di Giuseppe Ciarallo |
Recensione di Gnòsi delle fànfole, Fosco Maraini
Se c’è una cosa che mi manda in bestia ogniqualvolta mi si ripropone, è l’utilizzo improprio che da sempre viene fatto del termine ‘anarchia’, erroneamente associato al caos, alla situazione pericolosamente senza controllo. È per questo che quando un conoscente, parlandomi delle poesie di Fosco Maraini (che io ancora non conoscevo), le definì una caotica sequenza di lettere e parole, un insensato e anarchico susseguirsi di fonemi, scattò in me una forte curiosità nei confronti di quell’oggetto misterioso. E ben feci, ad approfondire la questione, perché le liriche del poeta toscano hanno dato conferma a ciò che in cuor mio già sapevo: l’anarchia, sia essa espressa come concetto ideale, politico o, come nel caso di Maraini, poetico non è il caos, bensì al contrario, è l’ordine supremo delle cose. Supremo perché non necessita di un pre-ordine, di un’istituzione che detti e imponga regole per il perfetto funzionamento del meccanismo, sociale o letterario che sia.
L’anarchia è il puzzle dove ogni tassello sa autonomamente dove andare con estrema precisione a collocarsi, perché sa di avere diritto a uno spazio tutto suo, nel rispetto irrinunciabile dello spazio destinato a chi gli sta attorno.
Per le poesie di Fosco Maraini vige lo stesso principio. Ogni frase, ogni parola, ogni singola lettera è situata al posto giusto, semplicemente perché quello è l’unico posto dove quella frase, quella parola, quella singola lettera potrebbe stare. Tutto ciò, senza che un solo termine non sia stato inventato di sana pianta dall’autore. Le parole di Maraini non sono vere – nel senso che pur cercandole con cura in un vocabolario, non le si troverebbe – ma verosimili; sono inventate, dunque esistono pur non essendo riconosciute e riconoscibili, ciò nonostante sembra di percepirne chiaramente il significato, perché la perfezione di quei suoni messi sapientemente in rima, evoca inconsce emozioni anche se la parte razionale del cervello non comprende. Perché non può comprendere in quanto non c’è nulla da comprendere, solo ‘sentire’.
Fosco Maraini definisce, il suo, linguaggio metasemantico. Egli propone suoni e attende che il lettore, con il suo patrimonio di esperienze interiori, magari con il suo subconscio, dia a quei suoni significati, valori emotivi, profondità e bellezza. Il lettore, dunque, non visto come passivo fruitore ma come attore del gioco, protagonista che deve contribuire alla sua riuscita con un imprescindibile e massiccio intervento personale.
Il poeta, con le sue “fanfole” ha un approccio visionario alla parola, egli parla “di valori cromatici e tattili, dei sapori e degli umori, della pelle e dei baci, dell’ombra e del profumo delle parole”, vede “parole tonde e gialle, lunghe e calde, voluttuose e lisce, oppure polverose e bigie, sfilacciate e verdi, parole a pallini e salate, parole massicce, fredde, nerastre, indigeste, angosciose”.
E per meglio cogliere ogni più piccola sfumatura, l’autore fornisce un vero e proprio libretto di istruzioni, dal quale si coglie che “la poesia metasemantica va piuttosto recitata o letta ad alta voce, che scorsa con gli occhi in silenzio come si fa normalmente con i versi tradizionali. È legata al suono, al corpo, alla fisiologia, alle passioni della parola. Per questo, anche, va letta con una certa lentezza”.
Come ogni altro rivoluzionario nella storia dell’umanità, Fosco Maraini verrà probabilmente ricordato come un genio da alcuni, come un folle nemmeno particolarmente interessante da altri. Così le sue poesie verranno tramandate ai posteri come fresca sorgente di emozioni o come balbettio disarticolato di un vecchio mai diventato adulto.
“Ci son dei giorni smègi e lombidiosi / col cielo dagro e un fònzero gongruto / ci son meriggi gualidi e budriosi / che plodigan sul mondo infrangelluto.”
Mi rendo conto, a onor del vero, della difficoltà che può incontrare il cittadino medio, col cervello infarcito di ‘aiutini’, ‘attimini’ e ‘assolutamente’ dai mortiferi e omogeneizzanti mass media, nel riconoscere la smegità e la lombidiosità di alcune giornate, nel capire quanto può essere gualido e budrioso un pomeriggio, nel riflettere sul destino di un mondo sempre più irrimediabilmente infrangelluto. Perché la poesia metasemantica di Fosco Maraini sta al componimento classico come Picasso sta a Michelangelo, come Charlie Parker sta a Mozart. Guernica, Bloomdido, Il giorno a urlapicchio.
E ogni cosa che toglie, o sposta punti di riferimento sicuri e assimilati, spaventa. Ecco che cosa accadde quando il quintetto di Dizzy Gillespie e Oscar Pettiford calcarono per la prima volta le tavole del Teatro Onyx per suonare be bop, un jazz nuovo, mai ascoltato prima. Le parole di uno dei musicisti di Woody Herman, presente a quell’incredibile spettacolo, testimoniano chiaramente lo sbigottimento che quelle note non catalogabili provocarono a orecchie peraltro ben allenate alla musica. “Appena fummo entrati, quei tipi afferrarono i loro strumenti e si misero a suonare quella loro roba folle. Uno si interrompeva improvvisamente, un altro cominciava a suonare senza una ragione al mondo. Noi non avremmo mai saputo dire quando un assolo avrebbe dovuto cominciare o terminare. Poi tutti quanti smisero di punto in bianco di suonare e se ne andarono dal podio. Ci spaventarono”.
Lo spavento. È sempre questa l’atavica e prima reazione di fronte a ciò che è nuovo e cancella certezze ormai metabolizzate.
Mi immagino parimenti la faccia del primo lettore e poi del critico che per primo fu chiamato a dare una spiegazione al verso dantesco: “Pape Satàn, pape Satàn aleppe!”.
Forse il sommo poeta non ha fatto che anticipare di qualche secolo il giocoso linguaggio di Fosco Maraini e avrà pensato: oggi mi vengono solo rime banali e ritrite. Perché non usare allora dei suoni piacevoli all’orecchio e che, pur senza significare nulla, ben s’inseriscono per metrica e ritmo nella composizione? Potrebbe essere andata davvero così, perché no?
Probabilmente la verità non la conosceremo mai. Per fortuna, però, ci resterà sempre l’immutata bellezza di quel misterioso, incomprensibile, Pape Satàn, pape Satàn aleppe!
Gnòsi delle fànfole, Fosco Maraini, Baldini Castoldi Dalai, 2007