di Davide Corbetta
QUI la seconda parte dell’inchiesta
Clandestino o regolare, l’extracomunitario, numeri e leggi alla mano, conviene: come e perché l’occupazione degli immigrati risulta quella favorita da un governo che sbraita ‘lavoro agli italiani’
Nel giugno scorso, la Commissione europea ha reso pubblica la “Relazione annuale sull’immigrazione e l’asilo 2010” (1). L’obiettivo dichiarato è quello di promuovere l’integrazione dei cittadini immigrati nella Comunità, sia per la loro funzione demografica, sia per la loro intrinseca capacità di incentivare l’economia locale e internazionale, attraverso il proprio ingresso nel mercato del lavoro. La sollecitazione a migliorare l’inserimento degli extracomunitari nel tessuto sociale, ma specialmente in quello economico/lavorativo, è figlia del calo dei permessi di soggiorno riscontrato nel 2009 (anno di inizio della crisi economica): meno 8%, seguito da una diminuzione dei permessi per attività retribuite pari al 28%.
Il Rapporto ha messo in evidenza come alla flessione negativa degli immigrati regolari sia corrisposto, nell’anno successivo, il 2010, un aumento della domanda di manodopera, e la conseguente difficoltà dei datori di lavoro di reperire manovalanza qualificata per ricoprire i posti vacanti.
Come in ogni mercato, il punto sembra essere quello di riequilibrare la curva della domanda e quella dell’offerta, equilibrio che la Commissione ha previsto di raggiungere nel 2020 attraverso un ‘pacchetto di rilancio’ (Europa 2020) con cui si intende portare il tasso di occupazione al 75%. Con quale obiettivo? Per creare un’Europa multiculturale in cui il diritto al lavoro dignitoso e regolare sia riconosciuto a tutti i cittadini, immigrati compresi?
A ben leggere la Relazione non si direbbe, dato che vi si afferma che la politica di integrazione comunitaria “svolge un ruolo centrale nel garantire la competitività dell’Unione nel lungo termine” – dove competitività è la parola chiave – “e, in ultima analisi, il futuro del modello sociale europeo”.
Per questa ragione già dal 2012 la Commissione, di concerto con i governi nazionali, metterà in atto una serie di ‘strumenti’ o ‘provvedimenti’ (2) che agevoleranno l’accesso al mondo del lavoro, quindi alla vita economica e sociale, del cittadino extracomunitario. Una serie di manovre che andranno a vantaggio tanto degli Stati accoglienti, in carenza di manodopera, quanto degli immigrati, che oltre a trovare un’occupazione potranno accrescere le proprie competenze.
Non a caso l’Unione parla di “mercato del lavoro attraente agli occhi dei migranti”. Quindi, un mercato del lavoro per gli immigrati.
Questo, almeno, è quanto viene detto in ambito europeo, ma come stanno le cose in Italia? E come si integra il mercato del lavoro degli immigrati con il mercato del lavoro degli italiani? In un momento di crisi economica, mentre l’etica ufficiale politica sbraita ‘case e lavoro agli italiani!’, la merce lavoro straniera è favorita o svantaggiata dalle politiche governative rispetto alla merce lavoro locale?
Occupazione e disoccupazione, italiana e straniera
Per comprendere lo stato dell’arte del mercato lavorativo nel nostro Paese, torna utile un altro rapporto, “L’immigrazione per lavoro in Italia: evoluzione e prospettive”, redatto dall’azienda privata, partecipata dal ministero dell’Economia e delle Finanze, Italia Lavoro s.p.a. La relazione
prende in esame il triennio 2008-2010, e rileva come l’occupazione dei lavoratori italiani sia scesa in misura più che proporzionale rispetto all’aumento dell’occupazione straniera (vedi tabella 1).
Dato al quale è necessario affiancare quello della disoccupazione, aumentata sia per i lavoratori italiani che per gli stranieri, anche se per questi ultimi, paragonando la variazione percentuale nei due anni della crisi (2008-2009), l’aumento risulta maggiore (vedi tabella 2).
Tirando le somme, secondo il documento, nel triennio preso in esame la media complessiva della disoccupazione è aumentata di 1,6 punti percentuali, corrispondenti a 385mila disoccupati in più, e a 554mila posti di lavoro in meno. A questa flessione non poteva che corrispondere una diminuzione delle ore lavorate, alle quali le aziende (specie nei settori industriali) hanno tentato
di porre rimedio con lo strumento della cassa integrazione. È di aprile, solo due mesi prima che l’Unione europea diffondesse i propri dati, l’allarme occupazionale che la Cisl, nella figura del segretario generale aggiunto Giorgio Santini, ha denunciato, da una parte ponendo l’accento sul preoccupante rialzo della cassa integrazione nel mese di marzo (più 45% rispetto a febbraio, e meno 15,8% rispetto a marzo 2010), dall’altra per evidenziare come il crollo dell’occupazione nel 2010, in Italia, sia stato in realtà contenuto grazie al lavoro degli immigrati, nella fattispecie colf e badanti.
Anche per chi non è addentro a queste ‘logiche di mercato’, possono quindi risultare stonate le richieste della Commissione europea di favorire l’aggiunta di nuova manovalanza in un mercato nazionale del lavoro già in difficoltà, e nel quale l’apporto della forza immigrata, regolare e irregolare, ha un tasso occupazionale sempre in crescita, nonostante le difficoltà dovute alla crisi. Infatti, sebbene il rapporto di Italia Lavoro evidenzi come le differenze, nella percentuale di occupazione straniera, possano derivare non solo da un nuovo lavoro effettivo ma anche dall’incremento dei soggetti immigrati registrati all’anagrafe (registrazione che non avviene al momento dell’ingresso in Italia, e quindi può succedere ad anni di lavoro irregolare mai registrato) è tuttavia vero che nel Belpaese la manodopera straniera è molto richiesta, specialmente quella non qualificata.
Non tanto nel settore industriale – più soggetto alla crisi – bensì in quello dei servizi: “istruzione e servizi formativi privati, servizi operativi di supporto alle imprese e alle persone, sanità, assistenza sociale e servizi sanitari privati, servizi di alloggio, ristorazione e servizi turistici”, stando ai dati del Rapporto. Colf e badanti, per esempio, hanno registrato un aumento anche nel biennio 2008-2009 (+38,3%), e non è un caso: il lavoro domestico rimane una delle prime attrattive dell’immigrato, data la facilità di regolarizzazione.
Ma l’aumento dei lavoratori stranieri a scapito di quelli italiani è dettato (solo) dal fatto, come vuole la vulgata, che gli immigrati accettano lavori che gli italiani rifiutano? O è dovuto anche ad altre agevolazioni messe in atto dai vari governi, di destra o di sinistra che siano?
Decreto flussi e sanatoria
Poco prima che l’Istat diffondesse i dati riguardanti le ore di cassa integrazione relative al 2010, il ministero dell’Interno rendeva noto sul proprio sito (3) la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del nuovo Decreto flussi, che ha aperto i suoi cancelli telematici a gennaio 2011.
Il Decreto non è altro che una procedura con la quale si prevede la concessione di un numero prefissato di ingressi nel territorio dello Stato, con contratto di lavoro subordinato, per lavoratori residenti all’estero. È importante sottolineare questo aspetto: residenti all’estero.
Naturalmente limitato soltanto a quei Paesi che hanno sottoscritto accordi col governo italiano.
Dopo due anni di fermo, il nuovo Decreto ha messo a disposizione 98mila quote, di cui 30mila già riservate a lavoratori domestici, sempre quelle colf e badanti che hanno salvato la faccia all’occupazione nostrana.
Questo, tuttavia, non è l’unico strumento di controllo del lavoro immigrato. Dal 1990 (legge Martelli), si cerca infatti di regolarizzare gli stranieri attraverso una serie di sanatorie, che hanno il compito di far emergere l’extracomunitario dalla situazione di clandestinità (lavorativa e non) (4).
Due strumenti, il Decreto e la sanatoria, che in un uno stile tutto italiano si scambiano spesso di ruolo, tanto che risulta difficile capire perché si continui a chiamarli con nomi diversi, quando col Decreto la maggioranza delle quote è aggiudicata a lavoratori già presenti sul territorio, sfruttati e in certi casi schiavizzati, fino alla regolarizzazione. Si lascia così spazio all’entrata di nuovi lavoratori irregolari – che potranno avere la possibilità di legalizzarsi con la successiva sanatoria/decreto flussi – e all’uscita di chi è costretto a rientrare in patria (clandestinamente) per ritirare il visto, assentandosi dal posto di lavoro regolare appena aggiudicato. Una procedura che genera ogni anno migliaia di truffe, coinvolgendo quei lavoratori e datori di lavoro che, per la compilazione della domanda di regolarizzazione, si affidano inconsapevolmente a uffici mariuoli, e poi vengono rimandati al Tar in attesa che si pronunci per i ricorsi contro i dinieghi (ricorsi di recente, con circolare n. 4027 del 26 maggio 2011, sospesi dal ministero fino a data da destinarsi, per migliaia di casi).
L’effetto di queste procedure sul mercato del lavoro italiano si comprende appieno quantificando le regolarizzazioni (complessive, tra sanatorie e Decreti) successive alla prima del 2002, attuata subito dopo l’emanazione della legge Bossi-Fini, con la quale si è sanata la posizione di 647mila immigrati (vedi tabella 3).
Le conclusioni che si possono trarre esaminando questi dati sono più che evidenti.
La prima, come il maggior afflusso di regolarizzazioni in un anno sia avvenuto proprio nel 2002, a seguito di quella legge che porta il nome del capo di quel partito del Nord che ha fatto della lotta all’immigrato uno dei punti di forza del proprio programma elettorale, e della propria esistenza politica.
La seconda come, dopo il 2002, non ci sia stata differenza di governo nell’aprire le frontiere al lavoro immigrato, benché destra e sinistra si accusino vicendevolmente di lasciare troppa libertà di circolazione allo straniero.
Confrontando inoltre questi dati con quelli sopra citati relativi a occupazione e disoccupazione, viene da chiedersi quale sia la ragione di emanare un nuovo Decreto flussi a inizio di quest’anno, quando ancora il Paese sta cercando di uscire dalla crisi economica (accertata anche dall’aumento delle ore di cassa integrazione). Perché chiamare nuova forza lavoro dall’estero, quando soltanto nel 2010 l’occupazione dei lavoratori immigrati è aumentata di 162mila unità, e quella degli italiani è diminuita di 336mila?
Forse perché la condizione di clandestino è diventata una categoria che, dopo la precedente suddivisione dei migranti tra clandestini e richiedenti asilo (5), anticipa una nuova classificazione
utile al mercato del lavoro, e quindi alla competitività e ai profitti delle imprese: quella tra immigrati regolari e irregolari. Ovvero tra coloro che hanno già ottenuto il permesso di soggiorno e quelli che ancora aspettano di ottenerlo o, peggio, di riottenerlo.
Permesso di soggiorno: la stagionalità utile alle imprese
La variazione occupazionale dei lavoratori immigrati ha riguardato soprattutto le industrie e il settore dei servizi. Queste categorie d’impresa, per loro caratteristica, coinvolgono manodopera per periodi più duraturi, a differenza del settore agricolo che utilizza ampiamente manovalanza straniera a contratto stagionale.
Riferendosi ai dati di Unioncamere, Italia Lavoro fa tuttavia presente che rispetto agli anni precedenti le assunzioni non stagionali di lavoratori immigrati hanno subito una contrazione: questo significa che per soddisfare il proprio fabbisogno le imprese si sono rivolte sempre più al lavoro straniero temporaneo. Per quale ragione?
Innanzitutto perché il notevole aumento di domanda lavorativa da parte delle aziende ha prodotto nel tempo una massa consistente di lavoratori stranieri – occupati o non occupati, regolari o irregolari – già presente sul territorio, tale da creare un vero e proprio ‘mercato interno’.
In secondo luogo perché, se le imprese attingono da questo ben più comodo mercato per soddisfare le proprie necessità, diminuisce inevitabilmente il movimento straniero nel mercato ufficiale, che quindi in proporzione vede aumentare le assunzioni dei lavoratori italiani.
L’integrazione dei lavoratori immigrati, dunque, unita all’aumento delle regolarizzazioni, ha tolto convenienza economica all’assunzione dello straniero rispetto all’italiano precario; ma non l’ha tolta rispetto ai contratti stagionali con gli immigrati, che restano la fonte inesauribile di forza lavoro più economica e facilmente riciclabile. E se per il capitalismo è fin troppo chiara la convenienza di questa operazione, per lo straniero bisogna guardare alla normativa che ne regola il soggiorno sul territorio dello Stato.
Occorre per prima cosa definire ‘straniero’: è chiunque non abbia cittadinanza, indipendentemente che sia esso comunitario o extracomunitario e che entri e soggiorni legalmente o illegalmente all’interno del territorio dello Stato.
In seconda battuta bisogna capire che l’ambiguità della nostra legislazione, benché cataloghi sotto un’unica definizione chiunque appartenga a una nazione diversa da quella italiana, per europee motivazioni deve invece distinguere lo straniero comunitario da quello extracomunitario, nel momento in cui si parla di permessi di soggiorno.
Se per i cittadini europei, infatti, grazie agli accordi di Schengen la libera circolazione è concessa col solo documento di riconoscimento e il visto di ingresso, per l’extracomunitario la trafila è ben più complessa.
Il soggiorno viene regolamentato dall’art. 5 del Testo unico sull’immigrazione (ne sono esclusi i richiedenti asilo politico e umanitario). Il documento deve essere richiesto entro otto giorni lavorativi dall’ingresso nel territorio, ed è subordinato a rilievi fotodattiloscopici; il rilascio, ma anche il rinnovo, avvengono solo con il versamento di una quota che va dagli 80 ai 200 euro, destinata a un Fondo rimpatri; ma ciò che riguarda più da vicino l’immigrato in cerca di occupazione (considerando che più del 60% delle richieste di permesso è per motivi di lavoro), è la durata di questo pass d’accesso.
Tralasciando i permessi rilasciati per altre motivazioni, come i ricongiungimenti famigliari, e quelli legati a necessità temporali più brevi, il permesso di soggiorno non supera i due anni. Anche nel caso in cui, tra datore di lavoro e straniero in cerca di occupazione, ci sia la stipula del contratto di soggiorno per lavoro subordinato a tempo indeterminato. Soltanto chi è venuto in Italia a lavorare (stagionalmente) per almeno due anni di seguito, se si tratta di lavori ripetitivi, può ottenere un permesso pluriennale fino a tre anni.
Una scadenza, dunque, come un qualsiasi medicinale, che obbliga lo straniero ad attivarsi almeno sessanta giorni prima per ottenere il rinnovo, sempre previa verifica delle condizioni necessarie per l’ottenimento dello stesso, e versamento della dovuta quota al Fondo rimpatri. Mancanti i requisiti si procede alla revoca del permesso di soggiorno, con tutto ciò che ne consegue: perdita del posto di lavoro (se non è questa la causa della mancata concessione del rinnovo) e, nella peggiore delle ipotesi, espulsione dal territorio.
La presenza dell’immigrato sul suolo italiano è quindi sempre a termine. Non stupisce, dunque, che il rapporto stilato da Italia lavoro, un’azienda del ministero, a proposito dei permessi di soggiorno e della popolazione straniera residente, usi la parola ‘stock’, mercificando l’uomo al pari di yogurt, detersivi o pacchi di pasta (beni di consumo succedanei).
Esistono anche permessi di soggiorno che prevedono una durata a tempo indeterminato, salvo che i richiedenti rispettino alcune condizioni specifiche: permesso rinnovato regolarmente e con continuità da almeno cinque anni, reddito adeguato (specialmente in caso si debba mantenere una famiglia), alloggio che rientri nei requisiti minimi degli alloggi di edilizia residenziale pubblica e fedina penale pulita. A questo si accompagna un “accordo di integrazione, articolato per crediti, con l’impegno a sottoscrivere specifici obiettivi di integrazione, da conseguire nel periodo di validità del permesso di soggiorno” (6). Un accordo che crea un meccanismo vizioso in cui il mantenimento del permesso è subordinato al raggiungimento degli obiettivi, e il raggiungimento degli obiettivi a un lavoro regolare, che è considerato tale solo se si ha in tasca il permesso di soggiorno.
Sarà per questo che in Italia tenere alto il numero dei lavoratori irregolari è sempre stato importante: una cifra che “non può essere conteggiata”, dice il rapporto di Italia Lavoro, e pare ovvio; eppure, può essere “stimata” – forse perché qualche dato si riesce a ricavarlo, magari dal numero di stranieri che da regolare diventa irregolare (vedi tabella 4).
Una situazione che può essere sintetizzata in un triangolo: accordo di integrazione, permesso di soggiorno, lavoro regolare. Qualcosa che forse è azzardato definire ‘legge di mercato del lavoro’, ma che a conti fatti sta determinando tutti quei cambiamenti di status occupazionale (da regolare a irregolare e viceversa) di cui si è parlato.
L’obiettivo di una simile situazione, innescata scientemente con una ben precisa legislazione, sembra essere quello della creazione e sfruttamento della ‘merce immigrata irregolare’ (la cosiddetta economia sommersa del lavoro in nero), sfruttamento reso ancor più necessario dalla crisi economica, quando i lavoratori stranieri sono i più colpiti perché in numero più elevato nei settori maggiormente coinvolti (quelli industriali), e quando non è necessaria la specializzazione ma piuttosto un più veloce ricambio organico.
Il mercato interno, appunto, il cui primo effetto è stato quello di aver scatenato un’altra legge di mercato, quella dei salari al ribasso, i quali non solo consentono di contenere la disoccupazione – data la nota capacità dello straniero, inteso come straniero extracomunitario, di accettare molto più degli italiani qualsiasi condizione lavorativa gli venga sottoposta – ma incidono anche positivamente sulla competitività delle aziende, come ha ben presente l’Unione europea.
Ma la crisi non è stata solo delle imprese. Se consideriamo che “lo Stato moderno, qualunque ne sia la forma, è una macchina essenzialmente capitalistica, uno Stato dei capitalisti, il capitalista collettivo ideale”; e che “quanto più si appropria delle forze produttive, tanto più diventa un capitalista collettivo, tanto maggiore è il numero dei cittadini che esso sfrutta” (7), guardando alla crisi del capitalista collettivo – quella del debito pubblico – dobbiamo considerare in questa inchiesta altri due mercati, oltre quello del lavoro fin qui analizzato: quello delle tasse e quello dell’edilizia.
(1) http://ec.europa.eu/home-affairs/news/intro/docs/110524/291/1_ IT_ACT_part1_v2.pdf
(2) Come la cosiddetta direttiva ‘carte bleue’, una sorta di permesso di soggiorno potenziato che permetterà, soltanto al lavoratore qualificato, di avere migliori condizioni economiche, di ricongiungimento famigliare, di educazione, ecc. Cfr. http:// www.stranieriinitalia.it/normativa-blue_card_ecco_la_direttiva._l_italia_ha_2_anni_per_adeguarsi_8436.html
(3) http://www.interno.it/mininterno/export/sites/default/it/sezioni/sala
_stampa/notizie/immigrazione/000116_2011_01_03_decreto_flussi_g_u_.html
(4) Cfr. La schizofrenia dell’accoglienza, Erika Gramaglia, Paginauno n. 8/2008
(5) Cfr. Il business dei rifugiati politici con i soldi dei Fondi europei, Davide Corbetta, Paginauno n. 23/2011
(6) Art. 4-bis, Titolo II, Capo I, Testo unico sull’immigrazione
(7) Cit. da Antidühring, Friedrich Engels