(Paginauno n. 67, aprile – maggio 2020)
Michele Biella
Centri d’accoglienza: gestione interna e supporto delle istituzioni: due operatori sociali raccontano due situazioni diverse
In Lombardia sono quasi 12.000 i migranti che attualmente usufruiscono del circuito dell’accoglienza (http://www.libertaciviliimmigrazione.dlci.interno.gov.it/sites/default/files/allegati/cruscotto_statistico_giornaliero_15-03-2020.pdf), raccolti in centri di grande capienza e alloggi più ridotti sparsi sul territorio. La Regione oggi più colpita dall’epidemia è così anche quella con il più alto numero di ospiti nelle strutture CAS (Centri di Accoglienza Straordinaria) e SIPROIMI (Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per i minori stranieri non accompagnati), l’ex SPRAR (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati). Spesso sotto i riflettori della cronaca, con l’emergenza sanitaria questa realtà è quasi scomparsa dai media, nonostante le potenziali criticità che possono emergere in situazioni di vita collettiva, soprattutto per quanto riguarda le grandi strutture. Dal primo Dpcm di febbraio, la stampa se ne è interessata giusto per riportare i pochi casi di contagio finora registrati, apparentemente tenuti sotto controllo. La grande varietà delle strutture esistenti – diverse per tipologia, dimensioni, persone residenti, posizione geografica – non permette di avere un’immagine unica di cosa voglia dire vivere o lavorare in un centro di accoglienza al tempo del #iorestoacasa. A fine marzo abbiamo contattato due operatori sociali in due diversi centri d’accoglienza della Lombardia, e ci sono state raccontate due situazioni tra loro molto differenti.
Intervista 1
In che tipo di struttura lavori?
Lavoro in un centro di accoglienza per famiglie che ospita circa 100 persone; a lavorarci siamo una quindicina, tra operatori e altro. Gli ospiti vivono in camerate di cinque persone al massimo. L’età media è intorno ai trent’anni, non ci sono ospiti che superino i cinquant’anni.
Emergenza coronavirus; avete avuto disposizioni dalle autorità? Voi che misure avete preso?
Quando succede qualcosa che non rientra nella norma, è ovvio che inizialmente ci sia del panico. Le istituzioni a cui noi ci riferiamo sono la prefettura, il Comune e la questura. Ci hanno dato da subito, quotidianamente, direttive in linea con le disposizioni governative, soprattutto in merito al distanziamento. Quindi abbiamo eliminato le visite dall’esterno; abbiamo tolto i divani e messo delle sedie; abbiamo messo linee sul pavimento per delimitare le distanze nella somministrazione del cibo, allontanato i letti nelle camere. Si cerca di fare quello che è fattibile, bene o male ci si riesce. Poi c’è il lavoro di informazione con gli ospiti, spiegare l’emergenza: da oggi in poi si farà così, lavaggi delle mani, distribuzione dei disinfettanti e di tutto quanto. Infine ci sono le indicazioni generali: misurare la temperatura a tutti, quotidianamente – abbiamo una equipe medica che viene dall’esterno, ogni giorno – e in caso di febbre si contatta il medico di base e si monitora la situazione. Se una persona sta male deve essere posta in quarantena e tutta la camerata in isolamento. Quindi abbiamo adibito anche degli spazi apposta. Fino a ora siamo stati fortunati, non abbiamo avuto né contagiati né persone con sintomi.
Per quanto riguarda gli spostamenti?
Direttive secche, sono le stesse che valgono per tutti: le persone non devono uscire dalla struttura. Cibo e acqua li hanno, un cortile per le passeggiate anche, quindi perché uscire? Dall’alto arrivano direttive che dicono: “Cerca di fare così, se non ce la fai rivolgiti a me, ti mando anche la polizia”. Finora non abbiamo avuto bisogno di contattarli, si riesce a gestire: nessuno degli ospiti è mai uscito, se non per questioni di necessità. Per esempio, prima andavano a comprare le medicine da soli; adesso le compriamo noi operatori. Ovviamente c’è sempre qualcuno che dice di avere bisogno di andare al supermercato. Ma anche di questo se ne parla: è veramente necessario? E se esci a fare la spesa, prima di rientrare ti lavi le ma-ni, ti disinfetti e poi puoi andare in camera. Questa situazione, un’epidemia, non è mai successa, quindi vai per tentativi: sbagli, poi correggi, poi sbagli, poi correggi. Per noi la responsabilità è doppia, non possiamo lasciarli uscire come e quando vogliono: responsabilità verso l’interno, verso gli ospiti stessi, ma anche verso il mondo esterno.
Gli ospiti come vivono l’emergenza, la reclusione? Sono spaventati, tranquilli?
All’inizio un po’ di paura c’era, ma più va avanti questa emergenza, più gli atteggiamenti cambiano, cresce la consapevolezza. Persone che la prendevano alla leggera ora vogliono capire cosa succede. Girano informative in tutte le lingue e da noi operatori vengono più per conferma. In questo momento nel centro si sta bene: se sei consapevole che stai prendendo tutte le misure necessarie per tutelarti, sei anche più tranquillo. Gli spazi comuni sono ampi, sia interni sia esterni. Poi ovviamente c’è sempre la persona che sottovaluta e quella più ipocondriaca, per questo piccole tensioni capitano. Sta poi a noi operatori spiegare che si cerca di prendere le misure necessarie. La sofferenza era più all’inizio, però c’è da dire che tutte le attività sono chiuse: corsi di italiano, corsi di formazione e lavoro non puoi cercarlo perché non ce n’è.
Ma ci sono ospiti che lavorano in questo periodo? E temono di perderlo?
Meno del solito, molti che lavoravano all’esterno sono stati licenziati oppure hanno ricevuto direttive di stare a casa. Prima c’erano persone inserite in corsi di formazione, in tirocini, oppure che lavoravano indipendentemente dai corsi proposti dalla struttura. Se sono preoccupate per il lavoro, in questo momento non lo danno a vedere. La preoccupazione è altra, per quello che sta succedendo all’esterno, per il futuro, o anche per i familiari nei Paesi d’origine, nei quali la sanità non è proprio il massimo.
Dispositivi di protezione individuale: ne avete a sufficienza, vengono sempre indossati?
Se si esce fuori sì. All’interno del centro no, è come una casa: se tu non stai uscendo, non hai bisogno dei dispositivi di sicurezza. Noi operatori che facciamo avanti e indietro da casa al lavoro siamo obbligati ad averli. Certo, le scorte che tieni non sono per una pandemia. Allora informi la prefettura, il Comune, la questura di quello che ti serve e puntualmente te lo portano. Ovvio che poi quel ‘puntualmente’ è discutibile, soggettivo. Se sei molto preoccupato per questa situazione, anche un giorno di ritardo ti fa u-scire di testa. Possono arrivare il giorno dopo, può arrivare la quantità necessaria per una settimana; oppure arriva tra una settimana la quantità necessaria per un mese. È una collaborazione, non puoi dare tempistiche.
Voi operatori come la state vivendo, cosa è cambiato?
Tendenzialmente siamo tranquilli, anche se ci sono colleghi che magari hanno una famiglia e non vorrebbero uscire di casa. Se qualcuno garantisce la propria responsabilità di presentarsi al lavoro ogni giorno, ma chiede maggiori tutele e sicurezze, si fa. Chi non se la sente può restare a casa, però fortunatamente da noi finora nessuno si è rifiutato. Un’indicazione che ci è stata data è di distanziarci anche in ufficio. Quindi abbiamo cambiato orario, lavoriamo più scaglionati. Le riunioni e le comunicazioni che prima erano fatte di persona, ora sono via Whatsapp, telefono, Skype. Un po’ di flessibilità per gli imprevisti è sempre stata richiesta, normalmente se ne discute, invece adesso lo facciamo subito, perché è necessario. L’unico problema è che il carico di lavoro aumenta: anche se le attività sono chiuse devi fare attenzione a moltissimi dettagli, e già questo ti snerva mentalmente, è un momento stancante. E si sente anche una responsabilità legata al fatto che sui migranti si scatenano sempre strumentalizzazioni politiche e l’esplosione del contagio in un centro di accoglienza farebbe alzare ancora di più la tensione.
Intervista 2
In che tipo di struttura lavori?
Lavoro in un centro d’accoglienza per migranti, da più di 100 posti. Gli ospiti sono in maggior parte uomini, età media sui venticinque anni, poi ci sono alcuni nuclei familiari. Gli alloggi sono camerate da massimo sei persone. Gli operatori sono circa 10 in turno.
Come vi state rapportando con leautorità durante questa emergenza?Vi hanno dato disposizioni, indicazioni, supporto?
Ci interfacciamo con la prefettura. Ci hanno dato degli ordini all’inizio, per esempio lavare spesso con la candeggina e attuare il distanziamento sociale, senza peraltro mai venire a fare dei controlli per vedere com’è la situazione. Ma a parte questo, devo dire che sono completamente impreparati. Non ci hanno detto nulla su cosa fare nel caso di sintomi o contagi, non li hanno previsti. Qui abbiamo anche pochi spazi da destinare a isolamento o quarantena, considerando che ci vogliono stanza e bagno separati. Quando è capitato di avere bisogno di chiamare i numeri di emergenza per casi sintomatici, le linee so-no sempre intasate e abbiamo dovuto chiamare più volte e perdere parecchio tempo, e non danno indicazioni. Siamo un centro grosso e non abbiamo neanche una linea telefonica diretta dedicata per interfacciarci rapidamente in caso di emergenza. Tra ospiti e personale, anche se non ci ammaliamo, siamo più di 100 potenziali ‘untori’ asintomatici: può essere un problema anche per il territorio, dal momento che sia il personale della struttura sia gli ospiti che lavorano hanno contatti normalmente anche all’esterno del centro. Insomma, la prefettura ci ha dato ordini, ma non ha predisposto nulla. Non ci forniscono neanche guanti e mascherine, quelli ci arrivano dalla cooperativa che ha in appalto la gestione del centro, per fortuna in quantità sufficiente.
Gli ospiti come vivono questa situazione di emergenza?
In generale le famiglie sono più tranquille e solidali tra loro, e c’è più responsabilità. Quando hai magari trent’anni e un figlio, ti preoccupi di più. Per i singoli è diverso, sono di solito più giovani, sentono anche maggiormente le identità di provenienza. Alcuni ospiti sono preoccupati dalla situazione, altri invece non si rendono conto e si sentono invulnerabili, pensano che il coronavirus sia una malattia degli ‘europei’. Ma il nervosismo in generale sta crescendo, soprattutto tra le persone già più fragili o vulnerabili. Ci sono discussioni e a volte basta poco, per esempio è capitato che alcuni rifiutassero le mascherine perché avevano paura che fossero infette, a causa di una fake news uscita negli Stati Uniti su un carico di mascherine ritirate perché potenzialmente contagiose.
La vita nel centro com’è? La reclusione forzata crea problemi?
In generale chi non lavora esce poco dal centro e le regole vengono rispettate, non abbiamo mai avuto problemi tali da dovere chiedere l’intervento della polizia. Gli ospiti non soffrono tanto la reclusione, è un centro grande con ampi spazi, anche e-sterni, anche se la palestra o la sala televisione li abbiamo chiusi per evitare assembramenti, che invece magari capitano in giardino se giocano a calcio. Quando succede non sempre ce la sentiamo di intervenire, anche per il rischio di potenziale contagio. All’interno teniamo aperto solo il refettorio, ma abbiamo messo la regola che chi viene a ritirare il pasto de-ve presentarsi con la mascherina. Abbiamo anche un piccolo luogo di culto, all’inizio abbiamo provato a lasciarlo a disposizione, purché entrassero in pochi rispettando le distanze di sicurezza. Siccome questo non sempre avveniva, abbiamo poi deciso di chiuderlo. Qualcuno ha protestato, altri invece hanno ringraziato. A volte gli ospiti protestano perché abbiamo chiuso alcuni spazi comuni quando di fatto sono in sei nelle camerate. Ma quello è il loro spazio privato, e poi cosa si può fare?
Prima hai parlato di ospiti che stanno tuttora lavorando, sono cambiate le cose rispetto a prima?
Chi lavorava nei ristoranti ora non lavora più, i rider invece continuano, anche se un po’ meno e non tutti. Al momento sono circa una trentina quelli in attività. Sono autorizzati a lavorare, ma a volte incappano nei controlli delle forze dell’ordine, che vuol dire che poi ci chiamano per comunicarcelo. Qualche giorno fa hanno fermato un ragazzo che era al lavoro e ci hanno chiamato per dirci che lo stavano portando in questura per qualche tipo di procedura di identificazione. Ma niente di che, erano tranquilli e cortesi e poi lo hanno rilasciato.
E voi operatori come la state vivendo?
Tra noi c’è paura e preoccupazione di contagiarsi e portare a casa la malattia. Al momento stiamo lavorando in pochi, di fatto siamo dimezzati rispetto al solito. Alcuni di noi hanno scelto di non lavorare perché magari hanno situazioni di fragilità in casa, per esempio genitori anziani; qualcuno si è fatto mettere in malattia, altri sono in quarantena. Qui sto parlando solo degli operatori, le altre figure professionali (custodi, cuochi ecc.) be-ne o male ci sono. Noi siamo pochi ma se non altro in generale c’è meno lavoro, per esempio il lavoro delle pratiche legali è bloccato perché i tribunali sono chiusi. Rimane solo la gestione ordinaria della struttura. È tutto fermo.