di Daniela Bettera e Lara Peviani |
QUI la seconda parte dell’inchiesta
Fra passato e presente, dal soggiorno obbligato al controllo del territorio alla collusione con la politica locale
A Milano Luciano Liggio abitava in via Friuli 15, nello stesso palazzo dove adesso vive la mia amica Erika. Se lei fosse vissuta lì negli anni Settanta, probabilmente avrebbe incrociato sulle scale ‘la primula di Corleone’, visto che scendeva spesso per andare alla sala da barba, o alla boutique Try50 di viale Umbria o al bar Lido di piazza Stuparich: ovviamente in incognito, essendo latitante, a differenza di molti suoi colleghi che invece a Milano erano stati mandati in quel periodo proprio dallo Stato.
Qui come in tutto il nord Italia.
Si chiamava ‘soggiorno obbligato’, ed era una legge in vigore dal ’56 che stabiliva nei confronti di una persona l’obbligo di abitare in una località decisa dalla magistratura per un certo periodo di tempo (anche anni), a scopo preventivo: il fine era infatti quello di arginare la pericolosità di soggetti ritenuti predisposti a compiere reati, ma nei con fronti dei quali non sussistevano prove per una incriminazione. Tra i candidati vi erano coloro “abitualmente dediti a traffici delittuosi” o che “offendono o mettono in pericolo l’integrità fisica o morale di minorenni, la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica”.
Nel ’65, con la legge n. 575, detta comunemente la prima legge antimafia, vengono introdotte nell’ordinamento le parole ‘mafia’ e ‘mafioso’, si definiscono precise “disposizioni contro la mafia” e gli indiziati di appartenere alle cosche diventano in modo naturale i principali destinatari della pratica del soggiorno obbligato. Il decennio che segue è tristemente noto come quello del ‘contagio’: nella sola Lombardia arrivano almeno 400 uomini dei clan, che, benché infreddoliti e sperduti nelle nebbie padane, non restano certo con le mani in mano e in questa regione, così come in Piemonte, Liguria, Emilia Romagna e Veneto, ricreano le stesse strutture criminali del sud, facendo dei luoghi di confino dei veri e propri quartieri generali della malavita organizzata.
Negli anni, la legge sul soggiorno obbligato ha subito numerose modifiche relative alla località deputata al confino: se la prima stesura non dà in dicazioni precise circa il luogo di abitazione forzata, con la legge del 1982, la famosa Rognoni-La Torre, si specifica che il soggiorno vada “scontato in un comune o frazione non superiore ai 5mila abitanti, lontano da aree metropolitane e che sia sede di un ufficio di polizia”. Una logica c’era: spedire il delinquente in un piccolo paese, dove magari tutti gli abitanti si conoscono e tutti sanno tutto di tutti, avrebbe permesso di controllare meglio le attività del confinato.
Ma nel 1988 viene introdotta una variante ambigua: l’articolo 4 della legge n. 327 prescrive che il soggiorno obbligato vada scontato nel comune di residenza o dimora abituale, qualunque sia la sua estensione. Diventa dunque a discrezione del giudice decidere se bloccare i traffici del malavitoso verso l’esterno confinandolo nell’ambiente di origine o, al contrario, allontanarlo dalla sua dimora abituale con il divieto di soggiorno, recidendo così i suoi legami criminali ma cancellando la possibilità di tenerlo sotto controllo.
Un piccolo pastrocchio, insomma, finché nel 1993 nuove norme tolgono i giudici dall’impiccio, imponendo l’obbligo di allontanamento del soggetto dalla sua residenza e ripristinando di fatto la Rognoni-La Torre.
Una legge, quest’ultima, che non è stata decisiva solo per l’introduzione dell’articolo 416 bis, quello del reato di “associazione mafiosa”, ma anche per un’altra radicale variazione alla precedente legge del ’65: la norma vara infatti misure atte ad aggredire il patrimonio del destinatario, privandolo dei mezzi che “si ha motivo di ritenere siano il frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego” (art. 14). Finalmente si considera quindi, per la prima volta, che un’azione preventiva nel campo patrimoniale sia senz’altro un maggior deterrente rispetto al solo intervento di natura personale.
Quanto il soggiorno obbligato abbia pesato nella salita al nord della mafia è difficile dirlo; la criminalità organizzata vive, cresce, si radicalizza e si espande dove c’è ricchezza e denaro, creando collusione con la politica e l’economia legale, e pensare quindi che il nord Italia ne potesse restare immune è frutto di colpevole ignoranza. Ma di certo, spedire al nord i mafiosi, pensando così di reciderne i legami con l’organizzazione, non è stata una gran pensata. Questo ieri. E oggi, qual è la situazione dell’infiltrazione mafiosa in Lombardia, Piemonte, Liguria, Emilia Romagna e Veneto? In questa prima parte dell’inchiesta vedremo le prime due regioni, sul prossimo numero le restanti tre.
Lombardia
“La partita con la mafia poteva essere chiusa molti anni fa e invece…”. Parole amare quelle pronunciate al Corriere della Sera l’11 gennaio scorso da Carlo Macrì, ex sostituto procuratore nazionale antimafia e attuale procuratore generale di Ancona.
Invece… la Lombardia è la quarta regione italiana per immobili sequestrati alla criminalità organizzata, dopo Sicilia, Calabria e Campania, ed è seconda classificata per numero di fatti di reato riguardanti l’estorsione (336), superata solo dalla Campania (468). Dalla relazione della Direzione investigativa antimafia (Dia) del primo semestre 2011 risulta che il numero di reati è in netto aumento rispetto a quanto riscontrato nel secondo semestre del 2010, dove risultavano essere 286. Bisogna però tenere conto che “l’elaborazione dei dati consente di condensare soltanto uno spaccato, peraltro limitato, di una realtà molto complessa, la cui esatta dimensione non è ancora perfettamente definibile, essendo in gran parte afflitta da reati sommersi, la cui mancata denuncia è strettamente connessa con il timore e la ritrosia delle vittime di estorsione e di usura”.
L’analisi delle vittime per categoria evidenzia che, diversamente da quanto comunemente si crede, il pizzo non colpisce solamente commercianti, artigiani o imprenditori, ma è un’arma che la criminalità utilizza senza fare distinzioni (colpisce in particolare la denuncia per estorsione da parte di vagabondi!). “L’imposizione del cosiddetto pizzo rimane una pratica diffusa, anche per via di una subcultura che valuta, in modo assolutamente acquiescente, la convenienza di pagare, rispetto alla minaccia paventata”.
Per quanto riguarda invece le operazioni finanziarie sospette, le uniche fonti di collaborazione attiva risultano essere gli enti creditizi (2.478 segnalazioni), gli intermediari finanziari (621) e la pubblica amministrazione (287). “Il contributo degli operatori non finanziari e dei professionisti [commercialisti, avvocati, notai ecc. n.d.a.] risulta ancora una volta modesto se non addirittura nullo, confermando, evidentemente, una riluttanza dell’adempimento degli obblighi antiriciclaggio”. Rispetto al semestre precedente, il numero delle persone denunciate/arrestate per corruzione è passato da 39 a 88. Un analogo trend ha interessato l’andamento dei dati riguardanti la concussione, anche se con valori meno evidenti: 14 nel secondo semestre 2010, 17 nel primi sei mesi del 2011.
In Lombardia le varie organizzazioni criminali si sono spartite città e comuni e hanno siglato accordi di pace con le mafie straniere: romeni, albanesi, nigeriani e cinesi.
Dall’analisi svolta dal Servizio centrale operativo della polizia di Stato e dai carabinieri del Raggruppamento operativo speciale risulta che la presenza più massiccia nel capoluogo lombardo è costituita dalla ‘ndrangheta: costruzioni edili (nolo a freddo e movimentazione terra), traffico di rifiuti, appalti pubblici e subappalti al sistema sanitario, ecomafie, ma anche alberghi e ristoranti. E naturalmente il narcotraffico.
La Dia, sempre nella relazione del primo semestre 2011, non usa mezzi termini nel definire la situazione: “La Lombardia, per la sua densità demografica, la sua importanza economico-finanziaria, le sue potenzialità di sviluppo, la sua prossimità al confine elvetico si connota come regione di vitale importanza nel panorama nazionale, polo d’attrazione per gli illeciti interessi della criminalità di ogni tipo”. La relazione spiega anche in che modo la mafia siciliana e la ‘ndrangheta siano riuscite a infiltrarsi nel tessuto sociale: “La realizzazione degli scopi delle associazioni mafiose non passa necessariamente per l’occupazione del territorio e l’intimidazione ma per la pratica dell’avvicinamento/assoggettamento (spesso cosciente e consenziente) di soggetti legati negli stessi luoghi da comunanza di interessi, come ad esempio gli imprenditori edili operanti nella zona dove maggiore è l’influenza del gruppo criminale o, ancora, politici e amministratori pubblici disposti a sottoscrivere patti di connivenza per tornaconto elettorale o economico”.
La relazione riporta inoltre che l’attività della ‘ndrangheta è organizzata dalle ‘ndrine locali (accertate 16 tra Milano, Como, la Brianza e Pavia).
“Qua in Lombardia siamo cinquecento uomini, Cecè; non siamo uno”, riferisce Saverio Minasi, capo della ‘locale’ di Bresso, a Vincenzo Raccosta della ‘locale’ di Oppido Marmetina in Calabria. Nei comuni di Buccinasco (definita ‘la Platì del nord’) e Cernusco sul Naviglio si sono insediate le cosche storiche calabresi: Talia, Bruzzaniti, Barbaro e Papalia, questi ultimi poi condannati in primo grado per aver conquistato con l’intimidazione il settore del movimento terra. A Lecco è presente la potente cosca dei Coco Trovato, mentre a Monza spiccano i clan Mancuso, Iamonte, Arena e Mazzaferro. A Varese il dominio spetta alla cosca di Catanzaro dei Farao Marincola, mentre a Brescia e Bergamo (ma anche a Sondrio e Como) quella dei Bellocco di Reggio Calabria. Per quanto riguarda Brescia e Bergamo, la Dia riporta: “Passate attività di indagini nei confronti di personaggi affiliati alla ‘ndrangheta calabrese presenti nel bergamasco e nel bresciano, hanno evidenziato come tali soggetti abbiano fatto riferimento alle cosche dei luoghi di provenienza per risolvere le reciproche controversie e per ricevere direttive sulle varie attività da svolgere, non esitando ad associarsi tra loro, a seconda delle diverse esigenze operative. Alla presenza di tali gruppi è legato il fenomeno delle estorsioni ad alcune attività commerciali, in particolare locali notturni e dei recuperi crediti svolti facendo leva sulla forza di intimidazione derivante dall’appartenere alla criminalità meridionale.
Tali gruppi criminali sono inoltre particolarmente attivi nel settore dell’edilizia dove svolgono anche l’attività di intermediazione abusiva di manodopera (il caporalato, n.d.a.), attraverso cui riescono a inserirsi nelle attività imprenditoriali e ad acquisire la gestione dei cantieri edili”.
La Dia non parla più di ‘infiltrazioni’, ma utilizza il termine ‘colonizzazione’, espansione in un nuovo territorio, e la ‘ndrangheta in Lombardia è diventata col tempo un’organizzazione con un certo grado di dipendenza dalla casa madre, con la quale continua comunque a tenere rapporti molti stretti. “Linguaggi, riti, doti, tipologia di reati sono tipici della criminalità della terra d’origine e sono stati trapiantati in Lombardia dove la ‘ndrangheta si è trasferita con il proprio bagaglio di violenza […]. L’attività investigativa testimonia della presenza e della capillare diffusione della ‘ndrangheta nell’area lombarda certamente a far tempo dagli anni ’80”.
Dagli anni Ottanta? Allora forse si è semplicemente sbagliato il prefetto Gian Valerio Lombardo, che solo un paio di anni fa, durante l’audizione alla Commissione parlamentare sul crimine organizzato, sostenne che a Milano ci sono sì le singole famiglie mafiose, ma la mafia non esiste; che ci sono sì le cosche, ma sono imprenditoriali più che criminali.
La prima famiglia di ‘ndrangheta di cui si abbia notizia in Lombardia è quella di Giacomo Zagari, proveniente da San Ferdinando, nella Piana di Gioia Tauro, trasferitosi nel 1954 prima a Galliate Lombardo e poi a Buguggiate (Varese). Suo figlio diventerà poi un superpentito, testimone chiave del maxi-processo ‘Isola Felice’, alla fine del quale furono disposti sette ergastoli e oltre 600 anni di carcere a 52 imputati. Si ritiene che tra gli anni Sessanta e Settanta almeno 400 uomini delle cosche arrivarono nelle province di Milano, Varese, Como, Lecco, Brescia e Pavia. Il primo sequestro di persona di cui si abbia notizia in Lombardia è quello di Pietro Torielli junior, rapito il 18 dicembre del 1972 a Vigevano (rilasciato dopo il pagamento di un riscatto di 1,5 miliardi di vecchie lire). Tra i condannati c’è anche il boss corleonese Luciano Liggio. Tra il 1974 e il 1983 sono ben 103 i sequestri organizzati da Cosa nostra e ‘ndrangheta in Lombardia. Centinaia le aziende minacciate, ricattate, vittime di estorsioni.
Intanto sulla scena si impone Francis faccia d’angelo Turatello, celebre per la forte rivalità con Renato Vallanzasca, faida che provoca numerose vittime su entrambi i fronti. Dopo l’arresto i due diventano amici, tanto che Turatello sarà il testimone di nozze di Vallanzasca nel matrimonio con Giuliana Brusa celebrato in carcere. La notte di San Valentino del 1983, la magistratura porta alla luce una rete di società milanesi di proprietà di affiliati a Cosa nostra e gestite da imprenditori insospettabili. Nel frattempo la ‘ndrangheta prende il controllo di Milano e dell’hinterland: Bruzzano, Comasina e Quarto Oggiaro e di comuni come Corsico, Buccinasco, Trezzano sul Naviglio.
Dopo l’inchiesta ‘Duomo Connection’ del 1991, Cosa nostra è costretta a battere in ritirata, lasciando il posto alla ‘ndrangheta. Il condannato più famoso è l’ex assessore socialista Attilio Schemmari (1 anno e 8 mesi per abuso d’ufficio), ma condanne più gravi hanno punito gli uomini
d’onore di Cosa nostra. Per la prima volta nel mirino finiscono boss trapiantati a Milano, imprenditori che riciclano i soldi della droga e politici di Palazzo Marino. Venti imputati, venti condanne. Al centro dell’inchiesta – che ha visto la collaborazione tra Giovanni Falcone e Ilda Bocassini – troviamo i Carollo, una delle famiglie siciliane arrivate al nord grazie al soggiorno obbligato.
Gli anni Novanta rappresentano la stagione delle grandi operazioni e dei maxi-processi: ‘Wall Street’, ‘Count Down’, ‘Hoca Tuca’, ‘Belgio’, ‘Fine’ e ‘Nord-Sud’, che nel 1997 porta a 13 ergastoli e a 1.800 anni di carcere per 133 imputati.
Gli esponenti della ‘ndrangheta cercano e ottengono rapporti con il mondo imprenditoriale, politico, con esponenti della pubblica amministrazione. È questo, d’altronde, ciò che distingue la criminalità comune dalla criminalità mafiosa: la capacità di trasformarsi in una potente lobby economica.
In Lombardia la mafia è in grado di far convergere su un determinato politico almeno 500mila voti. “La mafia al nord controlla il 5% dei voti”, afferma Nicola Gratteri, procuratore aggiunto a Reggio Calabria, il 29 novembre scorso nel programma condotto da Gianluigi Nuzzi, Gli intoccabili. “Con il sistema elettorale attuale – ha aggiunto Gratteri – basta spostare il 10-15% dei voti tra destra e sinistra per eleggere un sindaco […]. Nelle nostre indagini fino a vent’anni fa era la mafia che portava pacchetti di voti ai politici. Negli ultimi 3-4 anni, invece, abbiamo dimostrato che sono i politici ad andare a casa dei capimafia a chiedere pacchetti di voti in cambio di appalti”.
L’operazione del marzo 2011 denominata ‘Redux Caposaldo’, con 35 arresti e sequestri di beni per 2,5 milioni di euro, mostra come la ‘ndrangheta sia in grado di creare veri e propri serbatoi di voti in cambio di concessioni e favori all’interno delle giunte locali. Uno scenario di campagne elettorali pilotate, di controllo di locali notturni milanesi e del settore dei trasporti, con la Tnt global express (ex Traco) accusata di aver agevolato l’attività di soggetti indagati per associazione mafiosa. Il tutto facente capo ai boss Giuseppe Pepè Falchi, leader storico della malavita a Comasina, il quartiere di Renato Vallanzasca, e Paolo Martino, cugino del potente boss Paolo de Stefano. “L’operazione denominata Redux Caposaldo – scrive la Dia – costituisce sicuramente un importante tassello interpretativo della presenza e dell’operatività della criminalità calabrese in Lombardia, proprio in quanto si rendono evidenti sia i caratteri di autonomia operativa del gruppo indagato, sia i suoi profili di complementarietà rispetto a una realtà assai più complessa e articolata, con le sue fondamentali diramazioni nella regione d’origine. Persistono, quindi, i fattori di vulnerabilità per il territorio, essenzialmente rappresentati dall’interesse con cui le consorterie calabresi si avvicinano ai settori dei lavori pubblici e privati”.
A luglio 2010 l’inchiesta ‘Infinito’, nata dalle costole dell’inchiesta ‘Crimine’, iniziata nel 2006, porta alla condanna di 110 persone (su 118 richieste) accusate di appartenere alle cosche della stessa Milano e dell’hinterland, che agivano per ottenere appalti pubblici e privati e condizionare
le amministrazioni politiche. L’onorevole Angela Napoli, membro della Commissione parlamentare antimafia, ha dichiarato che “la ‘ndrangheta si appoggiava a esponenti del mondo politico i cui nomi e i cui reati non sono ancora emersi e che aiutavano le cosche a inserirsi nel tessuto sociale ed economico della Lombardia e della Brianza. Purtroppo c’è chi si è messo in mezzo e sta tentando di impedire che questi filoni di inchiesta vengano portati alla luce”.
Chi sta tentando di bloccare queste inchieste?
Nella relazione della Dia si legge che “le emergenze delle operazioni denominate Montecity-Santagiulia e Infinito, hanno fatto affiorare l’esistenza di processi decisionali fortemente penalizzanti per il tessuto sociale, economico e politico della Lombardia. Tale contesto sembra, infatti, aver subito le manipolazioni di due ‘gruppi di pressione’ autonomi, ma correlati, rappresentanti, da un lato, dalle realtà imprenditoriali colluse con la cosca Barbaro, attraverso un sofisticato sistema di subappalti, e dall’altro da un ‘comitato d’affari’, supportato da figure della P.A. [Pubblica Amministrazione, n.d.a.] locale, che avrebbe aggirato basilari regole di mercato per stravolgere e pilotare l’assegnazione di appalti a partecipazione pubblica”. Nessun affiliato ha collaborato con la giustizia e nessuna vittima ha raccontato di essere finita nel mirino del racket e dell’usura.
Una pedina dei boss era Carlo Antonio Chiriaco, direttore sanitario della Asl di Pavia, nominato dalla Regione. Ma nelle carte dell’inchiesta sono finiti anche Pietro Gino Pezzano, direttore della Asl di Monza Brianza, e Massimo Ponzoni, consigliere regionale in quota Pdl, fedelissimo di Formigoni e recordman delle preferenze (11.069 alle ultime elezioni regionali del marzo 2010). Per quanto riguarda gli amministratori locali vicini alle cosche, troviamo il nome di Davide Valia, il cui appoggio avrebbe permesso al clan Valle (presente tra le province di Pavia e Milano) di ottenere aree importanti in vista dell’Expo per aprire anche un mini casinò. I Valle si sarebbero rivolti anche all’avvocato Luciano Lampugnani di Rho, già arrestato nel 2003 per usura. Nel procedimento si sono costituiti parte civile la Regione Lombardia, i comuni di Pavia, Bollate, Paderno Dugnano, Desio, Seregno e Giussano, il ministero dell’Interno, la presidenza del Consiglio e la Federazione antiracket italiana di Tano Grasso.
“Il pericolo” secondo Formigoni, governatore della Lombardia, “viene dall’esterno. I fenomeni criminali degli ultimi tempi non hanno niente a che vedere con il dna della nostra gente che è laboriosa e non ha grilli per il capo”. Eppure erano lombardi, e da generazioni, i componenti delle giunte e dei consigli comunali di molti paesi della Brianza finiti nell’inchiesta ‘Infinito’. Il caso più conosciuto è quello di Desio, sede di una ‘locale’ della ‘ndrangheta il cui capo ha partecipato all’elezione del boss Zappia a Paderno Dugnano.
Tra gli arrestati ci sono Nicola Mazzacuva, presidente del consiglio comunale di Desio, Natale Marrone, consigliere comunale e Rosario Perri, ex assessore provinciale che per anni è stato dirigente dell’Ufficio tecnico comunale; personaggi che militano nel partito del Pdl. A fine novembre 2010, dopo mesi di inchieste e polemiche, il comune ha deciso di autosciogliersi: la maggioranza dei consiglieri ha rassegnato le dimissioni, di modo che il prefetto non ha potuto fare altro che proporre al ministero dell’Interno lo scioglimento del consiglio comunale per infiltrazioni mafiose.
Da almeno vent’anni l’Ortomercato di Milano, di proprietà comunale attraverso la So.Ge.Mi (società che gestisce l’intera aerea dell’Ortomercato per conto del comune di Milano), è oggetto di numerose operazioni antimafia. L’ordinanza di custodia cautelare del 2007 nei confronti di Salvatore Morabito, Antonino Palamara, Pasquale Modaffarri e altre 21 persone ha portato alla luce che la cosca Morabito-Bruzzantini, grazie all’arruolamento dell’imprenditore Antonio Paolo, titolare del consorzio di cooperative Nuovo Co.Se.Li, utilizzava l’Ortomercato come punto logistico per il traffico internazionale di cocaina, con tanto di night club, il For the King, aperto in un locale della So.Ge.Mi. Nel 2004 Salvatore Morabito, di ritorno dal periodo di soggiorno obbligato ad Africo (Reggio Calabria), viene omaggiato di un pass rilasciato dalla So.Ge.Mi per i suoi spostamenti all’interno dell’area commerciale e per potervi entrare con la Ferrari di sua proprietà.
“Continuare a parlare di antimafia in Lombardia significa fare un enorme piacere ai mafiosi” afferma Giulio Cavalli, artista di teatro, scrittore e consigliere regionale (1), “perché in Lombardia il fenomeno mafioso, la corruzione, il riciclaggio sono la stessa cosa, molto più che in tutte le altre regioni d’Italia. Hanno infatti gli stessi ispiratori, molto spesso gli stessi protagonisti; hanno un indice di eleganza medio alto e quindi difficilmente li accomuniamo alla criminalità organizzata”.
Probabilmente è per questo che la partita con la mafia, che poteva essere chiusa molti anni fa, come ha detto Macrì, in Lombardia è ancora aperta.
Piemonte
Il Piemonte vanta un triste primato: il primo comune sciolto per mafia,nel 1995, Bardonecchia. Il maggior responsabile del non invidiabile record è un confinato doc, Rocco Lo Presti, i cui funerali si sono svolti il 29 gennaio 2009 presso la chiesa parrocchiale di questa poco ridente località di montagna. Eh sì, perché speditovi nel 1963 con la legge del soggiorno obbligato, Lo Presti a Bardonecchia ci è rimasto per oltre quarant’anni, facendone un vero e proprio feudo. Muratore di Marina Gioiosa Jonica (Reggio Calabria), legato a Francesco, detto Ciccio, Mazzaferro, anche lui confinato in Valsusa (e indagato nel 1976 per aver ottenuto appalti per il traforo del Frejus), e poi al clan degli Ursino grazie al matrimonio della sorella con uno di loro, Lo Presti assume nel tempo il mono polio di svariati settori – l’edilizia, il commercio con bar, ristoranti e sale giochi, oltre all’autotrasporto – portando dalla Calabria in Val di Susa massiccia manodopera, che lavora a un ritmo incessante.
Il risultato esteriore è il cemento ovunque, che trasforma profondamente il paese in una realtà urbana a tutti gli effetti. Risultato che nasconde i soliti meccanismi sporchi: riciclaggio di denaro, racket delle braccia con forza lavoro a basso prezzo non sindacalizzata, strozzinaggio, intimidazioni, e ovviamente le infiltrazioni in politica, secondo lo schema classico dei voti in cambio di favori.
A farne le spese chi non ci sta: Mario Ceretto, un imprenditore edile che nel 1975 si era rifiutato di assumere la manodopera di Lo Presti, viene rapito e ucciso. Ma Roccuzzo, come viene chiamato da solidali e amici, condannato in primo grado a 26 anni di galera, rinchiuso nel super carcere dell’Asinara in cella con Tommaso Buscetta, viene assolto in appello definitivamente nel 1982. Quattordici anni dopo di nuovo l’arresto per mafia, legato allo scandalo di Camp Smith, uno scempio di appalti edilizi che riempie di cemento una delle località di turismo invernale più antiche del Piemonte e che provoca appunto lo scioglimento per mafia del comune di Bardonecchia. In seguito all’inchiesta che ne scaturisce vengono condannati il sindaco, il segretario comunale, il consulente urbanistico e il progettista, ma Lo Presti, condannato a sei anni nel 2002 per associazione di stampo mafioso, viene di nuovo assolto in appello. Il 22 gennaio 2009 la condanna definitiva, questa volta per usura: Lo Presti muore il giorno successivo, poche ore dopo il trasferimento dall’ospedale di Orbassano al reparto detenuti delle Molinette di Torino.
Ceretto non è l’unica vittima. Bruno Caccia, procuratore della Repubblica, viene freddato a Torino il 13 giugno del 1983. Sospettati dell’omicidio prima le Brigate Rosse e poi i neofascisti del Nar, il vero colpevole è incastrato grazie al mafioso pentito Francesco Miano, catanese, businessman dell’eroina nel capoluogo piemontese. Il mandante, l’ndranghetista Domenico Belfiore, condannato all’ergastolo, dichiarò che “con Caccia non si poteva parlare”. Il rigore e l’intransigenza del giudice sembra contrastassero con i buoni rapporti che i calabresi erano riusciti a stabilire con alcuni magistrati di Torino, con cui, evidentemente, si poteva parlare. Il delitto presenta infatti ancora molte zone d’ombra, a partire dagli esecutori materiali rimasti ignoti, e dal bar Monique, posto proprio di fronte al tribunale, gestito dal pregiudicato Gianfranco
Gonella. Quest’ultimo, mente finanziaria del gruppo dei calabresi, secondo le indagini sarebbe stato in rapporti con Luigi Morchella, l’allora procuratore della Repubblica di Ivrea e con la dottoressa Franca Carpinteri, giudice del tribunale penale di Torino.
Un periodo quindi, quello tra gli anni ’70 e gli ’80, ad alta densità mafiosa con 37 sequestri di persona in tutto il Piemonte. E un periodo di grandi pentiti. Come Salvatore Parisi, detto Turinella, personaggio di spicco del clan dei Corsoti, catturato a Torino nel settembre 1984 pochi minuti dopo aver compiuto l’ultimo omicidio, quello di Domenico Carnazza.
Di omicidi ne confesserà 21, oltre a ricostruirne altri 40 e a fare nomi e cognomi anche eccellenti. La sua testimonianza porterà non solo all’arresto a Milano di Angelo Epaminonda detto ‘O Tebano, successore di Francis Turatello e importante boss della criminalità ambrosiana, ma scatenerà anche un megablitz con l’arresto di un centinaio di persone tra cui uomini delle istituzioni.
Dagli anni Novanta a oggi si sono susseguite numerose operazioni atte a scardinare l’assetto delle organizzazioni mafiose sul territorio piemontese.
Tra queste, nel 1994 la famosa operazione ‘Cartagine’, che in realtà ha coinvolto tutta Italia, conclusasi con 83 ordini di custodia cautelare, fino alla recentissima operazione ‘Minotauro’, datata 8 giugno 2011, che ha visto impegnati più di mille carabinieri.
Il bilancio: 142 arresti e beni confiscati per un valore di 70 milioni di euro tra cui società, ville, conti correnti, terreni e automezzi, oltre alla conferma di quanto sia radicata e ramificata la presenza della ’ndrangheta in Piemonte, con centinaia di affiliati e il coinvolgimento di nomi importanti della politica.
L’operazione ha rintracciato sul territorio piemontese nove ‘locali’ di cinquanta affiliati ciascuna: la locale di Natile di Careri a Torino, Courgné, Volpiano, Rivoli (che in realtà è risultata chiusa), San Giusto Canavese, Siderno a Torino, Chivasso, Moncalieri, Nichelino. Si aggiungono un gruppo utilizzato per le azioni violente denominato non a caso ‘Crimine’ e un’associazione non autorizzata a Salassa col nome di ‘Bastarda’. Ogni locale aveva un referente in Calabria e pare che Giuseppe Catalano fosse il referente di tutto l’hinterland torinese. L’indagine si è mossa grazie alle confessioni di Rocco Varacalli, collaboratore di giustizia dal 2004. La sua storia è quella di un tipico ragazzino del sud, irretito dal denaro facile. Soldi a pioggia con la detenzione e lo spaccio di stupefacenti, poi la carriera nella ’ndrangheta fino a diventare sgarrista e ad aprire un’impresa di costruzione e movimento terra.
Quindi appalti pubblici e rapporti con i politici. E proprio di questi ultimi, negli anni da pentito, ha fatto nomi e cognomi.
Tra i quali Nevio Coral, uno degli indagati dello scorso giugno, sindaco di centrodestra di Leinì per trent’anni anni e suocero dell’assessore regionale alla Sanità Caterina Ferrero, del Pdl, che già prima dell’operazione ‘Minotauro’ aveva firmato le dimissioni per un caso di tangenti.
Coral sarebbe accusato di aver cercato voti della ’ndrangheta per l’elezione del figlio a sindaco della città. In un’intercettazione telefonica pronuncia queste parole a uno dei presunti ‘ndrangheristi: “Il principio che dobbiamo adottare è la creazione di un gruppo: ne mettiamo uno in Comune, uno in Consiglio, uno alla Pro Loco, e così diventiamo un gruppo forte”.
Tra gli altri nomi di politici indagati spicca Claudia Porchietto, Pdl, assessore al Lavoro della giunta regionale di Cota. Fotografata nel bar di Giuseppe Catalano nel periodo delle elezioni provinciali, mentre era candidata come presidente della Provincia, avrebbe incontrato anche Franco D’Onofrio, padrino del gruppo ‘Crimine’. E poi la stessa Caterina Ferrero, per i contatti con Adolfo Crea, pluripregiudicato, durante le elezioni regionali del 2005.
Operazioni, come questa ‘Minotauro’, che assestano quindi colpi importanti alle cosche e ne ridimensionano l’organico, ma l’esperienza insegna che i clan si riorganizzano in fretta: in base alle informazioni della Procura nazionale antimafia risulta chiaro come la ’ndrangheta sfrutti il territorio dove si annida per crescere. Secondo le dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia, Torino sarebbe stata sede di rituali di affiliazione proprio come a Reggio Calabria. Nel 1998, all’interno dello stabile di un’impresa edile del capoluogo piemontese appartenente a un tale Giuseppe Leuzzi, sono stati scoperti appunti con istruzioni dettagliate sulla cerimonia d’ingresso nell’organizzazione.
Un mostro che si autogenera, che cresce silenzioso e che trova sempre nuovi modi per sfamarsi. La relazione della Dia evidenzia per il Piemonte 142 reati per estorsione denunciati nel solo primo semestre 2011, ma è chiaro che il cibo preferito sono le grandi opere pubbliche legate al territorio.
È del 2010 il sequestro dell’impresa Italia Costruzioni di Rivoli, appartenente a Francesco Cardillo, che aveva curato la realizzazione di alcuni grandi progetti nelle Olimpiadi Invernali di Torino: la ristrutturazione del Palavela e la costruzione del Palahockey e del Villaggio Media nella zona degli ex mercati generali. Cardillo, originario di Paulonia (Reggio Calabria), assieme allo zio Ilario D’Agostino avrebbero riciclato nell’economia legale i soldi provenienti dalle tasche del narcotrafficante Antonio Spagnolo, della cosca dei Ciminà.
E ancora, se si parla di grandi opere è impossibile tralasciare la Val di Susa, la prima zona di infiltrazione mafiosa in Piemonte. Tav=Mafia è la storica scritta che, pur avendo subìto varie cancellazioni e rimaneggiamenti, campeggia sul monte Musinè dal novembre 2008.
Un’equazione semplice. Un’equazione che ci parla di una valle strategica per i suoi collegamenti internazionali, e di quanto faccia gola avere il controllo delle vie di comunicazione per i traffici di droga e di armi. Un’equazione che è un affare da capogiro del valore di 21 miliardi di euro. Un’equazione che visti i trascorsi dalla Val di Susa da cinquant’anni anni a questa parte, rende difficile pensare che la matematica sia un’opinione.
(1)Crf. Il teatro partigiano, la politica e la lotta alla mafia. Intervista a Giulio Cavalli, Daniela Bettera e Lara Peviani