Il film 2012, una profezia Maya che non esiste e la musica apocalittica di Boris Kovac
Note sparse a margine di 2012 e delle teorie sulla fine del mondo.
1. Comincio a pensare di stare invecchiando. Mai al cinema di sabato: per l’ovvia considerazione che il rumore dei sacchetti delle patatine fritte, le suonerie dei messaggi dei cellulari e soprattutto l’incontenibile logorrea dei vicini (adolescenti e non) impediscono una visione serena. Ho chiuso rapidamente il solito incidente diplomatico con lo spettatore dietro di me – che stava spendendo cinque minuti buoni a commentare la lunghezza del film a inizio pellicola – ringhiando secco che non avevo pagato per ascoltare lui tutta la durata della pellicola stessa. La proiezione è filata liscia sino alla fine. In 2012 ci sono almeno tre vicende, esattamente come in The day after tomorrow e nell’ultima versione de La guerra dei mondi:
a) il protagonista riguadagna la fiducia e l’amore della sua famiglia, entrambi perduti in passato, con un gesto eroico e si riunisce a loro;
b) la vicenda è speculare a quella di tutti gli imbarcati sulla novella Arca di Noè, salvati dal protagonista, i quali nel corso del possibile disastro trovano di nuovo la forza di sentirsi uniti; il fattore agglutinante è un giovane scienziato di colore politically correct che per premio si cucca la figlia del Presidente degli Usa;
c) il giovane scienziato di cui sopra capisce insieme a un amico scienziato indiano che il mondo sta per tracollare a causa di un bombardamento eccezionale di neutrini, dovuto a una altrettanto eccezionale serie di esplosioni solari; e dunque corsa contro il tempo per salvare il salvabile.
Veridicità scientifica a parte, questo è il più incredibile tentativo mai fatto per salvare capra, cavolo e lupo in un’unica soluzione. Si capisce infatti che tutti i Paesi del G20 sono coinvolti in una partecipazione corale per trovare la soluzione alla catastrofe planetaria, e che hanno anche dovuto prendere decisioni scomode, ma questa è la fine del mondo, baby. Al protagonista viene detto che assieme alle specie animali i genetisti hanno selezionato i migliori esemplari umani per ripopolare il pianeta dopo la catastrofe. Peccato ci siano in giro più emiri e harem, più miliardari e concubine, che stalloni e giovenche umane di ogni latitudine. Il protagonista obietta, giustamente incavolato. La risposta che ottiene è che i miliardi di ‘quelli lì’ sono serviti a costruire le Arche, sicché loro non possono di certo restarne fuori.
La manovalanza e i tecnici costruttori sono in larga parte cinesi: un bell’omaggio ai nuovi partner del G20 o se vi piace di più al G2 Cina-Usa. Politically correct, le Arche sono assemblate in Tibet, tibetani sono coloro che consentono al nostro eroe di salvare se stesso e famiglia, tibetano è il co-eroe, che però si fa male assai mentre il nostro paladino fa scintille e ha una resistenza sott’acqua che Maiorca è nulla al confronto (cronometrati quasi tre minuti). Russi ed europei (per bocca di quella che nella realtà dovrebbe essere Angela Merkel) fanno la parte nobile di coloro che decidono di imbarcare anche le maestranze che hanno costruito l’Arca e che il cattivo e cinico capo americano vorrebbe tenere fuori. Grazie a Dio (c’è una giustizia anche nelle catastrofi) il capo di Stato italiano soccombe pregando insieme alla sua famiglia, al papa e a tutti i cardinali e a tutti i beghini nazionali, quando San Pietro e la Cappella Sistina crollano spettacolarmente (come italiani facciamo per l’ennesima volta la figura dei pirla, ma almeno alcuni personaggi non popoleranno il futuro del mondo…).
Interpellato se quello raffigurato nel film fosse Berlusconi, il regista Emmerich ha risposto negativamente: “Se fosse stato Berlusconi sarebbe stato il primo a mettersi in salvo”. Non so se benedire la soluzione scelta o rimpiangere quella scartata – nei panni dello sceneggiatore avrei scritto una bella pagina di humor nero: gli altri capi di Stato urlanti nel momento in cui trovano Berlusconi a bordo, mentre credevano di essersene liberati, e la successiva congiura per buttare a mare lui, la famiglia e Apicella (le disgrazie, si sa, non vanno mai da sole).
Nel finale le tre Arche (ovvio l’accostamento con le tre caravelle di Colombo) dirigono verso l’Africa, emersa un bel po’ di metri sul pelo dell’acqua, e così la vita torna da dove era cominciata secoli e secoli fa. Il regista salva dunque capra cavolo e lupo in un colpo solo, col bonus del papa e Berlusconi fatti fuori e la strizzatina d’occhio ad Angela Merkel (Emmerich, se non si fosse capito dal cognome, è tedesco di Stuttgart).
Al contrario di quanto accadde sul Titanic, qui, in pendenza della possibile catastrofe, non c’è una simpatica orchestrina a suonare ostinatamente: purtroppo c’è solo la ridondante e veramente fastidiosa colonna sonora. D’altronde Emmerich è regista da catastrofe nera e totale (da Independence Day a Godzilla) e già nei trailer originali di 2012 c’è il sugo del film: “Come potrebbero i governanti del pianeta preparare sei miliardi di abitanti per la fine del mondo? Non potrebbero”.
2. E adesso aspettiamoci la crescita esponenziale di millenaristi d’ogni razza e colore sino al 21 dicembre 2012. Già ci siamo sorbiti e sorbettati la paranoia per il 2000, ora vengono tirate fuori le profezie degli incolpevoli Maya. Voglio dire due cose:
a) l’unico fatto serio di tutta questa storia è l’organizzazione del merchandising intorno all’annunciata fine del mondo. Chi produce il miglior articolo sulla catastrofe diventa multi-multi-miliardario, con il non trascurabile effetto collaterale del giorno dopo: il 22 dicembre 2012 cataste e cataste di gadget e merci diventati di colpo obsoleti. Mi vengono però i brividi a pensare che un novello Stranamore possa ragionare così: perché chi annuncia un evento sia credibile ex post, occorre che l’evento catastrofico ci sia sul serio. Naturalmente si costruisce la catastrofe a tavolino e poi si studia il modo di limitare le perdite.
Rispetto a coloro che annunciano gli eventi, ho ragionevolmente più paura di quelli che consciamente o più spesso inconsciamente li fanno accadere. Il pendolo di Foucault si basa su una vecchia favola che si avvera: a furia di gridare attenti al lupo, prima o poi il lupo arriva sul serio;
b) non c’è alcun riscontro scientifico per poter affermare che i Maya abbiano annunciato la fine del mondo per il 21 dicembre 2012. A parte la trascuratezza cronica delle fonti, mi risulta che nessuno abbia mai indicato quale sia la data certa utilizzata per comparare il calendario maya al nostro. Un esempio: sappiamo per certo che Cortés arriva a Veracruz il 21 aprile 1519, all’inizio del nuovo ciclo del pianeta Venere. Lo sbarco e le sue fattezze
traggono in inganno gli Aztechi che lo identificano nel dio civilizzatore Quetzalcoatl/Venere – la mitologia lo rappresentava alto di statura, pelle chiara, lunga barba e lunghi capelli neri, e diceva che sarebbe tornato via mare, da est, a riportare ricchezza e prosperità – lo riveriscono e di fatto si suicidano. Dato che per gli Aztechi il momento dello sbarco è un punto fisso importantissimo del loro calendario basato sul ciclo sinodico di Venere, è del tutto agevole risalire a quale fosse la data corrispondente al 21 aprile 1519 nel calendario azteco. Non solo. Aggiungendo i giorni del ciclo sinodico di Venere a 1519, otteniamo il 2103 come data possibile di un cambiamento epocale. Tuttavia non risulta che qualcuno abbia fatto la stessa semplice operazione col calendario maya, e addirittura il Consiglio Nazionale degli Anziani Maya Xinca e Garifuna del Guatemala non solo ha di fatto sconfessato la data del 21 dicembre 2012, ma ha anche messo in guardia chiunque dall’attribuire ai Maya profezie catastrofiste. Per loro oscurità e luce sono da intendersi in senso metaforico e spirituale, sicché, come afferma Cirilo Perez Oxlaj, leader di quelle popolazioni, il ‘Grande Anno Zero’ dei Maya segna un cambiamento dei tempi e non la fine del mondo; tutt’al più la fine di un certo tipo di mondo.
Quest’anno uscirà il loro film, Shift of the Ages, che contiene il messaggio dei Maya al mondo futuro.
3. Boris Kovac, coltissimo autore di musica classica contemporanea altamente spirituale, musiche da balletto, folklore balkanico riarrangiato, nato a Novi Sad in Vojvodina (Serbia) nel 1955, conferma l’idea che se per caso fosse rimasta al mondo solo una notte stellata da vivere prima dell’apocalisse annunciata per l’indomani, ebbene il mondo si meriterebbe la musica della sua La Danza Apocalypsa Balkanica, abbreviato in LaDaABa Orchest. E se per altrettanto puro caso qualcuno sopravvivesse alla fine del suddetto mondo, ebbene il mondo si meriterebbe ancora una volta la stessa orchestra e musica composta per l’occasione. La formula musicale, in entrambi i cd, rimanda alla musica da ballo nella forma del sensuale tango, che sopravvive solo come ritmica 4/4 assieme al cha-cha-cha, arrangiato per sestetto acustico. Il resto è folklore gitano, serbo, ungherese, romeno, bulgaro, pan-balkanico, insieme a Fellini e Tom Waits con una spruzzata di cabaret viennese o berlinese.
Così è l’antica regione chiamata Pannonia, venti etnie diverse e l’impossibilità di distinguere bene l’una dall’altra: e così purtroppo Kovac, come molti altri, se n’è dovuto andare via all’inizio della guerra, e quando i bombardieri della Nato hanno chirurgicamente colpito il ponte di Novi Sad, è venuta l’ispirazione per quest’opera, nata espressamente per esorcizzare la follia del conflitto. Languore da cabaret e noncuranza della fine, nel primo disco; stralunata incredulità di sopravvissuti nel secondo. Se gli sloveni Laibach, con The Occupied Europe Nato Tour lanciavano una cruda provocazione/avvertimento, solo un musicista come Boris Kovac, alieno dalla follia di criminali nazionalisti come Milosevic e il degno alleato psichiatra Karadzic, poteva riuscire a sbeffeggiare la morte celebrando ancora una volta la bellezza della danza e della musica. Da tenere in scaffale alla voce ‘mondi possibili’.
Boris Kovac &Ladaaba Orchest
The Last Balkan Tango – An Apocalyptic Dance Party, Piranha, Germany, 2001
World After History, Piranha, Germany, 2005