Sergio Caprini è rappresentante sindacale SLAI COBAS a Bergamo: un’area nell’occhio del ciclone nell’epidemia Covid di primavera, “zona rossa” insieme a tutta la Lombardia nell’attuale seconda ondata. Ieri come oggi, snodo cruciale sono le realtà manifatturiere. A marzo, dopo l’avvio del lockdown, ci sono volute due settimane perché il governo bloccasse le attività produttive considerate non essenziali. Oggi siamo partiti con il coprifuoco, poi con il cosiddetto “lockdown morbido”, e ora gli ospedali lombardi lanciano l’allarme “collasso”, la Federazione degli Ordini dei medici chiede il lockdown totale, ma nessun rappresentante politico parla di chiudere la manifattura. In primavera, le pressioni di Confindustria sulla giunta regionale di Fontana e sul governo nazionale di Conte per non sospendere la produzione, erano quotidiane e palesi sul Sole 24 ore: l’industria italiana non voleva cedere terreno ai concorrenti esteri nelle catene internazionali del valore. Oggi sembra dominare un non-detto: comunque evolva la situazione sanitaria, la produzione non chiuderà. Ma si lavora sicuri? E c’è un secondo punto: le autorità controllano affinché si lavori sicuri?
Tu hai a che fare con diverse realtà produttive dell’area di Bergamo, quindi riesci ad avere uno sguardo ampio sulla situazione: come sono gestiti i protocolli di sicurezza sul lavoro istituiti per fronteggiare il Covid?
Secondo la mia esperienza, per quel che ho visto in grossi gruppi – parliamo di Tenaris Dalmine, Brembo, Evoca… tutte le grosse fabbriche di Bergamo sopra i mille operai – le norme anti-contagio sono state una grande vetrina esterna: distanziamento, mascherine, disinfettante, ci sono fabbriche che hanno messo la tenda, entri e ti danno la mascherina tutti i giorni, lo spray e tutto il resto; dopodiché, la prevenzione finisce sulle linee di lavoro. In tante industrie la sicurezza continua a non esserci, il distanziamento e le mascherine sono un po’ aleatori, e anche dove ci sono e sono stati sottoscritti dei protocolli con Cgil, Cisl e Uil, tutto si ferma alle linee di montaggio. Il punto è che alle catene di lavorazione spesso ci sono ritmi di lavoro che sono incompatibili con la mascherina.
Stai dicendo che il rispetto delle norme di sicurezza Covid inevitabilmente porta a un rallentamento dei ritmi produttivi, rallentamento che la proprietà non vuole attuare, e quindi di fatto saltano le norme di sicurezza?
Alla riapertura dopo il lockdown, le fabbriche sono partite con squadre di volontari per provare le linee, piccole produzioni limitate e a ritmi blandi. Squadre in genere composte dai lavoratori più subordinati all’azienda, che una volta testato le linee hanno detto: «Va tutto bene, è tutto normale». Certo: tu entri e c’è la tenda, le righe per terra, i cartelli con scritto “Stai attento”, il capo che ti dice di non togliere la mascherina… però c’è un piccolo dettaglio: quando chiedi una boccata d’aria non puoi averla, perché non puoi staccarti dalla linea. E quando via via i ritmi si sono incrementati e le linee si sono riempite, tu sei lì a lavorare con la mascherina.
Tanto per cominciare, c’è un primo punto: se seguiamo le norme per la sicurezza, ogni diverso elemento che modifica il ciclo di lavorazione richiede una diversa valutazione del rischio, e questo è scritto nel Testo Unico sulla Sicurezza. Quindi se lavoro tenendo lo stesso ritmo di prima ma indossando una mascherina, che mi crea un affanno perché riduce leggermente l’ossigeno, questo rischio va valutato. Secondo aspetto: non puoi tenere una mascherina per lungo tempo senza averne disagio, e quando accade, o puoi andare al bagno, o puoi toglierla, o puoi prendere una boccata d’aria; se queste cose non puoi farle, la tiri giù, poi ti gratti, e la protezione se ne va a quel paese. Perché sei sulla linea con gli altri, se indossi la mascherina è perché non può essere garantito il distanziamento: prendi un pezzo, poi quell’altro lavoratore usa lo stesso il pezzo, e via. Quindi le misure di sicurezza si sono tutte infrante sulle catene di produzione. Per non dire delle fabbriche che hanno una tipologia di linee produttive che fa sì che i lavoratori si intreccino, dove non possono stare sempre fermi. È il caso di Evoca, che produce macchine professionali del caffè: lì il tipo di lavoro porta le operaie a contatto, e in queste condizioni è un caos.
Come sindacato, avete denunciato alle autorità competenti la mancanza di applicazione delle norme di sicurezza?
Più volte. Personalmente ho inviato parecchie segnalazioni all’ATS e alla prefettura di Bergamo (leggi il documento). Per esempio, nelle fabbriche dove si confeziona l’insalata della quarta gamma, abitualmente i lavoratori utilizzano la mascherina chirurgica per la protezione dell’insalata e la cambiano 4 o 5 volte per ogni turno di lavoro. Ebbene a marzo, nel momento del picco del Covid, l’azienda ne dava una sola, imponendo di utilizzarla anche per 2/3 giorni. Teniamo anche presente che sono ambienti a bassa temperatura e con una certa umidità, quindi le mascherine si bagnano velocemente divenendo inefficaci – e sappiamo anche che disagio provoca avere addosso un indumento bagnato. Ho segnalato questa situazione all’ATS e alle fabbriche stesse, in alcune la situazione è cambiata, in altre no, perché non dappertutto si riesce a lottare come si dovrebbe. Quindi in un momento di pandemia sono state peggiorate non solo le condizioni di sicurezza del lavoratore ma anche quelle del prodotto.
Un’altra situazione che ho segnalato a marzo all’ATS, alla prefettura e alle aziende coinvolte, riguarda il settore della logistica. Soprattutto i pickeristi, per la raccolta dei colli per fare l’ordine lavorano con dei voice, degli auricolari con cuffia e microfono dove viene caricato l’ordine del negozio. È una specie di battaglia navale: il software ti dice “B2” e il lavoratore va nella corsia B scaffale 2, prende il barattolo di piselli, per dire, e spara con lo scanner il codice a barre del prodotto; il programma recepisce che un prodotto è stato preso e dà indicazioni per un altro. Considerate che ci sono aziende che impongono 200 colli all’ora, quindi 3 al minuto, e che è anche un sistema di controllo del lavoratore… ma restando sul tema Covid, in periodo di pandemia i voice erano buttati nel cesto, promiscui, e la mattina i lavoratori dovevano prenderli a caso.
I vostri esposti hanno cambiato la situazione? L’ATS si è mossa?
Risposte dirette da ATS Bergamo in merito a nostri esposti specifici, non ne abbiamo ricevute. Ci hanno scritto usando la formula “esposti generici” ma non lo erano (leggi il documento), e a fine marzo hanno diffuso un ulteriore protocollo di sicurezza per il settore della logistica, che evidenziava anche il problema dei voice utilizzati in modo promiscuo (leggi il documento). Non ho informazioni circa gli interventi fatti per farlo rispettare, ATS non ha mai dato conto al sindacato di specifiche ispezioni, o dello stato della sicurezza nelle aziende, o di eventuali sanzioni in merito alle nostre segnalazioni. Qualche azienda ha modificato la situazione, e infatti alcuni lavoratori ci hanno segnalato cambiamenti, soprattutto sulla distribuzione delle mascherine o sui voice, almeno in un’area dello stabilimento. Perché il problema delle grandi piattaforme logistiche è che ci sono diverse aree, suddivise per cliente, con molte cooperative in appalto, e ognuna lavora per conto suo: senza un intervento forte di ATS la committente dell’appalto non detta certo rigidi protocolli per le varie cooperative, si limita a prescrizioni generali da mettere all’ingresso – disinfettante, mascherine e distanziamento. Se ATS entrasse in una grande piattaforma logistica, di quelle che hanno 700/800 lavoratori e decine di cooperative, e chiedesse conto al committente delle norme di prevenzione, otterrebbe risultati efficaci con uno sforzo minimo.
Oggi qual è la situazione? Perché la Lombardia è di nuovo in lockdown, di fatto, mentre le attività produttive sono tutte aperte…
Purtroppo a giugno quando noi dicevamo: “Rompiamo questi ritmi di produzione, non è possibile lavorare in questo modo, vanno rallentati, la mascherina è un disagio, è una condizione diversa, bisogna valutare diversamente la produzione e la sicurezza”, tra i lavoratori spesso ha prevalso il “dobbiamo adattarci, dobbiamo arrangiarci”. E vi garantisco che li ho visti direttamente gli effetti: persone che uscivano alle dieci di sera, al secondo turno, chiaramente si aggiungeva il caldo… erano dei fantasmi. Il Covid è stato questo in tante fabbriche, però il problema è che il Covid è ancora questo in tante fabbriche: le aziende hanno dovuto assumere un comportamento di facciata, qualcuna l’ha fatto anche con grande dispendio, ma solo all’esterno. Continueremo a chiedere agli operai di ascoltarci, di sentirci, di organizzarsi con noi per tentare di costruire una risposta diversa sulle linee produttive. Perché se cresce il contagio nelle fabbriche, ci saranno dei focolai tremendi.