitaria del capitale, e poi si sgonfia quando i meccanismi che regolano la produzione di plusvalore si inceppano. In altri termini, la speculazione nasce come risposta alla crisi dei profitti, alle difficoltà di valorizzazione del capitale, ne droga temporaneamente la ripresa penalizzando però il processo di accumulazione, e quando rallenta quello di estorsione di plusvalore che, a sua volta, asciuga le possibilità di prosecuzione della speculazione stessa, il crollo è inevitabile.
Le banche, gli istituti di credito, le società finanziarie che sono stati gli interpreti primi del fenomeno speculativo, si sono trovate nella condizione di avere a disposizione masse di capitale
fittizio sempre più consistenti, sino al punto di doverlo impiegare a ogni costo, rischi compresi, pur di renderlo speculativamente redditizio. La spinta a questo tipo di ‘investimento’ ha fatto sì che si facesse credito a tutti: alle imprese – anche a quelle non affidabili – alle famiglie – anche a quelle con redditi bassi. Prestiti per il consumo, per le carte di credito, per i mutui e per qualsiasi attività che necessitasse di un ‘facile’ indebitamento, il tutto sulla base di bassi tassi d’interesse.
L’eccessiva esposizione degli istituti di credito e la ripresa della caduta del saggio tra la fine degli anni Novanta sino alla metà degli anni Duemila, hanno cominciato a rendere difficoltosa la redditività degli investimenti speculativi.
Il risultato si è configurato in una diminuzione della capitalizzazione di Borsa. I titoli presenti hanno visto calare le loro quotazioni, le plusvalenze si sono contratte e la bolla ha avuto un primo sgonfiamento. La ripresa del saggio del profitto tra il 2003 e il 2006 ha ridato solo un po’ di fiato alla speculazione, ma con la ricaduta successiva e il rialzo dei tassi di interesse finalizzato a sostenere il ruolo del dollaro sul mercato internazionale – per continuare a finanziare i deficit dell’economia americana – le sofferenze delle banche sono diventate irreversibili, le Borse sono letteralmente crollate. Nello spazio di poche settimane si sono bruciati
migliaia di miliardi di dollari di quel capitale fittizio che sino a pochi istanti prima sembrava, nelle ideologie della classe dominante, l’antidoto alla caduta tendenziale del saggio del profitto e alle crisi di ciclo, in una sorta di delirio di onnipotenza del capitalismo, che, come tutti i deliri, finisce in tragedia.
Per concludere, alcune considerazioni.
Tutto il ciclo della crisi economica che si è aperto all’inizio degli anni Settanta è caratterizzato dalla progressiva erosione del saggio del profitto.
Le risposte che il capitale è riuscito a fornire quali l’intensificazione dello sfruttamento, lo smantellamento dello stato sociale, la delocalizzazione della produzione in aree a costo del lavoro minore, se gli hanno fatto recuperare margini di profitto, la loro intensità non è stata sufficiente. Per cui la finanziarizzazione della crisi si è imposta come nuovo ‘modello di sviluppo’,
investendo anche la stessa produzione reale. Ma essendo la speculazione possibile in quanto trasferimento, e non creazione, di plusvalore altrove prodotto, esaurita la sua funzione di drogaggio e di dilatazione temporale delle sue contraddizioni, ha riprodotto i termini della crisi su di un livello più alto e più generalizzato, con le devastanti conseguenze che ancora stiamo subendo.
La finanziarizzazione dell’economia, il parassitismo, l’appropriazione parassitaria di plusvalore sono i sintomi della crisi, non la causa. Quest’ultima risiede, non come sostengono insigni economisti di area marxista, nella crescente difficoltà di sfruttamento della forza lavoro, ma nella progressiva riduzione della base di lavoro vivo in rapporto a quello morto (più impianti, macchinari, più capitale costante, in rapporto al capitale variabile, ovvero alla forza lavoro) che innesca una modificazione verso l’alto del rapporto organico del capitale, quindi della caduta tendenziale del saggio medio del profitto.
Questa crisi, comunque vada a finire, è la dimostrazione di come il capitalismo sia una forma produttiva storicamente data, economicamente scandita dai meccanismi di valorizzazione del capitale che, una volta messi in crisi dalle sue stesse contraddizioni, mostra il proprio declino come tutte le forme economiche che l’hanno preceduta.
Ciò non significa che il capitalismo si autodistrugga in una sorta di spirale dalla quale gli è impossibile uscire. Le scappatoie esistono e vengono puntualmente messe in atto, quali la distruzione di capitale attraverso le stesse crisi o attraverso le guerre, che servono a ricreare le condizioni per un nuovo ciclo di accumulazione, anche se sulla base delle medesime contraddizioni e a un livello più alto.