Il Grande Spettacolo Americano è terminato. Si spengono i riflettori sulla pista e come in The Truman Show qualcuno cerca il telecomando per cambiare canale. Le beghe procedurali post-voto non interessano praticamente a nessuno: anche i trumpiani più sfegatati, penso, prima o poi cercheranno il telecomando perché quel post-voto non li intrattiene più. È vero che c’è una (per fortuna piccola) minoranza che se l’è legata al dito e spero che non coltivino il rancore sino a farlo sfociare in qualche attentato. D’altronde giù a Sud c’è ancora qualcuno che gira con la bandiera sudista della Guerra Civile, accumula armi e provviste in casa e chiama yankee con disprezzo quelli che girano con un’auto con la targa del Nord. Che volete farci, gli statunitensi proprio non riescono a vivere senza un nemico e senza pretendere di insegnare al prossimo qual è il giusto modo di vivere. Sono anche disponibili ad ammazzare il tuo Presidente legittimamente eletto, se questi ha idee un po’ troppo di sinistra. E giù a Sud il razzismo è vivo e vegeto, nonostante tutto. E i tentativi di ostacolare a tutti i costi il voto dei neri sono costanti e mai sopiti. Le cassette della posta nel tuo quartiere nero spariscono, e devi farti tre isolati nel quartiere bianco, a rischio, per imbucare la tua scheda elettorale. Se non sei nato e cresciuto nel quartiere, ma vieni da un’altra parte della città, o addirittura da un’altra città di un altro Stato, ti sfiancano a furia di richieste di certificati: e ovviamente gliela dai su perché too much is too much.
La leggendaria Rosa Parks, che rifiutò di muoversi dal suo sedile d’autobus per cedere il posto a un bianco e fece detonare la protesta per i diritti civili, non era la bovera dona negra sdanga delle barzellette un po’ razziste. Manco per niente: era un’attivista ben consapevole e addestrata alle tecniche di resistenza passiva che il movimento le aveva insegnato: determinazione, pazienza inamovibile, dignità. Oggigiorno gli attivisti di Black Lives Matter hanno la stessa lucida consapevolezza, e sono stati loro a insegnare agli altri cosa significhi lottare efficacemente.
Bene: ho fatto una rapida incursione sulla CNN tanto per vedere come trattavano l’argomento e ho scoperto un paio di analisti del voto con strumenti e chiarezza da vendere. L’unico problema è che andavano a 250 all’ora nel parlare e dopo un po’ avevo il mal di testa. Sono approdato su internet e mi sono messo a seguire i dibattiti avviati da amici e parenti, ricchi – contemporaneamente – di battutacce e di contributi geniali. Uno di questi ultimi è venuto da Latif Nasser, un curioso investigatore delle politiche comunicative, scrittore e regista teatrale, magnifico mezzosangue (metà indiano e metà tanzaniano) nato in Canada e approdato ad Harvard e successivamente a Netflix, dove ha prodotto una entusiasmante serie intitolata Connections. The Hidden Science of Everything (consiglio vivamente).
In questa trasmissione il nostro si diverte un mondo a cercare e trovare delle connessioni a catena tra fatti apparentemente lontanissimi; il bello è che ci riesce, e che i contributi causali tra un fatto e l’altro risultano tutt’altro che peregrini. Sicché Latif ci suggerisce che nei casi da lui esaminati dovremmo cercare il rimedio vero nella causa prima dell’evento finale che sta davanti a noi, magari lontanissima in termini geografici: la sabbia del deserto sahariano, addensata in nuvole, riesce a generare ossigeno, mitigare un uragano in mezzo all’Atlantico e infine fertilizzare la foresta amazzonica. Il giorno prima delle elezioni Latif ha ripreso l’osservazione fatta otto anni prima da un utente di Instagram chiamato @rkrulwich e poi quella del geologo Steve Dutch che, come me, guardava i risultati elettorali delle presidenziali 2016 esposti su di una carta degli States divisa in migliaia di quadratini (le contee). Giù nel Sud, largamente conservatore, c’erano sostanziose fette di territorio colorate di rosso, il colore del partito Repubblicano. Ma, se si andava in dettaglio, si vedeva che c’era in orizzontale come una pennellata frettolosa di blu (il colore dei Democratici) che si estendeva per un gran numero di chilometri: dal centro-sud degli USA quasi fino alla costa atlantica. Per l’occhio del geologo quella linea assomigliava pericolosamente al profilo della costa sud degli USA durante il Cretaceo, tra 145 e 65 milioni di anni fa. BAM! Cosa succedeva allora? E cosa succede adesso? Andiamo con ordine e riassumendo al massimo.
La terra è molto diversa da quella che conosciamo. Gli oceani sono più caldi e più alti di quanto non siano adesso. La popolazione più minuscola di vita animale degli oceani, piccolissimi crostacei chiamati plancton, vivono, si riproducono e muoiono. Dopodiché essi cadono sul fondo dell’oceano e vengono sepolti da altri detriti. Alla fine si trasformano in gesso. Quando il pianeta si raffredda, gli oceani si ritirano. Quei resti calcarei diventano parte della terra. Rendono il terreno più alcalino, extra organico e più scuro di altri terreni vicini. A causa di questo colore, la fascia di terra dove esso è presente in modo massiccio e uniforme viene chiamata black belt ovvero “cintura nera”. La fertilità del suolo richiama frotte di agricoltori, che se ne infischiano dei nativi (li sterminano e li deportano a forza) e creano immense piantagioni di cotone. Mica le lavorano loro: trovano assai più conveniente appioppare il lavoro agli schiavi africani a colpi di 18 ore al giorno. Booker Taliaferro Washington (scrittore, educatore e politico mezzo nero e mezzo italiano) ha riassunto: “La parte del Paese che possedeva questo suolo spesso, scuro e naturalmente ricco era, ovviamente, la parte del sud dove gli schiavi erano più redditizi, e di conseguenza furono portati lì in maggior numero”.
Finisce la schiavitù e arriva l’emancipazione, ma per migliaia di famiglie nere le cose cambiano poco. La maggior parte non sa dove andare e se lo sa, è troppo povera per arrivarci. Di conseguenza, si radica proprio lì e continua a raccogliere cotone come salariati. Agli inizi del XX secolo molti afroamericani lasciano il Sud seguendo il Mississipi ma la maggioranza resta dov’è, e se oggi guardiamo una mappa delle contee degli Stati Uniti dove la popolazione è a maggioranza nera, esse si trovano tutte nel Sud e prevalentemente nella black belt, la cintura nera.
Perché la pennellata blu inizia misteriosamente ad apparire solo dopo la fine degli anni ‘60 / primi anni ‘70? Anche quando le persone schiavizzate furono liberate dopo la guerra civile, non potevano ancora votare. Le autorità lo resero praticamente impossibile: tasse elettorali, test di alfabetizzazione, persino un sistema di carrucole che sollevava le urne fuori dalla portata di chiunque non fosse un bianco. Per non parlare dell’intimidazione e del linciaggio. Il terreno su cui marciava il movimento conteneva ciò che i geologi chiamano Selma Chalk, che risale guarda caso al Cretaceo. Il Voting Rights Act viene approvato nel 1965 con successive modifiche nel 1970 e nel 1975. E puff! La cintura nera appare sulla mappa. E rimane così per quasi cinquant’anni.
Dopo che la Corte Suprema ha snaturato il Voting Rights Act nel 2013, le tattiche di soppressione e intimidazione degli elettori sono tornate negli Stati della cintura nera. Per esempio, la Commissione per i diritti civili degli Stati Uniti ha rilevato “barriere spesso insormontabili al voto per le popolazioni marginali in Alabama” nel febbraio 2020. Allo stesso tempo, c’è stato un numero record di elettori tutti in fila per votare in Georgia e in altre parti della cintura nera. La cintura nera è apparsa di nuovo sulla mappa elettorale di quest’anno? È apparsa, e con ancora maggiore evidenza. Tutta questa analisi di Latif si concludeva (eravamo al giorno prima delle elezioni) con questa considerazione: “La storia della Cintura Nera è dolorosa ma profonda. La morte del plancton ha portato alla vita del cotone, che ha portato alla schiavitù delle persone schiave che lo raccoglievano, che ha portato alla libertà degli elettori che discendevano da loro. La morte conduce alla vita, conduce alla schiavitù, conduce alla libertà. La vita futura e la libertà – dei cittadini, del pianeta – dipendono, in parte, da questo voto. Se puoi e non l’hai già fatto… VOTA”.
Ora, Latif ha un modo curioso e sempre apparentemente bizzarro di notare le connessioni tra le cose. Personalmente mi affascina perché ogni volta rimarca qualcosa in cui credo profondamente, cioè l’interconnessione di tutto ciò che esiste. Per lo stesso motivo, quando ho visto che l’ex presidente Obama chiamava a raccolta tutti i neri di tutti gli Stati per contrastare Trump, ho pensato potesse esistere una connessione col voto della black belt, e che magari questa connessione poteva avere successo. Manco a farlo apposta mi sono collegato con la CNN verso la fine della diretta elettorale e… voilà. La pennellata blu della black belt c’era, eccome! Ed era diventata ancora più consistente, visto che per una sorta di effetto risonanza il voto nero e democratico dei suburbi metropolitani, da Atlanta a Philadelphia era cresciuto a dismisura. Resistevano solo le roccaforti bianche rurali anche all’interno della black belt. Ergo: l’appello di Obama non è caduto nel vuoto. Obama, come dice la mia saggia cugina americana, non è un granché come politico, ma come comunicatore è formidabile e come aggregatore di comunità non lo batte nessuno. Per questo, probabilmente, il vero vincitore delle Presidenziali 2020 è lui. Non mi ha quindi sorpreso che il primo volume dell’autobiografia di Obama, A Promised Land, uscito il 17 novembre, contenga anche la playlist che lo ha accompagnato lungo tutta la presidenza.
Per i curiosi dirò che contiene anche una saporita carrellata di caustici giudizi sui politici da lui incontrati. Ma è il titolo a intrigarmi: la Terra Promessa è prima il sogno degli ebrei in esilio in Babilonia, poi il sogno dei Padri Pellegrini in viaggio verso il Nuovo Mondo, infine il sogno degli schiavi africani cristianizzati quando creano Gospel (God-spell = parola di Dio) e Spiritual. Insomma, c’è sempre una Terra Promessa dietro l’angolo e l’America è la Terra delle Grandi Opportunità, anche se c’è un Peccato Originale duro da emendare, cioè lo sterminio dei nativi, in entrambe le Americhe. Ma a Obama tutto questo non interessa, evidentemente, e fa terra bruciata dietro di sé con una compilation che accontenta tutti, ma veramente tutti gli statunitensi.
Bisogna dire, a onor del vero, che la scelta di Obama è qualitativamente molto più nazionalpopolare di quanto avrebbero potuto fare Veltroni o il duo Assante/Castaldo della linea culturale di Repubblica. Soprattutto, se guardiamo alle playlist che Obama ha creato a cominciare dall’estate 2016 sino a oggi, salta fuori un possibile DJ veramente urbi et orbi, e la cosa viene rafforzata dalla playlist della consorte Michelle uscita per la Giornata mondiale della Ragazza. Già nella doppia compilation giorno/notte del 2016 Obama era riuscito a mettere insieme vecchio e nuovo pescando di giorno dal jazz (II b.s., Charles Mingus), dalla protest song nera degli anni ‘60 (Sinnerman, Nina Simone), dalla pachanka eurolatina (Me gustas tu, Manu Chao) e dalla ballata esistenzialista USA (Home, Edward Sharpe & the Magnetic Zeros), lanciandosi poi a capofitto nel b-side notturno spaziando dal jazz d’autore (Lover man, Billie Holiday; Espera, Esperanza Spalding; My funny Valentine, Miles Davis) ai rovinati grunge femminili dei ‘90 (Criminal, Fiona Apple); dal pop-rap di classe (I’ll Be There For You, Method Man & Mary J. Blige) al neo-soul per signore romantiche oversized (If I Have My Way, Chrisette Michele). Insomma, già nel 2016 Obama aveva colpito nel segno.
Adesso, a ridosso delle elezioni, torna all’assalto mettendo assieme attivismo politico e musica nazionalpopolare. Ovviamente, c’è dentro gente del tutto sconosciuta da noi ma popolarissima negli States, e che magari è diventata famosa proprio grazie allo spin della partecipazione alle Convention del partito Democratico. Un po’ come se – fatte le debite proporzioni – uno sconosciuto Al Bano fosse diventato famoso partecipando alla Festa dell’Unità (che secondo Moravia funzionava perché aveva il vantaggio di combinare in sé tre idee base: quella della festa cattolica, quella del Soviet e quella del mercato. Amen). Obama DJ è inarrestabile e credo anche che commercialmente paghi bene.
D’altronde, uno che all’inizio della carriera di presidente, il 25 gennaio 2009, fa intonare City of blinding lights a un infreddolito Bono Vox e ai suoi U2 al Lincoln Memorial di Washington, e chiude la stessa carriera facendo suonare Lose Yourself di Eminem prima del proprio discorso alla Democratic Convention del 2016, è un uomo di spettacolo e di comunicazione, un uomo di narrazione efficace ben prima di essere un politico. E non ci sono santi che tengano: Berlusconi e tutto il centrodestra si fanno comporre inni auto-celebrativi da illustri sconosciuti e la cosa finisce lì e diventa, se del caso, una barzelletta. Nella patria dello show business le cose si fanno in modo tremendamente serio e se (come credo e spero) Obama non ha dietro consiglieri musicali occulti, è uno strafigo di prima categoria. Ah ragazzi, siamo a livelli che da noi se li sognano: Lose Yourself è un manifesto di coraggio individuale, scritta da uno della working class bianca incazzata, con strofe memorabili come A normal life is borin’, but super stardom’s close to post mortem (Una vita normale è noiosa, ma la super celebrità è vicina allo stato post mortem). Aveva visto lungo, Obama: i Dem hanno perso di vista quella working class bianca che già stava scricchiolando sotto il peso della crisi e Trump non ha dovuto fare altro che prendersela, promettendo pane e lavoro. Ovvio che a Detroit gli operai bianchi odino quella spocchiosa di Hillary Clinton, ovvio. Ovvio che tutta la sinistra del pensiero debole abbia perso di vista da decenni l’emergenza di una larghissima fetta di popolazione precaria, scartata a favore delle élite: non è colpa mia se i precari sono molto più numerosi dei metalmeccanici e soprattutto se sono molto, molto più giovani e non ideologizzati. Che fare?
Veltroni ci propose a suo tempo Mi fido di te di Jovanotti, che già solo nel titolo era una tautologia da seppuku, infarcita da perle pseudofilosofiche del pensiero debole tipo: La vertigine non è / Paura di cadere / Ma voglia di volare. Come dicono in Abruzzo: putevamo vince la guerra?
Per sua fortuna Obama manco sa chi sia Veltroni. Lui vola alto e chiama alle armi la black belt del Sud. Dopodiché arruola un’armata di cantanti e attori che lévati, e per questo oggi si può permettere di mettere a fianco dell’autobiografia (tranquilli, i politici italiani non ci sono) anche i ricordi di quale fosse la playlist della Presidenza.
Ci sono due tracce di Beyoncé (inclusa la sua cover di At Last, la prima canzone dance del ballo inaugurale degli Obama), la già citata Lose Yourself di Eminem e poi, come se piovesse, canzoni di Stevie Wonder, Bob Dylan (che gli ha lanciato un mezzo sorriso) e Gloria Estefan (che sono stati tutti onorati da Obama con la Presidential Medal of Freedom) e il brano dei Beatles Michelle (che Paul McCartney ha eseguito alla Casa Bianca per l’ex First Lady quando ha ricevuto da Obama il Premio Gershwin della Biblioteca del Congresso). Ci sono strizzate d’occhio al patriottismo politically correct con Only in America di Brooks and Dunn e a quello meno corretto che oramai sa di nonno idealista che si fa ancora le canne con The Times They Are a-Changin’ di Dylan. E poi c’è Aretha Franklin, che si avventura spericolatamente in un brano memorabile della Band come The weight e due capolavori del pop e del soul di Stevie Wonder, SirDuke e Signed, Sealed, Delivered I’m Yours; tenerezze per le signore come Halo di Beyonce e Cherish the day di Sade; e due colossi himalayani del jazz, le immortali My favorite things di John Coltrane e Freddie Freeloader di Miles Davis; strizzate d’occhio ai veci con Lucky be a lady di Frank Sinatra e ai bocia con My first song di Jay-Z.
Insomma, DJ Obama ce l’ha messa tutta per far contenti tutti e non è detto che qualcuno dei Repubblicani non riprenda la sfida, sempre sperando e non sparando – passatemi la battutaccia ma i suprematisti, no-vax e Qanonisti a me preoccupano parecchio. Giustamente tutti i militanti Dem hanno usato come testa d’ariete nella campagna contro Trump un altro dei brani della playlist, il più combattivo e lucido, che non poteva che arrivare dal grande vecchio Bruce Springsteen: The Rising, che letteralmente è “il sorgere”, come per il sole che nasce, e fu ispirata dalla disperata salita dei pompieri sulle Twin Towers dopo l’attentato. Ma mi dicono parenti e amici che oggi è stata vissuta con il senso di ‘insurrezione’, da qui la mia traduzione del ritornello: Come on up for the rising / Come on up, lay your hands in mine / Come on up for the rising / Come on up for the rising tonight (Vieni su per l’insurrezione / Vieni su, metti le tue mani nelle mie / Vieni su per l’insurrezione / Vieni su per l’insurrezione stasera).
Forse Obama dovrebbe prestare orecchio a quel volpone di Stephen King, il maestro dell’horror, che ha twittato a commento della Obama Playlist: “Gran lista, ma un po’ troppo melodica. Che ne dici di metterci dentro un po’ di Jerry Lee Lewis e di James Brown?”