L’usura bancaria: tassi d’interesse gonfiati, commissioni di massimo scoperto mascherate, capitalizzazione illegale degli interessi, e molto altro… ovvero i furti legalizzati delle banche italiane
Attività di antichissima tradizione, l’usura è certamente il più detestabile dei reati finanziari – a Oriente come a Occidente – dei quali costituisce il capostipite. Definita in origine come il semplice prestar denaro a interesse, a prescindere dall’esosità, è considerata disprezzabile già in alcuni testi sacri indiani, i Veda (2000 a.C.), ed è il quinto peccato in ordine di gravità per il Corano (“riba”). Anche in assenza di specifiche norme di legge, ai cristiani ne è stata vietata la pratica per lunghi secoli, pena la scomunica, a causa degli espliciti divieti biblici: “Se presti denaro al mio popolo, al povero che abita con te, non lo vesserai come un esattore, né l’opprimerai con le usure” (Esodo, 22, 25); “Non darai il tuo denaro ad usura al tuo fratello, e non esigerai un sovrappiù di frutti” (Levitico, 25, 37); e “Se prestate a quelli dai quali sperate di ricevere, qual grazia ne avrete? Anche i peccatori prestano ai peccatori per riceverne altrettanto” (Lc, 6, 34).
Dal momento che il concetto di fratellanza universale era sconosciuto agli ebrei, il popolo eletto si caricò dell’onere di praticare l’usura agli stranieri, e mal gliene incolse. I mercanti fiorentini dell’epoca comunale dovettero invece inventarsi un escamotage più raffinato, e lo trovarono nella concezione di ‘ditta’ (da cui discenderà la banca), la quale, non avendo un’anima da dannarsi, poteva tranquillamente prestar denaro a interesse.
Da parte sua la Chiesa, fino al Concilio di Vienna (1311-12), non cessa mai di evidenziarne la natura gravemente peccaminosa, anche se le scomuniche per usura tendono a farsi sempre più rare, forse perché, come si dice in una celebre frase attribuita a Innocenzo III, “a scomunicare gli usurai si svuoterebbero le chiese non solo del gregge, ma anche dei pastori”. Tuttavia dal Reginaldo degli Scrovegni di Dante, allo Shylock di Shakespeare, all’Alena Ivanovna di Dostoevskij, gli usurai in letteratura non hanno mai avuto buona sorte, segno del disprezzo universale di cui sono vittime. Gli istituti di credito, ancorché privi di anima, sembrano essersi guadagnati un destino migliore. Forse che Brecht si sbagliava, quando affermava che fosse meglio (o meno peggio) svaligiare una banca rispetto a fondarne una?
L’articolo 644
Sdoganata col tempo la pratica di prestar soldi a interesse, il reato di usura viene mantenuto, dalla totalità dei codici di legge, come la pratica di prestar denaro a un tasso considerato eccessivo. Nel nostro ordinamento essa è così definita dall’articolo 644 del codice penale: “Chiunque […] si fa dare o promettere, sotto qualsiasi forma, per sé o per altri, in corrispettivo di una prestazione di denaro o di altra utilità, interessi o altri vantaggi usurari, è punito con la reclusione da due a dieci anni e con la multa da euro 5.000 a euro 30.000. Alla stessa pena soggiace anche chi […] procura a taluno una somma di denaro od altra utilità facendo dare o promettere, a sé o ad altri, per la mediazione, un compenso usurario”. La legge riguarda dunque non solo chi presta denaro a tassi usurari, ma anche chi chiede compensi sproporzionati per qualunque opera di mediazione. “La legge stabilisce il limite oltre il quale gli interessi sono sempre usurari. Sono inoltre usurari gli interessi, anche se inferiori a tale limite, […] che, avuto riguardo alle concrete modalità del fatto e al tasso medio praticato per operazioni similari, risultano comunque sproporzionati rispetto alla prestazione, […] quando chi li ha dati o promessi si trova in condizioni di difficoltà economica o finanziaria”. Per decidere se un tasso sia o meno usurario si devono dunque prendere in considerazione non solo il tasso medio praticato dal mercato per un certo tipo di operazione, ma anche le condizioni finanziarie di chi richiede credito: peggiore è la situazione economica del richiedente, più bassa è la soglia dell’usura.
In linea generale, “per la determinazione del tasso di interesse usurario si tiene conto delle commissioni, remunerazioni a qualsiasi titolo e delle spese, escluse quelle per imposte e tasse, collegate alla erogazione del credito”. Il tasso da considerare usurario si compone quindi dell’interesse nominale maggiorato di tutti gli oneri collegati all’operazione, per esempio i costi di negoziazione, le spese di istruttoria e di gestione della pratica, eventuali assicurazioni, e così via, a esclusione degli oneri fiscali. Vengono infine considerate aggravanti di reato due situazioni: se il colpevole di usura ha “agito nell’esercizio di una attività professionale, bancaria o di intermediazione mobiliare”, e se il reato è stato commesso “a danno di chi si trova in stato di bisogno”, o “a danno di chi svolge attività imprenditoriale, professionale o artigianale”.
TEG e TEGM
L’articolo 644 impone che il tasso d’interesse limite, oltre il quale ci si trova in presenza di usura, venga stabilito per legge. I criteri per il calcolo dei cosiddetti ‘tassi soglia’ sono contenuti nella legge 108/96. La procedura è abbastanza complicata: in primo luogo il ministero del Tesoro stabilisce annualmente con proprio decreto una classificazione delle operazioni di finanziamento per categorie omogenee (aperture di credito, scoperti di c/c, leasing, ecc.), sulla quale si strutturerà la successiva rilevazione del costo del denaro. La rilevazione, che competerebbe al Tesoro, è nei fatti delegata alla Banca d’Italia, la quale raccoglie trimestralmente i Tassi Effettivi Globali (TEG), calcolati su base annua, che sono stati praticati dalle banche per ogni operazione di finanziamento avvenuta nei tre mesi precedenti. La legge impone che il TEG comprenda, oltre al tasso di interesse applicato, anche le commissioni, le remunerazioni a qualsiasi titolo e le spese, escluse quelle per imposte e tasse (vedi tabella).

Dall’aggregazione statistica dei TEG segnalati dagli intermediari viene determinato il Tasso Effettivo Globale Medio (TEGM), relativo a ciascuna delle categorie indicate dal ministro del Tesoro. I TEGM così ottenuti vengono trimestralmente pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale e restano validi per il trimestre successivo.
La legge inizialmente stabiliva, come soglia d’usura per ogni categoria di finanziamento, il corrispondente TEGM aumentato del 50%. Con la crisi e la discesa dei tassi d’interesse, tuttavia, i banchieri hanno cominciato a far pressioni affinché la soglia venisse alzata. A maggio del 2011 il governo ha accolto il loro accorato appello e, attraverso il cosiddetto Decreto per lo sviluppo, ha stabilito che il tasso soglia fosse pari al TEGM aumentato del 25% più altri 4 punti percentuali, fino a un massimo di 8 punti percentuali complessivi. Il presidente dell’Abi (Associazione Banche Italiane), Giuseppe Mussari, intervistato a Mattino 5, esprime grande soddisfazione. Impossibile dargli torto, dal momento che, così calcolata, la soglia d’usura si alza, nel complesso, di più di un punto percentuale, e in modo corrispondente aumentano le possibilità di guadagno lecito per gli istituti di credito (vedi tabella).

La commissione di massimo scoperto
Fra le voci che hanno contribuito non poco all’innalzamento dei TEGM una menzione a parte va dedicata alla Commissione di Massimo Scoperto (CMS). Questa commissione, già di per sé piuttosto ambigua, è stata storicamente applicata in modo vario secondo criteri indecifrabili. In generale, la CMS si può definire come una percentuale, la cui entità è più o meno liberamente stabilita dalle singole banche, calcolata sulla massima esposizione negativa raggiunta sul conto corrente durante un periodo di riferimento, e va ad aggiungersi agli interessi passivi dovuti dal cliente. Per i contratti di apertura di credito in c/c (cioè per i contratti che prevedono un fido), essa incorporava, o si confondeva, con la cosiddetta provvigione di conto. La provvigione di conto costituisce il corrispettivo dovuto alla banca per le somme messe a disposizione del cliente, ma non utilizzate. Per esempio, un cliente con un fido disponibile di 50.000 euro che ne abbia utilizzati, in un dato trimestre, 30.000, pagherà gli interessi stabiliti su 30.000 euro e la provvigione di conto sui rimanenti 20.000.
Fino al 2009, la CMS veniva sempre applicata dalle banche sugli scoperti di c/c senza affidamento, sugli sconfinamenti di fido, ma spesso anche sulla totalità delle somme utilizzate nei contratti di c/c affidati. Inoltre essa non veniva compresa da Bankitalia nel calcolo del TEGM, col risultato di far apparire queste forme di finanziamento meno onerose per la clientela di quanto fossero in realtà.
La legge n. 2 del 28/01/09 ha invece stabilito che la commissione di massimo scoperto è valida solo in relazione a sconfinamenti assistiti da fido e di durata superiore a 30 giorni. La provvigione di conto, o comunque questa sia denominata, è valida, ma solo se prevista per iscritto in misura onnicomprensiva, in percentuale rispetto all’affidamento, insieme all’interesse dovuto sui prelevamenti. La provvigione di conto non può eccedere per ciascun trimestre lo 0,5% dell’esposizione complessiva (come precisato dall’art. 2 comma 2, del DL 01/07/2009, n. 78). Il legislatore ha anche stabilito che la CMS va obbligatoriamente computata nel calcolo degli interessi al fine dell’usura.
Ma, come spesso accade nel nostro Paese, fatta la legge trovato l’inganno. Già a maggio del 2009 la rivista Altroconsumo denunciava come la CMS, abolita solo da qualche mese, fosse ricomparsa negli estratti conto degli italiani sotto mentite spoglie. Il Gruppo Montepaschi, dopo aver cancellato la vecchia CMS per i conti non affidati (1,25%), l’ha sostituita con una “commissione per istruttoria urgente”, pari a 50 euro per scoperti da 100 a 3.000 euro e a 100 euro per gli scoperti di importo superiore; come è facile dimostrare, l’importo dovuto alla banca per gli scoperti di importo contenuto è diventato più oneroso. Il Gruppo Intesa Sanpaolo ha sostituito la CMS (0,95%) con una “commissione per scoperto di conto” di 2 euro al giorno per ogni 1.000 euro (o frazione inferiore) di scoperto, fino a un massimo di 100 euro a trimestre. Il Gruppo Unicredit ha cancellato la CMS (0,98%) ma ha introdotto un “recupero spese per ogni sospeso” pari a 9 euro per ogni operazione a debito. Anche BNL BNP Paribas, che pure su alcune tipologie di c/c non applicava alcuna CMS, ha inserito, dopo la pubblicazione della nuova legge, una “commissione manca fondi” di 12,50 euro per ogni sconfinamento di importo superiore ai 20 euro. In sintesi, nonostante lo spirito della legge fosse quello di contenere le spese bancarie per alleggerire i bilanci dei cittadini in tempo di crisi, il risultato effettivo della nuova norma è stato quello di aumentare ancora di più l’onerosità dei conti correnti.
La Banca d’Italia
L’Italia non è nuova a simili effetti paradosso in campo bancario. Anche la privatizzazione e successiva concentrazione del settore del credito, che avrebbe dovuto generare economie di scala e risparmi di costo per la clientela, si è risolta in un inasprimento delle voci di spesa sotto gli occhi ben poco vigili di Bankitalia. Bisogna infatti chiarire che la Banca d’Italia è sì un istituto di diritto pubblico (la cui gestione cioè ha un interesse collettivo), ma di proprietà privata. Ecco quali ne sono i principali partecipanti al capitale, come pubblicato sul sito della banca centrale (vedi tabella).

Le quote di partecipazione al suo capitale sono dunque per il 94,33% di proprietà di banche e assicurazioni private, mentre solo il 5,67% è in mano a enti pubblici. I voti dei primi otto partecipanti (Intesa Sanpaolo, Unicredit, Generali, Carisbo – che fa parte del Gruppo Intesa Sanpaolo – Inps, Carige, BNL, MPS) sono già sufficienti a raggiungere la maggioranza in assemblea, la quale elegge il Consiglio superiore dell’istituto. Il governatore della Banca d’Italia viene invece nominato dal presidente della Repubblica, su proposta del presidente del Consiglio.
Dal momento che gli ‘azionisti’ di Bankitalia sono le stesse banche sulle quali l’ente dovrebbe vigilare, non è difficile immaginare perché gli istituti di credito abbiano gioco facile quando si tratta di aggirare le norme di legge con l’obiettivo di incrementare i profitti. Se si considera che l’Euribor a tre mesi, cioè il tasso di interesse medio trimestrale delle transazioni finanziarie tra le principali banche europee o, detto in altri termini, il costo del denaro per gli intermediari finanziari, si situa intorno al 1,56%, come è possibile che i tassi soglia arrivino, per alcune categorie di finanziamento, sopra al 20%? Delle due l’una: o le banche italiane vogliono fare profitti spropositati, o sostengono costi di gestione spropositati. Nel primo caso sono usuraie, nel secondo inefficienti.
Mele e pere
La legge 108/96 certo non aiuta a chiarire il problema: se si prende il TEG come riferimento (che mescola i tassi con i costi che le banche fanno ricadere sui clienti), si ricava il suo valore medio (che cancella punte minime e massime in un grigiore totale), si aumenta quindi l’ambito di discrezionalità delle banche del 25% e poi di altri 4 punti percentuali, quale potere di demarcazione fra lecito e usura rimane al tasso soglia? Tutti usurai, nessun usuraio. Oppure: tutti inefficienti, nessuno inefficiente, qualora fossero i costi, e non i profitti, a far lievitare il TEGM.
È allora possibile che il credito personale, per esempio, pur costando alla banca (in termini di interessi) meno del 2% della cifra erogata, arrivi a pesare sul cliente fino al 18% senza che si parli di usura. Tuttavia, se questo tipo di finanziamento viene oggi mediamente concesso a un tasso pari all’11,2% (comprensivo di interessi, costi e remunerazione dell’istituto erogatore), come riportano i dati di Bankitalia, i 6,8 punti percentuali ulteriori che una banca può applicare prima di arrivare a parlare di usura possono solo rappresentare un aumento legalizzato del margine di profitto.
Sarebbe più corretto (e trasparente) che il tasso soglia assumesse come unico riferimento i tassi di mercato, adeguatamente maggiorati per comprendere i diversi profili di rischio della clientela; e che la normativa imponesse che i costi accessori del finanziamento – calcolati a parte – non possano superare una certa percentuale (stabilita per legge) della somma erogata. Oggi, invece, le banche possono sommare liberamente le mele con le pere e la normativa, invece di incentivare tassi in linea col mercato e sane politiche aziendali di contenimento dei costi, allarga le maglie della rete finché dentro non rimane più neppure un pesce. “Tutto il contrario”, afferma Giuseppe Mussari, il già citato presidente dell’Abi, “la legge permette in questo modo di concedere credito anche alle famiglie o alle realtà imprenditoriali con un profilo di rischio più alto”. Ma l’articolo 644 del c.p. non stabilisce forse che peggiori sono le condizioni finanziarie o economiche del richiedente credito, più bassa (e non più alta) debba essere considerata la soglia dell’usura, addirittura inferiore al tasso soglia? C’è poi un altro problema: la nuova legge sul credito al consumo, in vigore dal giugno scorso, elimina per i prestiti (trattati in un capitolo a parte, la sezione VII) l’obbligo del foglio informativo. Il prospetto viene sostituito da un documento chiamato IEBCC (Informativa Europea di Base sul Credito ai Consumatori), più noto come SECCI, il suo equivalente in lingua inglese: formalmente più completo della vecchia modulistica, il SECCI non è più standard, ma personalizzabile. Si configura come un vero e proprio preventivo, e per ottenerlo il cliente deve andare in filiale e sottoporsi a una procedura di profiling. Il modulo, che determina offerte contrattuali specifiche per ogni cliente, non è disponibile allo sportello né su internet, con la conseguenza che le offerte di banche diverse non sono più confrontabili fra loro. A Giovanni Calabrò, direttore generale dell’Antitrust, non resta che sottolineare “il passo indietro compiuto sul cammino della trasparenza”.
Crisi finanziaria, crisi reale
I principali casi di usura finanziaria (cioè praticata da istituti di credito) resi noti nel 2010 sono stati 58, come denuncia Roberto Galullo, il 24 febbraio, nel suo blog sul Sole24ore. Ma secondo il Cerved (servizi informativi per le banche e le finanziarie), la situazione reale nel nostro Paese è ben peggiore: nel 2009 hanno chiuso i battenti, schiacciati dai debiti con le banche, 9.000 imprese italiane, quasi venticinque al giorno, il 23% in più del già durissimo 2008. Dietro si nasconde quasi sempre una storia di usura: tassi di interessi gonfiati, ben più alti di quanto dichiarato; l’impossibilità di rimborsare i prestiti; e infine il blocco dei conti senza che ci sia alcuna possibilità di rinegoziare i finanziamenti. “Il meccanismo è sempre lo stesso e si ripete, cambiano solo i nomi delle imprese e delle banche”, dice Maria Lorena Sacchi, presidente dell’Associazione Antiracket e Antiusura (1), “ma al 99% quando gli istituti di credito chiudono all’imprenditore i rubinetti del fido lo fanno in maniera illegittima. Nella maggior parte dei casi l’imprenditore si vergogna e aspetta troppo tempo prima di denunciare le vessazioni che subisce allo sportello”. A rischiare di più sono le piccole realtà: il 90% delle aziende che chiudono conta meno di 10 dipendenti, e il 60% dei fallimenti sono costituiti da artigiani, commercianti e ristoratori fra i 49 e i 55 anni. Come reagire? “La denuncia resta la via principale per opporsi”, continua la Sacchi. Se arriva subito dopo le prime difficoltà incontrate con la banca, spesso la disputa si conclude felicemente. Ma tutto dipende dalla Consulenza tecnica d’ufficio di cui il giudice si serve per stabilire la fondatezza dell’ingiunzione presentata dalle banche, e dall’attivismo delle prefetture.
Anatocismo, chi era costui?
L’anatocismo è la produzione di interessi su interessi. È ordinariamente vietato dall’art. 1283 del codice civile, il quale prevede che gli interessi sugli interessi, in mancanza di usi contrari, siano ammissibili solo dal giorno della domanda giudiziale, e solo se si tratti di interessi dovuti per almeno sei mesi. La giurisprudenza di legittimità per lungo tempo aveva ritenuto legittimi gli interessi anatocistici richiesti nei rapporti bancari, ravvisando nel comportamento delle banche un “uso di rango normativo”, e quindi derogatorio delle disposizioni dell’art. 1283. Tuttavia, a partire dal 1999 la Corte di Cassazione, con tre sentenze (Corte Cass. Sez. I n. 2374 del 16/3/99; Corte Cass. Sez. III n. 3096 del 30/3/99; Corte Cass. Sez. I n. 12507 dell’11/11/99) ha radicalmente modificato il proprio orientamento, affermando la natura negoziale e non normativa dell’uso posto a giustificazione della capitalizzazione trimestrale degli interessi praticata dalla banche.
A seguito di tali sentenze, il legislatore è intervenuto con il D.Lgs. n. 342/99, modificando sostanzialmente l’art. 120 del Testo Unico bancario, e demandando al Comitato Interministeriale per il Credito e il Risparmio (CICR) le modalità e i criteri per la produzione di interessi su interessi nelle operazioni bancarie. Il CICR, con delibera del 9/2/2000, ha rimesso alle parti, nei contratti di conto corrente, la determinazione della periodicità degli interessi, disponendo, però, la stessa periodicità sia per gli interessi a credito che per quelli a debito. Pertanto gli istituti di credito, dopo la delibera, sono potuti tornare alla capitalizzazione trimestrale negli interessi debitori, ma solo applicando un’identica periodicità nella capitalizzazione degli interessi a credito. Tuttavia la delibera del CICR stabilisce che, “nel caso in cui le nuove condizioni contrattuali comportino un peggioramento delle condizioni precedentemente applicate, esse devono essere approvate dalla clientela”. Dal momento che la maggior parte dei conti c/c risultava a debito, ciò ha comportato un peggioramento delle condizioni e quindi l’esigenza di un’esplicita approvazione del cliente.
L’anatocismo viene praticato anche sui mutui ordinari. Solitamente le banche usano calcolare gli interessi di mora non sulla quota di capitale non rimborsata, ma sull’intero importo della rata – che comprende capitale e interessi – generando così una produzione di interessi su interessi. Già in passato la Cassazione si era pronunciata su questa forma di anatocismo, stabilendo che la corresponsione di interessi di mora sulle rate scadute e non pagate, già comprensive degli interessi corrispettivi, costituisce violazione del divieto di anatocismo. Più recentemente, con la sentenza n. 2593 del 20/2/03, la Cassazione ha ribadito che “in ipotesi di mutuo per il quale sia previsto un piano di restituzione differito nel tempo, mediante pagamento di rate costanti comprensive di parte del capitale e degli interessi, questi ultimi conservano la loro natura e non si trasformano invece in capitale da restituire al mutuante, cosicché la convenzione, contestuale alla stipulazione del mutuo, la quale stabilisca che sulle rate scadute decorrano gli interessi sull’intera somma, integra un fenomeno anatocistico, vietato dall’art. 1283 c.c.”.
Il CICR si è allora affrettato a offrire alle banche una nuova deroga, stabilendo che “nelle operazioni di finanziamento rimborsate mediante rate temporali predefinite, in caso di inadempimento, se contrattualmente stabilito, è consentito l’anatocismo, cioè la mora sull’intera rata (compresa la quota interessi), seppur senza alcuna capitalizzazione”. Pertanto, a partire dal 22/4/2000 (data di entrata in vigore della delibera), l’anatocismo è stato nuovamente reintrodotto in forma allargata, essendo previsto per ogni tipo di finanziamento con piano di rimborso rateale.
Conclusioni
La quasi totalità dell’opinione pubblica sembra convinta che l’usura sia un reato praticato esclusivamente dalla piccola criminalità o, nei casi più spettacolari, dalla criminalità organizzata. Tuttavia, già alla metà degli anni ’90 è risultato chiaro che il sistema creditizio non poteva dirsene esente, come si evince dalla definizione dell’articolo 644 del codice penale, il quale non solo specifica che anche il settore del credito può macchiarsi di reati finanziari, ma addirittura che il fatto di essere intermediari mobiliari legalmente riconosciuti rappresenta un’aggravante di reato. Tassi d’interesse gonfiati, commissioni di massimo scoperto mascherate, capitalizzazione illegale degli interessi, giochi contabili sulle valute, opacità nell’applicazione dei meccanismi di calcolo: le possibilità per le banche di eludere la legge sono molto ampie, e la fiducia della clientela (la quale peraltro è sia disinformata, sia tecnicamente impreparata) crea una situazione ideale perché il criminal banking continui a essere impunemente perpetrato.
Certo la presenza di un organismo di vigilanza indipendente dal sistema bancario aiuterebbe nel porre limiti a un sistema di autocertificazione che Bankitalia non ha nessun interesse a modificare. Ma fino a oggi la funzione creditizia è stata pervicacemente protetta dal sistema politico. Così da un lato si è sempre evitato che le banche italiane si confrontassero seriamente con la concorrenza (interna ed esterna), dall’altro si è intervenuti con nuove norme ogniqualvolta la magistratura si è impegnata a perseguire specifiche classi di reati (come l’anatocismo), rendendo vani i tentativi, peraltro ancora limitati, che il potere giudiziario attua per mettere un freno allo strapotere delle banche.
I risultati sono sotto gli occhi di tutti: non solo i cittadini e le aziende vengono abbandonati ai capricci degli intermediari finanziari, indebolendo il tessuto che costituisce l’ossatura dell’economia italiana, cioè la piccola e media impresa, ma anche la salute delle banche nostrane, ormai assuefatte a una dieta fatta di protezionismo e lassismo in parti uguali, si è ormai irrimediabilmente compromessa, come la speculazione di mezza estate sui titoli del settore del credito ha indubitabilmente dimostrato. Non bastano infatti gli attacchi ai Btp, di cui sono imbottiti i portafogli dei nostri istituti bancari (alla ricerca di facili profitti senza rischio, grazie al differenziale di rendimento sul costo dei finanziamenti), a spiegare l’ondata di vendite che i titoli bancari ormai subiscono da mesi. Il vero handicap delle banche italiane è la scarsa redditività, e gli ultimi stress test per il 2012 la prevedono ad appena il 3,6%. In un Paese che non cresce anche i prestiti non crescono, certo, ma in un tale contesto non possono essere ignorate le responsabilità di un settore creditizio che chiede tassi folli quando quelli di mercato sono inferiori al 2%, nella speranza di mungere fino all’ultima goccia l’esausta economia italiana.
(1) Scateniamoci, Roberta Caffaratti e Gianluca Ferraris su Economy, 10 marzo 2010