Manca ormai poco alle elezioni presidenziali negli Stati Uniti. Molti vedono questa data come l’ultima spiaggia per un sussulto, un risveglio di democrazia partecipativa. Altri, più realisti e un poco pessimisti come il regista Michael Moore e il sottoscritto, pensano invece che questa sarà l’ennesima occasione mancata e che la rielezione di Trump porterà definitivamente gli Stati Uniti nel fondo dell’Abisso. Vi confesso che, preso dalla sfiducia, ho pensato parecchie volte che questa fosse l’unica soluzione possibile: una palingenesi globale da cui poter ricominciare. Il problema è che da un lato nessuno ci garantisce che, sprofondando nell’abisso, gli Stati Uniti non trascineranno con sé anche tutti gli altri che sono in qualche modo a essi collegati (in termini e tempi di globalizzazione è praticamente la regola universale). Dall’altro nessuno ci garantisce che quelli che sopravviveranno saranno i migliori, quelli su cui poter contare per un ribaltamento dei paradigmi e un nuovo inizio in un vero nuovo mondo. Parafrasando le mitologie degli aborigeni australiani, ho pensato che un cataclisma colossale potrebbe essere l’occasione per l’avvento di un tempo del sogno nello spazio nordamericano. I sopravvissuti cantano la creazione e la scoperta di un nuovo mondo: tra quelle rocce troveranno l’acqua; sotto un gruppo di alberi troveranno un favo di miele. Insomma, succede un po’ come nel catastrofale 2012 di Roland Emmerich dove il catastrofico movimento delle acque che sommergono tutto il globo lascia un unico pezzo di terra asciutta che è l’Africa, da cui tutto ricomincia.
Quello che è successo è che la realtà dei fatti si è incaricata di dare una smentita alla sfiducia che mi vagava in testa. È bastato che un video rimbalzato da amici di amici di amici mi riportasse alla memoria il tempo in cui ebbi la fortuna di conoscere Sun Ra, il jazzista alieno che sosteneva di essere stato teletrasportato su Saturno e i cui unici mentori erano Dizzy Gillespie e Thelonious Monk (mica per caso, altri due alieni nel jazz). Stavolta sul palco non c’era più il bizzarro Imperatore Galattico che avevo conosciuto e a cui un’amica designer di moda aveva regalato una corona fatta di carta d’alluminio e stagnola; non c’era più l’altrettanto bizzarra corte di musicisti abbigliati parte con costumi africani parte con rimasugli urbani, cugini solo un po’ più anziani dei futuri e futuribili Art Ensemble of Chicago. No. Stavolta sul palco c’era un energico e muscoloso ragazzo del Sud degli Stati Uniti con l’aria decisa e determinata di chi sta già scrivendo il proprio futuro. Un tipo anche troppo serio, che forse si prende troppo sul serio ma, hey: negli USA se sei nero e fai un attimo il buffone ci vuole solo un attimo a metterti addosso l’etichetta del giullare per tutta la vita. Sessanta e passa anni fa ci volle poco a capire, da parte del pubblico dei bianchi, che le bizzarrie di quello strano trombettista, John Birks Gillespie, chiamato “Dizzy”, non erano comportamenti fini a se stessi. Suonare, con le spalle al pubblico, una tromba la cui parte finale è rialzata di 45°, non è una barzelletta: è una provocazione consapevole. Per il resto Dizzy Gillespie è vestito in modo estremamente serio, inappuntabile, alla maniera dei bianchi, e questo rende la cosa contraddittoria, come la musica che lui e i suoi compagni suonano. Tutt’altro che jazz ballabile o delle belle ballads romantiche. È un jazz selvaggio, frenetico, ardito e pieno di dissonanze e sostituzioni armoniche impensabili. Presente?
Bene, cancellate tutto. A inizio anni ‘70 sul palco c’è un altro trombettista pazzo vestito con il camice di un medico e una congerie di musicisti con pitture e costumi tribali africani: Lester Bowie e l’Art Ensemble of Chicago. Altro scandalo, altro giro di coscienza. Presente? Cancellate tutto un’altra volta.
A metà anni ‘90 avevo visto sul palco James Carter, vestito da rapper fatto e finito: grosse scarpe da basket, cappellino da baseball alla rovescia, pantaloni ben larghi da ginnastica, maglietta di qualche squadra, e almeno un paio di chili d’oro addosso, tra catene, anelli e braccialetti. Carter suonava una sorta di bebop avanzato, ma quasi esageratamente ossequioso verso i propri anziani predecessori dello Swing e del Bop, e dico quasi perché ogni tre battute il suo sax (baritono o tenore) si metamorfizzava in una proboscide d’elefante, rilasciando una serie spaventosa di barriti – perfettamente in tono, per carità, ma Diomio che shock. Adesso.
Adesso c’è sul palco quel ragazzo di cui parlavo qualche riga sopra. Visto da fuori è un rapper fatto e finito con poche variazioni nei capi di vestiario classici del genere. L’unica cosa che varia, in realtà, è il numero e la foggia dei gioielli d’oro che si porta addosso. Le catene al collo hanno qualcosa di egiziano, sfoglie e foglie d’oro, conchiglie, forse gusci d’animali. Le treccine afro, divise in righe parallele, terminano con gioielli fermacapelli di foggia squisita ma d’origine direi tribale se non fosse un termine abusato. Interrogato in proposito, Christian Scott rivela a me e ai simpatizzanti del grande colpo di scopa che cancellerà la civiltà stelle e strisce, il segreto e il nucleo del futuro. Tra le paludi del Sud vivevano secoli fa parecchie tribù di Nativi Americani (Chickasaw, Choctaw, Houma e via discorrendo). Gli unici che danno ospitalità e accoglienza agli schiavi africani che fuggono dalle piantagioni dei bianchi sono i contrabbandieri (che come al solito abbondano nelle paludi) e questi Nativi. Nasce una civiltà ibrida e meravigliosa, tra Nativi e schiavi dell’Africa Occidentale, originari perlopiù di Ghana e Benin ma anche Congo.
Oggigiorno Christian Scott è il pronipote di Big Chief Donald Harrison Sr., il nipote del prolifico sassofonista jazz Donald Harrison Jr., ed è un capotribù di terza generazione nelle tribù afro-new-orleans, che usano maschere tribali africane e sono conosciute a livello regionale come Indiani neri. «Perché se vai a guardare le foto dei governanti Akan (tra Ghana e Costa d’Avorio), li vedrai vestiti d’oro da capo a piedi. Se guardi le foto di Obas del Benin, anche loro sono vestiti d’oro allo stesso modo.» (1) Bene, ecco uno che ha chiaro da dove arriva. In USA tentare di parlare, se non rivendicare, le proprie roots, per molti anni è stato impossibile o vergognoso: non solo i nipoti degli schiavi, ma anche i nipoti di italiani, ispanici, russi, ebrei comunque intesi – bastava non fossero bianchi discendenti di inglesi, francesi o di olandesi, possibilmente massoni, le varie élite politiche e finanziarie. Il grande movimento per la rivendicazione dei diritti civili ha portato a galla l’identità africana, declinata come nel caso di Christian Scott in modo del tutto originale e – direi – futuribile, dato che la sua stessa esistenza è la causa di domande, per chi ha voglia e curiosità di farle.
«Se quello che vedi nei termini della mia moda non lo riconosci per nulla, questo crea una domanda. Quella domanda è tutto ciò di cui ho bisogno. La domanda potrebbe essere: “Non ho mai visto una collana che assomigli a quella. Mi chiedo da dove venga. Mi chiedo da dove TU venga”. Quindi le domande portano a più domande… Parte del modo in cui la mia moda è progettata fa parte della mia preoccupazione di creare nuove domande. Penso che le domande siano la chiave. Ovviamente quando un essere umano vuole imparare qualcosa, la tattica che impiega è una domanda. Se stiamo cercando di capire o imparare come andare d’accordo e creare un futuro in cui i bambini non combattano la terza guerra mondiale e non ci siano dei figli di puttana che corrono attaccandosi a vicenda con bastoni e pietre, allora molto di questo dovrà avvenire con le domande giuste… Se riesco a creare una domanda, forse farai un passo indietro e forse inizierai a provare a vedere un po’ della mia umanità.»
Christian (più tardi aggiungerà i due nomi africani Adjuah e aTunde) è un genio precoce. Nato il 31 marzo 1983 a New Orleans, a 12 anni viene preso a studiare sotto la guida dello zio Donald Harrison jr, già famoso di suo, e a 16 anni entra nel quintetto dello stesso. Subito dopo entra al prestigioso Berklee College of Music di Boston, Massachusetts, dove si laurea nel 2004 completando gli studi in meno di trenta mesi con una tesi sulla musica da film. Ma già due anni prima, a 19 anni, aveva inciso il suo primo album omonimo e tra il 2003 e 2004 dirigeva Art.21 Student Cooperative Quintet con la supervisione e produzione di Pat Metheney e Gary Burton (che sarà tra i suoi più importanti insegnanti). A passo di marcia Christian si sposta da Boston a New York e nel giro dei giovani jazzisti di Harlem è il più avanti nella mescola tra jazz classico (Davis, Coltrane), hip-hop, trip-hop, jazz, hip-hop ed eclettismo muzak stile Spotify.
Il nostro incide nel 2006 Rewind That per una major come la Concord Records; quattro e sei anni dopo vince l’Edison Award e finalmente nel 2014 riceve la prima nomination ai Grammy come miglior album di Jazz Contemporaneo. Dal momento in cui ha iniziato e sino al 2002 ha inciso ben dodici album in studio e due dal vivo. Nel 2007 pubblica Anthem, una dichiarazione post-uragano Katrina con un nuovo suono pungente, guidato allo stesso modo dal thrash rock, dalla gravità hip-hop e dalla sincerità jazz. Con brani come Litany Against Fear e Katrina’s Eyes, Scott chiarisce ancora una volta, se ce ne fosse bisogno, il suo impegno nell’affrontare le questioni sociali con la sua musica. Per coerenza, si ritrasferisce a New Orleans per contribuire alla rinascita culturale della città post-uragano. Seguirà una serie di album formidabili, tra cui Yesterday You Said Tomorrow del 2010, che sembra la foto panoramica di una terra in subbuglio, scattata attraverso una lente polverosa.
Quando ha pubblicato Stretch Music nel 2015, l’ha accompagnato con una app per smartphone da lui stesso ideata. Permette agli ascoltatori di manipolare e isolare tracce diverse, in modo che possano vedere il modo in cui le sue innovazioni sono modellate e persino suonare insieme. «In un certo senso, è un tentativo di democratizzare il rapporto insegnante-studente e di impedire che il jazz venga superato dall’impeto della tecnologia» dice Scott. Per questo motivo, e non per smania di sperimentazione, Scott ha persino trovato il tempo di andarsene in tour con Thom Yorke (sì proprio lui! Col supergruppo Atoms for peace, in cui molti eccellenti soli di tromba sono suonati da Flea dei Red Hot, lo credereste?) e persino di studiare con Prince buonanima un progetto di supergruppo jazz.
Nel 2017 arriva la sua opera più importante, il triplo album The Centennial Trilogy (schizzato immediatamente al numero uno su iTunes Jazz),ideato per celebrare il centenario del primo successo commerciale di un disco jazz, cioè Livery Stable Blues a opera della Original Dixieland Jass Band (ODJB), un quintetto di New Orleans di soli bianchi (e con ben due italiani, Nick La Rocca e Tony Sbarbaro). Quest’opera è una sorta di manifesto programmatico della già raggiunta maturità artistica di Christian Scott e comprende tre album ognuno dei quali è una storia a sé e una gemma da suonare e risuonare sui vostri piatti. A me intriga da matti Ruler Rebel, dove ci sono due comprimari come la portentosa flautista Elena Pinderhughes e il pianista Lawrence Fields. Raro, nel jazz, vedere una serie di temi esposti contemporaneamente da tromba e flauto, ancora più raro se c’è dietro una drum-machine e contrappunto di contrabbasso, col piano che veleggia armonizzando tutto. Eppure succede.
Lo spirito di Miles Davis (senza sordina) e del Coltrane di Equinox (versione magistrale!) aleggiano senza bisogno di dirlo. Tutto il disco potrebbe entrare tranquillamente in una compilation dell’hip-hop più raffinato, quello che giustamente è contiguo da sempre al Jazz per le sue radici afroamericane, come ci ha insegnato anni fa Guru Keith Elam. Come trombettista Christian Scott è uno dei rari musicisti che ha dato soluzione pratica e personale a una delle più grandi sfide del jazz di questi tempi: assicurarsi che gli assoli rimangano coinvolgenti ora che i ritmi altalenanti, i rapidi cambi di accordi e le sostituzioni armoniche del bebop tradizionale hanno ampiamente ceduto il passo a tracce bollenti di bassi da sound-system e abolizione dei frontman. Scott ottiene questo risultato abbandonando lo stile di assolo lineare e vivace che definiva il bop, privilegiando invece melodie lunghe e drappeggiate, punteggiate dall’occasionale volo limpido della sua tromba dorata e programmaticamente costruita con la campana rialzata: quella che per Dizzy Gillespie era diventata una soluzione creativa a una sfiga, per Scott è trasmutata in una forma d’arte meditata e piuttosto sperimentata.
Insomma, il futuro è già di nuovo qui, che i bianchi lo vogliano o no, e ancora una volta è madre Africa a fornire la piattaforma, stavolta arricchita dagli unici veri americani, i Nativi. Anche se, per la verità e per mia contentezza personale, Christian Scott ‘apre’ al mondo con uno spirito di condivisione che gli fa onore parlando della mai abbastanza risolta questione dei generi musicali – questione aggravata, direi, dalla solita stupida idea politically correct della segmentazione in micro-categorie per far contenti tutti.
«Quando si guarda all’idea di genere si vede chiaramente che è iper-razzializzata» dice Scott, aggiungendo che una delle prime categorie di “genere” ideate dalle case discografiche era quella dei “race records” ovvero “musica razziale” – una per ogni etnìa presente sul suolo USA (neri, italiani, ebrei ecc.). «Ma se posso mostrare la compatibilità di tutti quei gruppi apparentemente disparati, se posso sposare il suono, tutti i suoni, allora mostro che in realtà le persone non sono solo compatibili, ma siamo la stessa cosa. Il nostro cuore è lo stesso… Quando ero un ragazzino, vedevo famiglie nere con figli destinati a essere poco istruiti in modo da poter essere nella classe operaia. Ma succedeva che ci fossero famiglie bianche con figli sotto-istruiti e predestinati a essere classe operaia. Tutti questi ragazzini non sono mai arrivati al punto di rendersi conto di essere le stesse persone. In quanto costrutto sociale, la razza esiste. Ma c’è solo una razza. Non c’è Homo Sapien Africanus. E da giovane, volevo cercare di trovare un modo per affrontarlo. Questo è il motivo per cui ho davvero avuto tanta passione per la musica. Perché a New Orleans, storicamente, l’unico modo con cui puoi convincere la gente a smettere di litigare è quando una banda di ottoni fa quello che deve fare. Così ho deciso da molto giovane che volevo provare ad affrontare questo problema in modo non violento attraverso l’arte. Avevo forse dodici anni… Quindi la mia idea è che se posso creare una forma di musica, o un modo di operare nella musica, che possa portare via i principi del genere fondendoli con altre culture, allora essenzialmente cosa sto facendo alla musica? Se posso mescolare tutte quelle culture musicali apparentemente disparate e confinarle in uno spazio e sposarle tutte, allora cosa sto dicendo delle persone? Sto dicendo che le persone si appartengono. Quindi la Centennial Trilogy è il nostro modo di farlo, che affronta anche parte di ciò che deve essere affrontato nel jazz. Sapevo che il traguardo del centenario sarebbe arrivato quando ero un ragazzino. I miei insegnanti dicevano sempre: quando accadrà il centenario voi ragazzi sarete uomini. Sarete adulti.»
Ecco, è successo. E gli States hanno di nuovo una speranza, così come tutto il mondo.
1) I virgolettati di Scott sono tratti da articoli di Giovanni Russonello sul New York Times (febbraio 2017) e da Shakil Greely su GQ (31 maggio 2017)