Felice Bonalumi
Incrocio fra quotidianità e coscienza
L’aggettivo italiano banale deriva dal francese banal nel significato di “appartenente al signore e da qui in quello di comune a tutto il villaggio” in quanto appartenente o concesso in uso alla comunità. In questo senso è usato da Riccardo Bacchelli nel monumentale Il mulino del Po quando parla del “mulino banale del feudatario” (1).
Il termine bando deriva appunto da banal poiché il bando è per una intera comunità, per tutti, e questo significato necessariamente estensivo, anzi onnicomprensivo, ha portato all’uso moderno della parola: ciò che è senza originalità, che non si discosta dalla norma e dunque appare ovvio, scontato. Nel significato attuale la prima caratteristica della parola è il non distinguersi da ciò che lo circonda, da ciò a cui appartiene: solo così posso definire un oggetto, una situazione, una persona come banale. In realtà in ambito tecnico la parola non ha significato negativo: in matematica, per esempio, un’equazione è banale se di immediata soluzione o per evidenza o per quanto già noto in precedenza.
Eppure la parola banale ha un posto importante nella riflessione del secolo scorso, a iniziare da La banalità del male di Hannah Arendt. Il testo, come è noto, nasce dalle considerazioni intorno al processo contro Otto Adolf Eichmann che si tenne nel 1961 a Gerusalemme e a cui la Arendt assistette come inviata del settimanale New Yorker. La prima considerazione riguarda il grado non particolarmente elevato raggiunto da Eichmann nella gerarchia militare della Germania nazista. Era infatti solo tenente-colonnello, ma era stato l’organizzatore dei trasferimenti degli ebrei verso i campi di concentramento e di sterminio in quanto responsabile della sezione IV-B-4 (che si occupava degli affari riguardanti gli ebrei) all’ufficio centrale per la sicurezza del Reich (RSHA).
Questo particolare gli fece imperniare la propria difesa sul fatto di essersi occupato unicamente di trasporti, ma è indubbio che il suo compito si svolse su scala europea e, dunque, la sua importanza andò ben oltre il grado militare raggiunto. Nel libro, che ha ovviamente molte implicazioni, anche di carattere strettamente filosofico, la Arendt sottolinea alcuni aspetti che qui interessano.
Innanzitutto la assoluta normalità dell’uomo Eichmann, una persona che poteva essere definita il tranquillo e innocuo vicino di casa. Lo si può dire in altro modo: non esiste una fisiognomica del male o, se si preferisce, del malvagio. Il volto cattivo, che incute paura, può valere per i momenti di ira, ma non è la condizione quotidiana del malvagio il cui volto è indistinguibile da quello di tutti gli altri uomini. O ancora: dire che il male è patologia significa dare a priori una sorta di giustificazione del male stesso in quanto indica una condizione non permanente e non necessariamente presente in un uomo. All’opposto il problema è proprio questo: il male è una dimensione umana, necessariamente umana, cioè fa parte imprescindibile dell’essere umano? Se la risposta è positiva, la domanda ulteriore diventa: a quali condizioni si esplica, diventa storicamente effettivo, nella storia personale e/o collettiva?
Con una definizione generale e, se si vuole, imprecisa, ma utile, ciò che si definisce male è quanto la società ripudia. Le motivazioni del ripudio possono essere varie, di carattere morale, religioso fino a quelle di carattere economico, ma paradossalmente il comportamento malvagio non è banale perché si discosta dai comportamenti ritenuti e codificati come normali. La prima conclusione è pertanto: il male è commesso da persone normali, cioè banali, che compiono azioni, le quali sviluppano comportamenti non normali, cioè non banali.
Occorre essere più precisi e puntualizzare il fatto che quei comportamenti sono ritenuti non banali al di fuori del sistema, dell’ordine in cui si realizzano, mentre sono ritenuti banali all’interno di quell’ordine. Questo è un passaggio fondamentale, di cui la stessa Arendt si rese conto nelle riflessioni successive al suo libro più famoso. Così, per esempio, in La responsabilità personale sotto la dittatura: “Anno dopo anno, gli ordini ‘illegali’ si sono certo susseguiti, ma non all’impazzata, quasi che i crimini si susseguissero senza alcun nesso tra loro. Al contrario, tali crimini hanno contribuito tutti a costruire con cura e coerenza un nuovo ordine, come lo si definiva allora. E questo ‘nuovo ordine’ non era solo una raccapricciante novità, ma era anche e soprattutto un ordine” (2).
Stando così le cose, la domanda successiva è: quale giustificazione sostiene queste persone banali per dare ragione a sé e agli altri del loro modo di agire? Apro una parentesi: tutti i malvagi giustificano ciò che hanno fatto, dunque ritengono innanzitutto giustificabile il loro comportamento e, soprattutto, lo ritengono, almeno in linea teorica, comprensibile al proprio interlocutore. I malvagi accettano lo stesso codice linguistico e di comportamento di tutta la società, vi partecipano totalmente e per questo lo ritengono comunicabile, senza sotterfugi o fraintendimenti.
Tutti i gerarchi nazisti, comprese le figure di secondo piano, al processo di Norimberga si difesero sostenendo di avere semplicemente eseguito ordini, e lo fece anche Eichmann nel processo a Gerusalemme. Questa difesa apparentemente è il tentativo, se si vuole, più logico e immediato, di salvarsi riversando la colpa su altri. Lo dico in altro modo: io, imputato, ero solo un automa, un esecutore di ordini mai chiamato a discutere, a riflettere sul significato e sulle implicazioni di tali ordini.
Ma questo è il punto centrale. Il malvagio abbisogna di uno schema precostituito su cui fondare le proprie certezze e a tale schema aderisce in modo totalizzante. Cioè annientando la propria personalità, il che rientra perfettamente nel meccanismo sociale e politico, ossia non si distingue
da esso, quindi è banale. I passaggi sono tutto sommato semplici. Primo: occorre un’autorità, non importa se istituzionale come uno Stato, o morale. Secondo: tale autorità è onnicomprensiva di tutti gli aspetti della vita individuale e collettiva, quindi ha in sé l’esclusiva di ciò che è bene e ciò che è male. Terzo: quanto l’autorità stabilisce e ordina è bene in quanto ciò che è fuori o contro l’autorità è male. Quarto: l’adesione all’autorità significa che il suo pensiero, il suo agire sono il mio pensiero e il mio agire.
Ancora nell’epilogo de La banalità del male, la Arendt ribadisce: “Ma il guaio del caso Eichmann era che di uomini come lui ce n’erano tanti e che questi tanti non erano né perversi né sadici, bensì erano, e sono tuttora, terribilmente normali. Dal punto di vista delle nostre istituzioni giuridiche e dei nostri canoni etici, questa normalità è più spaventosa di tutte le atrocità messe insieme […]” (3).
Il malvagio esiste in quanto esiste un’autorità a cui il malvagio si adegua con continuità totale. La Arendt arriva giustamente alla conclusione che è l’irriflessività il dato imprescindibile per spiegare il comportamento del malvagio. Il malvagio non è stupido, anzi spesso è intelligente, ma demanda ad altri la capacità di pensare e, dunque, di distinguere il giusto e l’ingiusto: il non riflettere su quello che fa in quanto altri lo hanno già fatto è la sua caratteristica principale, quella che lo fa, appunto, malvagio.
La differenza tra malvagio e delinquente sta proprio in questo: il secondo sa di commettere un atto contro la morale comune e infatti, delinquere significa abbandonare, lasciare, quindi venire meno al proprio dovere. La sua azione è circoscritta a un atto, un episodio: il delinquente è tale nel tempo del suo delinquere. Il malvagio è costantemente malvagio in termini di tempo: non esiste un malvagio, per così dire, a corrente alternata.
Il malvagio agisce all’interno della legge nel rispetto della gerarchia senza porsi il problema del suo rapporto con tale gerarchia e, men che meno, con la legge. La sua accettazione non nasce dalla riflessione, è naturale in quanto membro della società. Se questa è, per così dire, la constatazione, tutto ciò pone problemi che toccano una pluralità di discipline. Quale educazione porta all’annientamento del proprio pensiero? Esiste una predisposizione psicologica o è solo ambientale? Se l’io gestisce i meccanismi di difesa dei processi psichici rispetto a esperienze considerate minacciose, c’è alla base della psicologia del malvagio un fatto traumatico che ha innescato, per esempio, il meccanismo di difesa della rimozione o della scissione?
Dovrei aggiungere un eccetera, ma se è chiaro che sono domande non secondarie, è altrettanto ovvio che non rientrano in queste pagine. Resta il problema dei rapporti tra facoltà di pensare, capacità di giudicare ciò che è giusto e ciò che è sbagliato e le implicazioni di carattere morale. Pensare significa giudicare e dunque de-cidere: perché alcuni uomini usano il pensiero di altri, cioè non pensano?
La conclusione della Arendt, che negli scritti successivi a La banalità del male torna ripetutamente sul tema, è che la malvagità implica sempre la superficialità per cui il male è senza profondità, può essere estremo ma mai radicale. Il che, sia detto di passaggio, comporta un ripensamento di ciò che fin qui ha concluso sul tema del male l’intera cultura occidentale. Così la filosofa tedesca: “Voglio dire che, se si va alla radice (radix), il male non è radicale, non ha profondità, ed è proprio per questo motivo che è così tremendamente difficile da pensare, perché il pensare, per definizione, vuole andare alle radici. Il male è un fenomeno di superficie; invece che radicale, è semplicemente estremo. Noi resistiamo al male non fuggendo dalla superficie, ma fermandoci e cominciando a pensare – ossia raggiungendo una dimensione diversa dall’orizzonte della vita quotidiana. In altri termini, quanto più superficiali si è, tanto più si sarà inclini a commettere il male. Un indice di questa superficialità è l’uso dei clichés, e Eichmann – Dio solo lo sa – ne era un esempio perfetto” (4).
Il riferimento alla vita quotidiana porta a un altro autore, per altro maestro della stessa Arendt: Martin Heidegger e al suo testo-base, cioè Essere e Tempo (5). Il concetto centrale dell’opera è il primato dell’ente-uomo che si esplica nel fatto che è un essere che esiste qui e ora, cioè è un esserci: “L’Esserci è inoltre del tutto singolare rispetto agli altri enti. […] L’Esserci non è soltanto un ente che si presenta fra altri enti. Onticamente, esso è piuttosto caratterizzato dal fatto che, per questo ente, nel suo essere, ne va di questo essere stesso”.
La peculiarità dell’uomo è di interrogarsi per scoprire da sé e in sé il senso della propria esistenza, cioè del proprio esserci. Esistenza, cioè ex-sistere, stare fuori: l’uomo non è mai tutto in una situazione, ma ne sta sempre al di fuori in quanto la oltrepassa verso ulteriori e altre possibilità.
Qui si inserisce il secondo termine del titolo, il tempo: “Nel suo essere effettivo, l’Esserci è sempre come e ‘che cosa’ già era. Esplicitamente o no, esso è il suo passato. E ciò non soltanto nel senso che esso, per così dire, spinge il proprio passato ‘dietro’ dietro di sé e possiede ciò che è passato come una qualità ancora presente che, di tanto in tanto, reagisce su di esso. L’Esserci è il proprio passato nella maniera del proprio essere, essere che, detto alla buona, si ‘storicizza’ via via in base al proprio avvenire” (6).
Dunque, partendo dal senso del proprio essere, l’uomo si apre alla scoperta del senso dell’essere in generale e in questa apertura realizza i vari modi, le varie possibilità del suo esserci che è sempre un essere nel mondo, cioè un relazionarsi a se stesso e al mondo. In altre parole: il senso che il mondo ha è il senso che l’uomo dà al mondo e il senso che l’uomo dà al mondo è anche un autocomprendersi dell’uomo.
Innanzitutto, l’esistenza così concepita è sempre esistenza concreta per cui l’esserci non esiste mai astrattamente, ma sempre in un determinato modo, in una determinata possibilità.
Per Heidegger i modi di essere nel mondo sono due: autentico e inautentico. Nel modo inautentico (uneigentlich il termine usato, legato per il filosofo tedesco a eigen, cioè proprio) ci si prende cura degli oggetti e delle persone in quanto si dipende da essi, li si utilizza. In questo caso l’esserci si manifesta come insufficiente, come bisognoso, come gettato nel mondo e il mondo è l’insieme degli esseri utilizzabili. L’esserci si trova nell’inautenticità, in quel cadere degli esseri presso gli enti che incontra nel suo essere nel mondo (Verfallen, nella traduzione deiezione). Nel modo inautentico l’esserci vive non partendo dalle proprie possibilità, ma è totalmente immerso nel prendersi cura (Sorge, cioè l’unione di esistenzialità, effettività e deiezione) delle cose. Sono gli enti che incontra che danno senso, inautentico, certo, ma pur sempre un senso, alla sua esistenza.
Poiché l’esserci è sempre un con-esserci, cioè un condividere con gli altri, il modo inautentico di esistere significa allora vivere quotidianamente in modo banale, anonimo, adeguare la propria vita al modello astratto del comportamento comune. Per usare il lessico di Heidegger: vive nella dimensione del si impersonale. Ma il filosofo tedesco fa un’ulteriore fondamentale considerazione: più si vive nel si impersonale, più quest’ultimo opera in noi, diventa la nostra dittatura. Non c’è più un me, ma solo un si, fa quello che si fa, cioè che fanno gli altri, dice quello che si dice, cioè che dicono gli altri.
E il modo autentico? Solo la coscienza (e Heidegger usa il termine Gewissen che equivale a coscienza morale) permette all’esserci di superare lo stato di dispersione e di de-cidere, cioè scegliere le proprie possibilità: “Il se-Stesso dell’Esserci quotidiano è il Si-stesso che va nettamente distinto dal se-Stesso autentico, cioè posseduto in modo appropriato. In quanto Si-stesso, il singolo Esserci è disperso nel Si e deve, prima di tutto, trovare se stesso”. Dunque, la banalità si esplica nella quotidianità e abbisogna di una mancanza: quella della coscienza. La malvagità è allora una dimensione della quotidianità dell’uomo senza coscienza.
1) Riccardo Bacchelli, Il mulino del Po, Mondadori, 1975, vol. I, p. 5
2) Hannah Arendt, Responsabilità e giudizio, a cura di Jerome Kohn, Einaudi, 2010, pp. 15-40; la citazione è alle pp. 34-35, il corsivo è nel testo
3) Hannah Arendt, La banalità del male, Feltrinelli, 1999, 2ª ed., p. 282
4) Il testo si trova in H. Arendt, The Jewish Writings. Lo cito da Bethania Assy, Eichmann a Gerusalemme. Il processo, le polemiche, il perpetratore, la banalità del male, in Rivista internazionale di filosofia e psicologia, vol. 2 (2011) pp. 84-95. Corsivi nel testo
5) Le citazioni contenute nell’articolo sono prese da: Martin Heidegger, Essere e Tempo, traduzione di Pietro Chiodi, Longanesi, 1978
6) Heidegger, op. cit., p. 38, corsivi nel testo. L’Esserci ha per Heidegger il carattere della storicità che “viene prima di ciò che si designa col termine storia (lo storicizzarsi della storia universale)”