Riccardo Michelucci
Tradotti e pubblicati per la prima volta in Italia, questi testi di Bobby Sands raccontano non solo la forza della lotta di liberazione irlandese e la condizione carceraria, sua e dei compagni, ma rappresentano anche uno straordinario atto d’accusa nei confronti dello Stato britannico
Pubblichiamo l’introduzione al libro Bobby Sands. Scritti dal carcere. Poesie e prose, a cura di Riccardo Michelucci e Enrico Terrinoni, Edizioni Paginauno
Un giovane uomo avvolto in una coperta passeggia lentamente, a piedi nudi, nei pochi metri quadrati della sua cella, cercando di scansare i vermi e gli escrementi ammucchiati negli angoli del pavimento reso scivoloso dall’urina. Le sue narici sono ormai assuefatte all’odore nauseabondo di quel piccolo spazio chiuso, dal quale non esce quasi mai. Poi si ferma, si gratta la lunga barba e inizia a scrivere su uno spicchio di muro ancora vuoto. Stringe tra il pollice e l’indice la ricarica di una penna a sfera dalle dimensioni minuscole, circa due centimetri, che teneva nascosta all’interno del suo corpo. Mentre scrive resta in allerta, le orecchie ben tese, per captare ogni minimo rumore. I secondini possono piombargli in cella da un momento all’altro, confiscargli i suoi preziosi strumenti di scrittura e picchiarlo a sangue. Non appena riuscirà a tornare in possesso di una cartina di sigaretta o di un pezzo di carta igienica ricopierà le parti migliori di quanto ha scritto e cercherà di farle uscire all’esterno.
Viene da chiedersi come sia stato possibile, in circostanze simili, mantenere la concentrazione e la lucidità necessarie alla scrittura di testi politici, e ancor più comporre opere letterarie. All’interno dei Blocchi H, i “gironi infernali” del carcere di Long Kesh di Belfast nei quali, a partire dal 1976, furono rinchiusi in condizioni bestiali i repubblicani irlandesi impegnati nella lotta di liberazione, non era consentito scrivere, non venivano forniti fogli, penne, né alcun materiale di lettura. Eppure Bobby Sands riuscì a raccontare al mondo la sua condizione e quella dei suoi compagni, consegnandoci una testimonianza memorabile, che è anche uno straordinario atto d’accusa nei confronti dello Stato britannico. Durante le interminabili giornate in cella utilizzò la scrittura come strumento di lotta e di resistenza ma anche come terapia per cercare di sfuggire – almeno con l’immaginazione – alle mostruose condizioni nelle quali fu costretto a vivere per essersi rifiutato di accettare il regime carcerario imposto dagli inglesi. Di fronte alla quotidiana violenza dei secondini la parola era rimasta l’unica arma per conservare la dignità, e attraverso di essa i prigionieri riuscirono a sentirsi più forti del sistema che voleva ridurli al silenzio, sottomettendoli a regole che non erano disposti ad accettare.
La scrittura divenne un atto supremo di resistenza anche perché si svolse nella totale clandestinità. Per cercare di sopravvivere all’interno del carcere di massima sicurezza di Long Kesh, Bobby Sands e i suoi compagni fecero ricorso a stratagemmi talmente ingegnosi da risultare quasi incredibili, e destinati a diventare leggendari. Per passare da una cella all’altra minuscole sigarette rollate con cartine di fortuna facevano scivolare una piccola cordicella sotto la porta che aveva la fessura più ampia, fino a farla arrivare dall’altra parte del corridoio. Era un’operazione assai complicata e pericolosa, perché i secondini erano sempre all’erta e spesso si aggiravano per i corridoi del braccio in punta di piedi, cercando di cogliere di sorpresa i detenuti. Per un po’ riuscirono anche a passarsi piccoli oggetti dalle finestre usando strisce di tessuto strappate dalle coperte, alle cui estremità legavano un peso morto, ma poi le guardie se ne accorsero e sigillarono ermeticamente le finestre con tavole e lamiere ondulate. I prigionieri, però, non si persero d’animo e sui muri delle celle, in corrispondenza delle tubature, ricavarono dei piccoli buchi che consentivano di far passare da una cella all’altra le sigarette e l’acciarino per accenderle. Un pezzo di vetro, una piccola pietra e un batuffolo di lana erano sufficienti per fabbricare un acciarino rudimentale ma perfettamente funzionante. Facevano quindi uno stoppino, lo accendevano e passavano con cautela il materiale incandescente da una cella all’altra, fino a quando non erano riusciti tutti ad accendersi una sigaretta di fortuna.
Allo stesso modo escogitarono una serie di tecniche per comunicare tra loro…
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