Sindemia: a morire sono i poveri. Cosa mostrano i dati del Center for Disease Control and Prevention statunitense e quelli dell’ultimo rapporto Istat: perché non si tratta solo di comorbidità con malattie croniche e di accesso al sistema sanitario, ma anche di classe sociale. E cosa ci dice sulle diseguaglianze future
Secondo lo storico austriaco Walter Scheidel (classe 1966), il gran numero di decessi causati dalle catastrofi, come la peste, le guerre o le grandi siccità, avrebbe nel lungo periodo un effetto benefico sull’economia. Nel suo libro The great leveler: violence and the history of inequality from the stone age to the twenty-first century (Il Mulino, 1989), Scheidel sostiene che gli shock violenti causati da gravi eventi avversi giochino un ruolo cruciale nel ridurre la disuguaglianza, perché la scarsità di forza lavoro che ne consegue spinge verso l’alto i salari. Pare purtroppo che “la grande livella” non stia affatto funzionando con la pandemia da Covid-19. Sembra anzi che il coronavirus produca l’effetto opposto, e cioè che acuisca gli svantaggi socioeconomici delle fasce di popolazione più fragili.
Il Covid-19 e gli USA
Il 5 luglio scorso il New York Times ha pubblicato un articolo dal titolo The fullest look yet at the racial inequity of coronavirus (1). Il giornale è riuscito a ottenere dal CDC (Center for Disease Control and Prevention) i dati su 1,45 milioni di casi di Covid, relativi al periodo gennaio-maggio 2020. Questi dati riguardano 974 contee, che nel loro insieme rappresentano circa il 55% della popolazione statunitense. Gli autori del pezzo hanno calcolato i tassi di infezione e di mortalità raggruppando i casi relativi a ogni county per etnia e fascia d’età; e hanno poi confrontato i risultati con le più recenti stime della popolazione effettuata dal Census Bureau (2). La conclusione cui sono giunti è che il coronavirus negli USA ha colpito in modo sproporzionato i cittadini neri e latinoamericani, sia nelle aree urbane che in quelle suburbane e rurali, e in tutte le fasce d’età. In particolare, l’analisi del Times dimostra che i latinoamericani e gli afroamericani hanno avuto il triplo delle probabilità di contrarre l’infezione rispetto ai bianchi, e quasi il doppio delle probabilità di morire a causa del virus rispetto ai bianchi. “Il razzismo sistemico non si manifesta solo nel sistema giudiziario penale”, ha commentato Quinton Lucas, sindaco (nero) di Kansas City. Nel suo Stato, il Missouri, il 40% degli infetti sono neri o latini, benché questi gruppi costituiscano solo il 16% della popolazione dello Stato.
Secondo gli esperti, le circostanze che hanno reso i componenti di queste categorie sociali più vulnerabili al virus sono essenzialmente tre: molti di loro hanno professioni che non possono essere svolte da remoto (come fare le pulizie, il commesso, lavorare in un call center o effettuare consegne a domicilio), dipendono dai trasporti pubblici per i loro spostamenti e abitano in appartamenti angusti o in case in cui convivono più generazioni della stessa famiglia. In poche parole, sono più poveri.
Per esempio, nella contea di Fairfax, appena fuori dai confini di Washington D.C., il numero di residenti bianchi è tre volte superiore a quello dei latini, ma il numero di cittadini latini che è risultato positivo al Covid è quattro volte superiore a quello dei bianchi. Fairfax è una delle county più ricche degli USA: il reddito familiare medio dei suoi residenti è 120.000 dollari, il doppio di quello medio nazionale, pari a 60.000 dollari (3). L’elevato potere di acquisto ha spinto al rialzo il costo degli alloggi: nel 2017 un appartamento con una sola camera da letto costava quasi 64.000 dollari all’anno (4). Di conseguenza, le famiglie con un reddito modesto devono ammassarsi in case che impediscono ogni tipo di privacy, figuriamoci il distanziamento sociale in tempo di pandemia. Inoltre i membri di queste famiglie sono spesso obbligati a spostarsi fisicamente per recarsi sul posto di lavoro (o per cercarne uno); e, infine, il rischio di ammalarsi, quando si vive in alloggi troppo piccoli, è aggravato dalla pressione per continuare a lavorare o per tornare rapidamente al lavoro, magari in un ambiente a rischio.
E ciò che succede a Fairfax succede in tutto il Paese: negli USA, come dimostrano i dati del censimento del 2018, il 43% dei lavoratori neri e latinoamericani hanno professioni che non possono essere svolte a distanza (la percentuale di bianchi occupata in mansioni analoghe è del 25%). Inoltre, secondo l’American Housing Survey (un sondaggio finanziato dal Dipartimento degli alloggi e dello sviluppo urbano [5]), i latinoamericani hanno il doppio delle probabilità rispetto ai bianchi di risiedere in un’abitazione affollata.
Tenuto conto che le cifre nazionali sottovalutano in una certa misura la disparità (il Covid è molto diffuso fra gli americani anziani, categoria che annovera una percentuale di cittadini bianchi più elevata rispetto ad altre fasce d’età), la situazione risulta ancora peggiore: i latinoamericani di età compresa tra i 40 e i 59 anni sono stati infettati a un tasso cinque volte superiore a quello dei bianchi; mentre fra i morti, più di un quarto dei latini aveva meno di 60 anni (tra i bianchi deceduti, solo il 6% era così giovane).
Il tasso di mortalità più alto tra i neri e i latinoamericani è stato spiegato, in parte, sulla base di una maggiore incidenza in queste etnie di problemi di salute cronici, tra cui il diabete e l’obesità (le malattie dei poveri). Ma i dati del CDC rivelano un significativo squilibrio nel numero di casi di infezione, non solo nei decessi, un fatto che, secondo gli scienziati, sottolinea che le disuguaglianze siano solo in parte correlate ad altri problemi di salute.
In altri termini, benché senza dubbio la comorbidità giochi un ruolo importante nel tasso di mortalità per coronavirus, il primo fattore che determina la morte è aver contratto l’infezione, e il Covid è molto più diffuso tra le persone che non possono lavorare da casa: anche molti bianchi hanno patologie croniche ma, grazie al remote working, non sono esposte al virus e quindi non si ammalano e non muoiono. “Le differenze nei tassi di infezione sono impressionanti”, ha dichiarato Jennifer Nuzzo, epidemiologo e professoressa presso la Johns Hopkins Bloomberg School of Public Health, e a suo parere non dipendono principalmente dalle condizioni di salute sottostanti.
Il Covid-19 e l’Italia
Quasi in contemporanea al Times, il 3 luglio, l’Istat ha pubblicato il Rapporto annuale 2020 sulla situazione del Paese (6), che quest’anno si è concentrato sugli effetti della pandemia in Italia. L’ente di statistica ha effettuato un’operazione molto simile a quella dei giornalisti del NYT, cioè ha aggregato i dati per classi sociali (definite questa volta in base al reddito e non all’etnia) e ha osservato l’andamento dei tassi di mortalità. Le conclusioni, sorprendentemente (date le differenze socioeconomiche fra l’Italia e gli USA, in particolare nel sistema sanitario), sono molto simili. “Nel marzo 2020 e, in particolare, nelle aree ad alta diffusione dell’epidemia, oltre a un generalizzato aumento della mortalità totale, si osservano maggiori incrementi dei tassi di mortalità, in termini tanto di variazione assoluta quanto relativa, nelle fasce di popolazione più svantaggiate, quelle che già sperimentavano, anche prima della epidemia, i livelli di mortalità più elevati. Uno scarso livello di istruzione, povertà, disoccupazione e lavori precari influiscono negativamente sulla salute e sono correlati al rischio di insorgenza di molte malattie (ad es. quelle cardiovascolari, il diabete, le malattie croniche delle basse vie respiratorie e alcuni tumori), che potrebbero aumentare il rischio di contrarre il Covid-19 e il relativo rischio di morte” (7).
Le classi di reddito sono state stabilite dall’Istat sulla base del livello di istruzione, universalmente riconosciuto come la migliore proxy (8) della condizione socioeconomica, dal momento che è direttamente correlato sia con la condizione occupazionale che con la classe sociale. Ebbene, se si considera l’andamento della mortalità nel periodo compreso tra il 1° gennaio 2019 e il 31 marzo 2020, le persone con un basso livello di istruzione presentano sempre un livello di mortalità più elevato di quelle a medio e alto reddito.
Inoltre, se si analizza un secondo indicatore, il rapporto standardizzato di mortalità (RM), la situazione è ancora peggiore. Il RM misura l’eccesso di morte dei meno istruiti rispetto ai più istruiti, ed è in questo senso una misura dell’effetto negativo degli svantaggi socioeconomici sulla mortalità degli individui. Nel mese di marzo 2020 assistiamo a un incremento del differenziale nelle aree ad alta diffusione dell’epidemia, più marcato per le donne: il RM varia negli uomini da 1,23 di marzo 2019 al 1,38 di marzo 2020 e nelle donne da 1,08 a 1,36. Dall’analisi per classi di età emerge un aumento del rapporto di mortalità negli individui con livello di istruzione basso (rispetto a coloro con un livello alto) nella classe di età 65-79 anni, sia per gli uomini (da 1,28 a 1,58), sia per le donne (da 1,19 a 1,68). Le donne subiscono un peggioramento rilevante anche nella classe di età precedente (35-64 anni), dove il rapporto passa da 1,37 a 1,76. Non si osservano invece delle variazioni significative rispetto al 2019 nella popolazione più anziana (≥80). Ciò significa che nel mese di marzo in tutte le classi di età (tranne per gli over 80), lo svantaggio socioeconomico ha spinto verso l’alto il tasso di mortalità.
In Lombardia, la regione più colpita dalla prima ondata di Covid-19, i risultati confermano le conclusioni a livello nazionale, con una sottolineatura interessante: nel mese di marzo 2020 il RM non è cresciuto nelle aree a bassa diffusione del virus in nessuna delle classi di età considerate.
Dunque, è stata proprio l’epidemia ad acuire le diseguaglianze preesistenti, e si è accanita sui cittadini con un basso titolo di studio, non necessariamente anziani. Il caso più interessante è senza dubbio quello delle donne meno istruite di età compresa fra 35 e 64 anni, che vedono aumentare il proprio RM del 28%.
Le differenze possono essere imputate a un rischio più elevato di contrarre l’infezione oppure a una maggiore vulnerabilità preesistente (il problema della comorbidità, che a sua volta è collegato a condizioni socioeconomiche più sfavorevoli). È lo stesso dilemma cui ha dovuto rispondere il New York Times, e l’Istat è della stessa opinione: “Condizioni socioeconomiche svantaggiate espongono le persone a una maggiore probabilità di vivere in alloggi piccoli o sovraffollati, riducendo la possibilità di adottare le misure di distanziamento sociale”. Un’analisi del Bruegel (un think tank europeo che si occupa di economia) ha rilevato come, in Italia, i cittadini che rientrano nel 10% delle famiglie con i redditi più elevati abbiano a disposizione una media di quasi 76 metri quadri pro capite, mentre quelli che rientrano nel 10% più basso si fermano all’esatta metà, 33 metri circa pro capite. Inoltre, le abitazioni più ampie, e quindi più costose, sono occupate da inquilini con un grado di istruzione superiore e impiegati in lavori ad alto reddito, in larga parte convertibili in forme di smart working. Gli appartamenti più piccoli, al contrario, sono popolati da una fascia di inquilini con un grado di istruzione inferiore, associati a lavori a termine e più difficili da eseguire da remoto (9).
Come già sottolineato a proposito degli Stati Uniti, sono le occupazioni che, più di altre, espongono i lavoratori al rischio di contagio. Tra queste ci sono ovviamente le professioni sanitarie (soprattutto durante la prima ondata, in cui anche negli ospedali mancavano i dispositivi di protezione individuale), insieme a tutte le altre mansioni che non offrono possibilità di smart working o che non godono delle necessarie tutele, come i lavori in agricoltura, nella vendita al dettaglio e nella grande distribuzione, nel trasporto pubblico, i servizi di pulizia, di assistenza e cura dei bambini e degli anziani. La popolazione con un basso livello di istruzione, e le donne in particolare, hanno inoltre una maggiore probabilità di avere condizioni occupazionali e di reddito instabili, molto spesso lavorano in nero (si pensi alle donne delle pulizie, alle badanti, alle tate) per cui “non possono permettersi”, qui come negli States, di fermarsi nemmeno quando si ammalano.
L’Istat è d’accordo con il Times nel ritenere che la diffusione del contagio e la mortalità abbiano sicuramente una relazione anche con il livello di intensità relazionale dei flussi SL (scuola/lavoro), ovvero con il fenomeno del pendolarismo, poiché coloro che utilizzano mezzi pubblici affollati vedono aumentare le probabilità di essere contagiati e, di conseguenza, di morire per Covid.
Allo stesso modo, la maggiore incidenza di malattie croniche nelle fasce di popolazione con le condizioni socioeconomiche più svantaggiate (disturbi cardiovascolari, obesità e diabete) costituisce, in Italia come negli USA, un ulteriore fattore di rischio che contribuisce ad ampliare le diseguaglianze legate all’infezione.
Il fallimento del welfare
Come è noto, i sistemi sanitari europei e statunitensi fanno riferimento a modelli opposti: welfare nei Paesi principali della Ue, a orientamento privatistico negli USA. La possibilità per tutti i cittadini di accedere a un’assistenza sanitaria pubblica avrebbe dovuto mitigare nel nostro Paese gli effetti negativi degli svantaggi economici, almeno in relazione ai tassi di mortalità. Evidentemente questo non è avvenuto, principalmente perché il welfare italiano è stato così depauperato negli anni da risultare quasi ininfluente: “Il livello territoriale non è riuscito ad arginare l’emergenza con tempestività e i casi di Covid-19 si sono dovuti riversare negli ospedali che, a loro volta, si sono dimostrati in difficoltà nel fronteggiare una simile pressione, a causa della costante diminuzione delle risorse economiche, del personale sanitario e dei posti letto subita nel corso degli ultimi decenni”, dice l’Istat.
Secondo la Corte dei Conti (10), tra il 2009 e il 2018 si è verificata una riduzione, in termini reali, delle risorse destinate alla sanità particolarmente consistente, che ha acuito i divari in termini di spesa sanitaria pubblica pro capite. Gli strumenti utilizzati per il controllo della spesa in Italia sono stati, principalmente, la contrazione delle prestazioni, il riordino della rete ospedaliera, la riduzione dei posti letto e del personale sanitario. Secondo le stime dell’Ocse (11), nel 2018 la spesa pro capite in Germania e in Francia era, rispettivamente, doppia e superiore del 60% a quella italiana. Al 19 novembre 2020, il tasso di mortalità per Covid è stato pari al 1,5 % in Germania (13.662 deceduti su 892.00 contagiati), al 2,3% in Francia (49.232 morti per 2,14 milioni di infezioni), e al 3,6% in Italia (47.870 decessi su 1,31 milioni di casi accertati). Dal confronto fra i tassi di mortalità e la spesa sanitaria pro capite, emerge come la mortalità diminuisca all’aumentare della spesa sanitaria. E non è tutto: “Un prezzo che la sanità pubblica ha pagato all’austerità è stato anche quello di non riuscire ad assicurare uniformità di salute e di opportunità di accesso alle cure sull’intero territorio nazionale e per tutte le categorie sociali”, dice l’Istat e, come è logico, il prezzo maggiore lo hanno pagato le categorie più deboli.
Se consideriamo che la spesa sanitaria complessiva, pubblica e privata, ammontava, nel 2018, a 155 miliardi di euro (dati Istat), dei quali il 74,2% a carico della componente pubblica, il 23,1% a carico delle famiglie, e la quota residuale (del 2,7%) coperta dai regimi di finanziamento volontario (anche questi a carico del cittadino), dato che la mortalità per Covid aumenta al diminuire della spesa sanitaria, i soggetti più poveri, che non possono permettersi servizi sanitari privati o un’assicurazione sanitaria, muoiono per la pandemia più dei cittadini benestanti.
I nuovi poveri
Il rapporto 2020 della Caritas su povertà ed esclusione sociale in Italia (12), intitolato Gli anticorpi della solidarietà e pubblicato il 17 ottobre, cerca di restituire una fotografia delle gravi conseguenze economiche e sociali dell’attuale crisi sanitaria legata alla pandemia da Covid-19. Il nostro Paese ha registrato nel secondo trimestre del 2020 una marcata flessione del Pil, la più preoccupante dall’avvio delle serie storiche (-12,8%); l’occupazione ha registrato un calo di 841 mila occupati rispetto al 2019; il tasso di disoccupazione è diminuito, ma solo perché sono aumentati vistosamente gli inattivi (i cittadini che hanno smesso di cercare un lavoro). Secondo i dati, dal 2019 al 2020 l’incidenza dei “nuovi poveri” (coloro che si sono rivolti alla Caritas per la prima volta) è passata dal 31% al 45% (quasi una persona su due). È aumentato in particolare il peso delle famiglie con minori, delle donne, dei giovani, dei nuclei di italiani e delle persone in età lavorativa; è calata, invece, la grave marginalità. Stiamo dunque assistendo a una fase di “normalizzazione” della povertà, come accadde per effetto dello shock economico del 2008. Ma nel 2019, alla partenza della pandemia, la situazione era molto più deteriorata: il numero dei poveri assoluti era pari a 4,6 milioni di individui, più del doppio rispetto al 2007, alla vigilia del crollo di Lehman Brothers.
I dati Istat sulla povertà nel 2019 (pubblicati lo scorso giugno) (13), riportano che, prima della pandemia, le famiglie povere erano quasi 1,7 milioni, pari al 7,7% della popolazione. Tra le categorie più vulnerabili si registrano le famiglie del Mezzogiorno, le famiglie numerose con 5 o più componenti, le famiglie con figli minori, i nuclei di stranieri (tra loro l’incidenza della povertà è pari al 24,4%, a fronte del 4,9% nelle famiglie di soli italiani) e le persone meno istruite. Continua inoltre la correlazione negativa tra l’incidenza della povertà e l’età della persona di riferimento, il che significa che sono i giovani le persone più colpite dalla mancanza di mezzi, in particolare i nuclei famigliari under 34 risultano i più svantaggiati (l’incidenza della povertà nei nuclei 18-34 anni è pari all’8,9%, tra gli over 65 pari al 5,1%). È ancora molto alto il peso della povertà tra i minori (tra loro la quota sale all’11,4%), per un totale in valore assoluto di oltre 1,1 milioni bambini e ragazzi in stato di povertà. Ovviamente, a pagare il prezzo più alto sono le persone in cerca di un’occupazione (19,7%); tuttavia, anche tra chi possiede un lavoro, la percentuale risulta decisamente più alta della media: tra le famiglie di operai in particolare l’incidenza della povertà si attesta al 10,2%. I dati Istat confermano poi la maggiore vulnerabilità delle persone che non possono permettersi una casa di proprietà: le oltre 726 mila famiglie povere in affitto rappresentano infatti il 43,4% di tutte le famiglie povere.
Questa situazione è aggravata da almeno altri due fattori. In Italia l’indice di concentrazione di Gini è tra i più alti in Europa, 0,33 nel 2018 (in Francia nello stesso periodo era pari a 0,29, in Danimarca a 0,26). Questo indicatore misura le diseguaglianze nella distribuzione del reddito, ed è un numero compreso tra 0 e 1: valori bassi indicano una distribuzione abbastanza omogenea (lo zero indica la situazione in cui tutti percepiscono esattamente lo stesso reddito); valori alti del coefficiente indicano una distribuzione diseguale (1 corrisponde alla massima concentrazione, che si verifica quando una sola persona percepisce tutto il reddito del Paese, mentre il resto della popolazione ha un reddito nullo). Secondo Oxfam, una organizzazione no profit, nel 2019 in Italia il 20% della popolazione deteneva il 70% di una ricchezza complessiva di 9.297 miliardi di euro, contro il 13,3% nelle mani del 60% più povero della popolazione (14). Inoltre il nostro Paese ha una bassissima mobilità sociale, il che significa che la classe sociale di appartenenza influisce pesantemente sulle opportunità future: chi nasce ricco rimane ricco e chi nasce povero rimane povero. In Italia occorrono ben cinque generazioni per migliorare il proprio status socioeconomico e il 31% dei figli di genitori a basso reddito è ‘condannato’ allo stesso livello di entrate della sua famiglia (15).
Le prime conseguenze economiche del Covid
Tra aprile e maggio 2020 la Banca d’Italia ha condotto un’indagine straordinaria sulle famiglie italiane per raccogliere informazioni sulla situazione economica e sulle aspettative durante la crisi legata alla pandemia di Covid-19. I risultati, pubblicati il 26 giugno (16) offrono uno spaccato sconfortante (e si era solo alla prima ondata dell’epidemia): oltre la metà della popolazione ha dichiarato di aver subito una contrazione nel reddito familiare a causa delle misure adottate per il contenimento dell’epidemia. L’impatto è stato particolarmente grave per i lavoratori autonomi: quasi l’80% ha subìto un calo nel reddito e il 36% di loro ha perso oltre la metà del reddito familiare. Più di un terzo degli individui ha dichiarato di disporre di risorse finanziarie liquide sufficienti per meno di tre mesi a coprire le spese per i consumi essenziali della famiglia; questa quota ha superato il 50% per i disoccupati e per i lavoratori dipendenti con contratto a termine. Quasi il 40% degli individui indebitati ha dichiarato di avere difficoltà nel sostenere le rate del mutuo a causa della crisi sanitaria, e quasi il 60% riteneva che, anche quando l’epidemia fosse terminata, le spese per viaggi, vacanze, ristoranti, cinema e teatri sarebbero stati comunque inferiori a quelle pre-crisi.
Le famiglie povere hanno dovuto affrontare anche problematiche nuove, innanzitutto le difficoltà connesse con la didattica a distanza, che si manifestano nell’impossibilità di poter accedere alla strumentazione adeguata (tablet, pc, connessioni wi-fi), ma non solo. Colpiscono, poi, i numerosi segnali di allarme delle Caritas inerenti la dimensione psicologica: si rileva un evidente aumento durante il lockdown del disagio psicologico-relazionale, dei problemi connessi alla solitudine e delle forme depressive. I centri di ascolto riferiscono anche un accentuarsi delle problematiche familiari, in termini di conflittualità di coppia e genitori-figli (come è prevedibile quando si costringono gli individui entro i confini angusti delle mura domestiche), violenza e difficoltà di accudimento di bambini piccoli o di familiari colpiti dalla disabilità.
Il Covid-19 e i disturbi emotivi
Il Covid-19 non mette a dura prova solo i polmoni. Ammalarsi può causare anche ripercussioni psichiatriche serie, come depressione, ansia, insonnia e disturbo post-traumatico da stress. Lo avevano dimostrato i ricercatori del San Raffaele di Milano (17) e ora le loro conclusioni vengono confermate da una ricerca molto più ampia condotta dall’Università di Oxford (18). Lo studio, pubblicato su The Lancet Psychiatry, ha preso in esame un database elettronico con i dati di 69 milioni di americani, inclusi 62.364 casi di Covid-19. Secondo i ricercatori inglesi, al 20% dei pazienti infetti da coronavirus viene diagnosticato un disordine psichiatrico entro 90 giorni dall’inizio della malattia. I disturbi più comuni sono ansia, depressione e insonnia, ma la ricerca suggerisce anche che questi soggetti abbiano un più alto rischio di ammalarsi di demenza rispetto a coetanei sani: “I sopravvissuti al Covid-19 sembrano essere a maggior rischio di malattie psichiatriche, e una diagnosi psichiatrica precedente potrebbe essere un fattore di rischio indipendente per il Covid-19”. Il terreno socioeconomico è sempre stato un fattore certo nel determinare i problemi di salute mentale: “È sufficiente analizzare la storia della psichiatria moderna, dall’industrializzazione sino ai giorni nostri, per constatare che tutte le più grandi crisi di tipo politico o socio-economico hanno agito da catalizzatori di una psichiatrizzazione delle marginalità sociali. Nel testo Recovery from Schizophrenia: Psychiatry and Political Economy, Richard Warner dimostrava proprio questo rapporto stretto tra crisi economiche e ricoveri in ospedali psichiatrici”, afferma Fabrizio Starace, presidente della Società italiana di epidemiologia psichiatrica (SIEP), componente del Consiglio Superiore di Sanità e Direttore del Dipartimento di Salute Mentale di Modena (19). “In un’ottica di analisi delle misure anti-Covid, la prima cosa da fare, per evitare questi effetti, è lavorare sulla riduzione della povertà, che come si sa è la più diffusa delle malattie. Ridurre il gap tra condizioni di garanzia e chi non ha i basilari strumenti per la sussistenza”.
Il Covid-19 e la Dad
Per quanto riguarda il sistema scolastico in Italia, le possibili disparità pre-Covid riguardavano le possibilità di accesso all’istruzione; la frequenza in età regolare della scuola dell’obbligo; i rendimenti (cioè l’acquisizione di competenze cognitive, misurata dai test PISA e INVALSI); e l’indirizzo di scuola secondaria frequentato. Le ultime tre fonti di disuguaglianza sono collegate alle origini sociali delle persone, segnatamente al livello di istruzione delle famiglie: quanto più elevato è il livello di istruzione dei genitori, tanto più è possibile che i figli riescano ad accedere regolarmente fino ai gradi superiori della scuola secondaria.
Insieme al livello di istruzione, anche le possibilità economiche influenzano sia i rendimenti che il tipo di istruzione superiore scelto: quanto più la famiglia ha disponibilità economiche, tanto più è probabile che lo studente riesca a ultimare la scuola superiore e a frequentare i licei (20), ed eventualmente l’università, migliorando le proprie prospettive reddituali future. Con la didattica a distanza tutte le disuguaglianze si sono acuite, innanzitutto perché non tutte le zone del Paese sono ugualmente coperte da connessione internet; e poi perché una quota non banale della popolazione scolastica non ha accesso diretto o indiretto a strumenti come tablet, pc portatili, o smartphone. “Si sono acuite anche le disparità a livello di capitale culturale della famiglia di origine […]. In questa situazione nuova, rappresenta una grande differenza vivere in una famiglia con genitori che possono aiutare nei compiti, nelle risposte alle interrogazioni e possono accedere in modo oculato a internet. Se il capitale culturale familiare è insufficiente, c’è una capacità differenziale di mediazione culturale che i genitori istruiti possono esercitare nei confronti dei loro figli a parità di strumentazione informatica o di accesso alla rete” afferma Antonio Schizzerotto, professore emerito di Sociologia del Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell’Università di Trento.
Accanto a questi elementi, c’è il problema delle dinamiche di classe e dell’attenzione differenziale che un insegnante può dare in presenza e non può invece dare via internet: durante i collegamenti è più difficile anche solo verificare l’effettiva frequenza dello studente. Inoltre nella didattica a distanza vengono meno due importanti componenti: l’abitudine a interagire con ruoli adulti diversi da quelli familiari e la possibilità di avere un contesto sociale formato da coetanei. “Ciò vale soprattutto per la scuola primaria e la secondaria di primo grado, dove la mancanza di questi elementi aggiuntivi può complicare il livello di crescita, non solo cognitivo ma anche quello della capacità di assumere i vari ruoli sociali e di avere un processo di socializzazione completo”.
Le ripercussioni sul piano economico e sociale dovute al virus produrranno quindi un allargamento della forbice delle disuguaglianze già presenti, rendendo i figli dei genitori poveri ancora meno attrezzati di oggi per le loro sfide future. Secondo Tania Toffanin, professoressa di Sociologia dell’educazione all’Università di Padova, c’è il rischio che questa ondata pandemica abbia un impatto diretto sulla tenuta dei livelli di scolarizzazione. “Finita la pandemia, ci saranno infatti molte persone che non potranno permettersi di continuare la loro istruzione secondaria e terziaria. Basti pensare, ad esempio, ai ragazzi e alle ragazze che si mantenevano all’università attraverso lavori legati al turismo o alla ristorazione, oppure alle famiglie che non avranno più risorse disponibili per sostenere questo sforzo economico […] Sarebbe intellettualmente disonesto non sottolineare la valenza di genere, di classe e razziale della pandemia, che porterà in luce la polarizzazione sociale spesso abilmente occultata, ma sempre presente, nel nostro Paese” (21).
Conclusioni
Nelle società in cui il virus colpisce, aggrava le conseguenze della disuguaglianza, aumentando i problemi delle fasce più fragili delle popolazioni. Le ricerche suggeriscono non solo che coloro che si trovano nelle classi socioeconomiche più basse sono più suscettibili a essere infettati dal Covid-19, ma che è anche più probabile che ne muoiano. Perfino coloro che riusciranno a non ammalarsi subiranno una perdita di reddito (e di assistenza sanitaria nel Paesi privi di welfare), potenzialmente su vasta scala.
Contemporaneamente, la disuguaglianza stessa può agire come moltiplicatore della diffusione e della mortalità della pandemia: le ricerche sul virus dell’influenza hanno dimostrato che la povertà e la disuguaglianza possono esacerbare i tassi di trasmissione e di mortalità per tutti (22).
Questo ciclo si rafforza a vicenda: la pandemia aumenta il numero di coloro che saranno poveri ed emarginati domani, rendendo la società sempre più ingiusta e sempre più fragile, sia dal punto sanitario, sia per quanto riguarda fenomeni come il populismo, l’animosità razziale e le morti per disperazione (quelle derivanti dall’alcolismo, dal suicidio o dall’overdose di droghe): “Tutti questi fattori sono interconnessi”, ha dichiarato al New York Times la dottoressa Nicole A. Errett, ricercatrice in materia di politica sanitaria pubblica e disastri naturali presso il Dipartimento di Scienze Ambientali dell’Università di Washington: “Le vulnerabilità sociali preesistenti non fanno che peggiorare dopo un disastro, e questo è un esempio perfetto”.
Le categorie che hanno subìto gli effetti peggiori della pandemia sono tre: donne, giovani e lavoratori con contratto a termine: “La crisi riconducibile al Covid-19 ha, di fatto, bloccato in gran parte l’economia ufficiale, quasi del tutto l’economia sommersa che negli ultimi decenni è stata un vero e proprio ammortizzatore sociale” dichiara Gian Maria Fara, presidente di Eurispes (23). “Il sommerso ha consentito a milioni di famiglie monoreddito di integrare le entrate familiari attraverso lavori occasionali o anche stabili non dichiarati. Numerose altre famiglie, che non possono contare sul lavoro ufficiale di almeno uno degli appartenenti, sopravvivono grazie all’arte di ‘arrangiarsi’ messa in atto dai diversi componenti della famiglia che, faticosamente, riescono a mettere insieme il pranzo con la cena”. L’Italia, ma più in generale il modello occidentale, si trova così davanti a un’ulteriore profonda e drammatica prova, perché il Covid-19 salda insieme la crisi economica, la crisi sociale e la crisi della politica e delle istituzioni.
2) Il Census Bureau è l’ufficio interno allo U.S. Federal Statistical System che si occupa delle analisi demografiche
3) Cfr. https://www.census.gov/quickfacts/fact/table/US/LFE305218#LFE305218
4) Cfr. https://www.fairfaxcounty.gov/news2/who-we-are-in-fairfax-county-in-2018-annual-demographics-report/
5) Cfr. https://www.census.gov/programs-surveys/ahs.html
6) Cfr. https://www.istat.it/storage/rapporto-annuale/2020/capitolo2.pdf
7) Ibidem
8) La proxy è un indicatore statistico che descrive il comportamento di un determinato fenomeno non osservabile direttamente
11) Cfr. http://www.oecd.org/els/health-systems/health-data.htm
12) Cfr. http://s2ew.caritasitaliana.it/materiali/Rapporto_Caritas_2020/Report_CaritasITA_2020.pdf
13) Cfr. https://www.istat.it/it/files/2020/06/REPORT_POVERTA_2019.pdf
14) Cfr. https://www.oxfamitalia.org/wp-content/uploads/2020/01/Disuguitalia_2020_final.pdf
16) Cfr. https://www.bancaditalia.it/media/notizie/2020/Evi-preliminari-ind-straord-famiglie.pdf
18) Cfr. https://www.thelancet.com/journals/lanpsy/article/PIIS2215-0366(20)30462-4/fulltext
19) Cfr. https://ilbolive.unipd.it/it/news/disuguaglianze-sociali-covid19-starace
20) Cfr. https://www.amnesty.it/covid-19-e-didattica-a-distanza-come-nascono-le-disuguaglianze-a-scuola/
21) Cfr. https://ilbolive.unipd.it/it/news/pandemia-non-solo-scuola-disuguaglianze
22) Cfr. https://www.nytimes.com/2020/03/15/world/europe/coronavirus-inequality.html