L’inesistenza di fonti storiche di una ‘musica celtica’ e ancor più di ‘radici celtiche’ di un’invenzione come ‘la Padania’
L’altro giorno faccio pulizia in cantina e comincio a rimestare dentro uno scatolone. Salta fuori una audiocassetta ancora incellophanata che, a guardarla, ha tutto l’aspetto di un reperto archeologico: il mai abbastanza rimpianto settimanale satirico Cuore pubblica Leghista con l’ipnosi, un corso accelerato per aspiranti leghisti. Amplificatore a volume abbastanza alto: mi stendo sul divano, respiro profondamente, incrocio le dita e mi dico che sono un martire della scienza storica (più che del giornalismo musicale). Su di un sottofondo new age, la voce arrochita di Bossi recita per quaranta minuti buoni i mantra del credo leghista: “Federalismo… sì… centralismo… no”, “Roma ladrona… la Lega ti bastona”, “Federalismo… buono… centralismo… cattivo”, “Bossi ce l’ha duro…”. Non so che ora fosse, ma mi sono addormentato profondamente col sorriso sulle labbra e credo d’aver sognato.
Non c’era la sorgente del Po, non c’era Christopher Lambert col suo leggero strabismo scimmiesco e lo spadone di Highlander né l’orrida chioma cotonata alla Simon Le Bon del Braveheart-Mel Gibson né Asterix, Obelix, Assuranceturix e il cagnino Idefix. Da una nuvola di fumo di Gauloises gialle (estremamente intonata alla bisogna) è emerso San Paolo C., mio rimpianto professore di storia e filosofia al liceo. Ha aperto la bocca per parlare, ma la voce non era la sua, era quella di un altro Paolo, ex liutaio e allievo di Ravi Shankar, che a suo tempo mi introdusse a Daniélou e a Marius Schneider, i numi della musicologia eterodossa occidentale. Era un bell’andare, un periodare ineluttabile, e Bossi non ci faceva una bella figura. Propri no.
Dice Marius Schneider che lo strumento musicale viaggia a dorso di mulo, di cammello, di bovino, come fosse un tappeto o un vaso. La melodia no, quella la porta il capo del clan.
È una cosa troppo sacra per affidarla a un qualunque supporto che non siano le benedizioni di chi l’ha realizzata – sacerdote o laico che sia – e la memoria e la pratica viva del popolo. In questo senso, pressoché in tutto il mondo, è esistita una pratica della musica che si affidava alla trasmissione orale come unica garanzia di sopravvivenza di un patrimonio collettivo.
Se quel popolo, nei suoi singoli individui o nel suo complesso, ha cessato di esistere – per malattia o per carestia, per lancia e spada piuttosto che per assimilazione forzata a un altro popolo, e quindi con negazione forzata di lingua, costumi e arte – non c’è alcuna possibilità di recuperarne le informazioni vitali. Solo dove c’è trasmissione ininterrotta e viva – da madre a figlia, da maestro a discepolo – c’è possibilità di preservazione. Pare che quel fenomeno chiamato Le mystére des voix Bulgàres, esotismo balcanico scoppiato in Europa negli anni ’80 sull’onda della neonata world music e che in realtà altro non è che il Coro dell’Opera di Sofia (Bulgaria), sia l’ultima manifestazione sopravvissuta, per quanto rielaborata, della modalità vocale degli antichi traci, un drammatico canto di gola eseguito senza vibrato. Se è vero che Orfeo, come credevano i greci, era un trace, allora non è del tutto impossibile che, pur per arcane e miracolose vie traverse, quella musica sia sopravvissuta sino a noi. Magari è successo anche con i celti.
Paolo C. tira un’altra densa boccata di Gauloises e continua, ironico: «…scesero giù per l’Italia sino a noi: Senigallia, come dice il nome, fu fondata dai Galli Senoni, capeggiati da Brenno, che saccheggiarono Roma per poi stabilirsi a est, nel Piceno». Cazzarola, ero celtico e non lo sapevo, sarà contenta mia sorella che stravede per loro anche se non è leghista. A Bossi piacerebbe assai se l’italiano derivasse dal celtico anziché dal volgare toscano. Il fatto è che – come è avvenuto per migliaia di etnie – i celti non hanno mai posseduto una notazione musicale, seppur primitiva. Non c’è prova di trasmissione delle loro melodie in nessuno dei popoli che occupano le terre e le isole che un tempo furono popolate dai celti, nemmeno presso gli irlandesi, che pure sono i più credibili nei panni di discendenti, non foss’altro per la lingua gaelica. Mi obiettano: «Ma scusa, tutta la musica che chiamano celtica, da Alan Stivell a Enya a Loreena Mckennitt… e pure quel celta galiziano, Hevia?» Non basta essere nati in Irlanda come Enya per dire che la propria musica è celtica.
Altrimenti dovremmo dire che Rory Gallagher, Van Morrison e gli U2 suonano musica celtica! Stivell è franco-bretone, la McKennitt è canadese di origini celtiche e Hevia è asturiano, cioè un celtibero. Il successo nel mercato globale è già di per sé dipendente in larga parte dal marketing; figuriamoci se poi ha radici abbastanza ben definite e suggestive, magari veicolate dal cinema. Non dico Braveheart o Highlander, dove la cosa è già evidente. Pensa a quale gioco sottile: originariamente il regista Cameron aveva in mente proprio Enya per la colonna sonora di Titanic, e inizialmente il trailer del film aveva una sua canzone come colonna sonora temporanea. Enya però rifiutò, e Cameron in seguito optò per James Horner, suggerendogli di comporre la colonna sonora tenendo a mente proprio lo stile di Enya. La ciliegina sulla torta è l’introduzione, l’intermezzo e il finale di My heart will go on, suonati con un riconoscibilissimo tin whistle, il flautino tascabile di metallo tipico della musica ‘celtica’. Le persone serie, i ricercatori, la gente che scandaglia le fonti, parla di ‘musica folklorica o popolare che proviene dalle terre una volta abitate dai celti’, non di musica celtica. L’uso di un aggettivo assieme al sostantivo qualifica il sostantivo stesso, nella lingua italiana.
E dunque avrebbe senso dire musica celtica, come musica del popolo celta, se tale musica esistesse. L’approssimazione degli ignoranti e dei frettolosi, unita a una certa voglia inconfessata di sentirsi parte di un passato anche glorioso, ha fatto cadere la specificazione. Da noi Bossi e i suoi si sono inventati una discendenza celtica della Padania che è una barzelletta. Sì, è vero che esistette la Gallia cisalpina e che i guerrieri celti furono fieri avversari di Cesare. Ma è altrettanto vero che in Padania prima di loro ci sono stati gli etruschi, che non si sa da dove vengano ma celti di sicuro non sono, e un altro mazzo di tribù italiche autoctone. Un po’ di tempo dopo ci sono arrivati gli africani neri neri di Annibale, che in Italia son rimasti vent’anni e che come effetto collaterale si sono lasciati dietro un tot di gravidanze, anche al nord.
Alla fine i romani hanno talmente assimilato la Gallia cisalpina che secondo la teoria di Carcopino, citata da Montanelli in un vecchio articolo sul Corsera del settembre 1997, “il vero motivo per cui Cesare fu assassinato da Bruto, Cassio e dagli altri congiurati fu l’intenzione di smantellare non solo e non tanto la struttura aristocratica dello Stato romano, che aveva nel Senato il suo puntello, ma addirittura di procedere a una trasfusione di sangue nelle vene di Roma, sostituendo le vecchie élite sia civili che militari, ormai corrotte e imbastardite, con quelle dei Galli culturalmente romanizzati. Vero o falso? Il compianto di Cesare più profondo e genuino fu manifestato da due fra le molte etnie che formavano la cosmopolita popolazione romana: i Galli e gli ebrei, che Cesare aveva sempre additato, per le loro abitudini di vita, a modelli di decenza civile, e che, in segno di gratitudine e reverenza, gettarono i loro mantelli sul rogo in cui si consumava la cremazione del loro patrono. Tutto questo dimostra quanto profondamente i celti della Gallia cisalpina fossero inseriti nella vita e nella storia di Roma”.
Alla faccia di Bossi, i suoi celti sono andati a rinsanguare assieme agli ebrei proprio l’aborrita Roma ladrona! E come la mettiamo con l’ultima discendente del Barbarossa, Yasmin von Hohenstaufen, pronipote di Federico II e Isabella d’Inghilterra, che ha chiesto l’annullamento della fiction sul nobile antenato in quanto strumentalizzata dalla Lega e anche perché Rinaldo Bossi ghibellino, antenato di Bossi, di origine egiziana, sotto la mezzaluna d’argento e nove stelle in campo azzurro, guardia imperiale di Federico II, seguì proprio il Barbarossa contro Alberto Da Giussano? Ahi ahi, qui in quanto a coerenza andiamo maluccio… Ma torniamo alla musica. Poche testimonianze della musica presso i celti sono archeologiche, iconografiche o letterarie: sul famoso Calderone di Gundestrup, su monete, su qualche rara incisione su pietra, sono raffigurati dei corni e una sorta di tromba, simile quest’ultima a quella rinvenuta nel fiume Witham nel Lincolnshire. Diodoro Siculo (I secolo) ci segnala l’utilizzo da parte dei bardi di uno strumento a corde assai simile alla lira greca. Un’antica canzone irlandese recita di uno strumento chiamato ‘crot’ diventato poi ‘chrotta’ in epoca medievale, ma si parla sempre di testimonianze del secolo XIII.
Per la cornamusa la storia è ancora più singolare: strumento delle civiltà nomadi pastorali (la sacca è manifestamente uno stomaco di pecora) in un’area immensa, che va dalla Mongolia all’Africa del nord, fu portata nelle isole celtiche dai legionari romani – per inciso Svetonio e Dione Crisostomo parlano di Nerone come suonatore di uno strumento composto di un flauto (aulein) e una sacca di pelle da suonar con l’ascella e non se ne trova alcuna testimonianza nel mondo celtico antico. Ricompare brevemente nel IX secolo (Dardano parla di “chorus quoque simplex pellis cum duabus cicutis aereis: et per primam inspiratur per secundam vocem emittit”), scompare per tutto il Medioevo e poi se ne riparla all’alba del Rinascimento celtico, quando i patrioti scozzesi e irlandesi (con ben altra cognizione di causa che non gli pseudoceltici nostrani) la reinventano come strumento nazionale da battaglia che rimanda all’eredità di nazione celtica, non certo alla sua musica. Buon ultima l’arpa, che fu del bardo Merlino, sembra avere qualche certezza in più. Sono state rinvenute parecchie statuette sacrali raffiguranti un dio simile ad Apollo che regge una lira a sette corde, ma la caratteristica arpa asimmetrica non compare prima del IV secolo d.C.
Con buona pace di Bossi e dei suoi, cosa sia la musica dei celti rimane un mistero. Qualche traccia la lascio io: a chi abbia voglia di ricercare, sul versante della voce, lì può darsi ci sia qualcosa: il lamento della Banshee fa ancor oggi paura. Il cd è Lament (Virgin records, 1992) dedicato alla vocalità solista irlandese.