di Davide Corbetta
QUI la prima parte dell’inchiesta
Clandestino o regolare, l’extracomunitario, numeri e leggi alla mano, conviene: come e perché l’occupazione degli immigrati risulta quella favorita da un governo che sbraita ‘lavoro agli italiani’
Nella parte precedente abbiamo visto come la ‘Relazione annuale sull’immigrazione e l’asilo 2010’ della Commissione europea auspichi una politica di integrazione comunitaria che agevoli l’accesso al mondo del lavoro, quindi alla vita economica e sociale, del cittadino extracomunitario. La sollecitazione nasce dal preoccupante calo dei permessi di soggiorno riscontrato nel 2009 (anno di inizio della crisi economica): meno 8%, seguito da una diminuzione dei permessi per attività retribuite pari al 28%. A questo è corrisposto, nell’anno successivo, il 2010, un aumento della domanda di manodopera, e la conseguente difficoltà dei datori di lavoro di reperire manovalanza qualificata per ricoprire i posti vacanti. Occorre quindi fare dell’Europa un “mercato del lavoro attraente agli occhi dei migranti”, recita la Relazione.
Un auspicio già divenuto realtà nel nostro Paese. Il governo che sbraita ‘lavoro agli italiani’ ha infatti messo in atto politiche che favoriscono la merce lavoro straniera a svantaggio della merce lavoro locale, attraverso una sapiente gestione dei decreti flussi, delle sanatorie e dei permessi di soggiorno che regolano quei cambiamenti di status occupazionali (da immigrato regolare a immigrato irregolare e viceversa) tanto utili alla produttività delle imprese, soprattutto in un momento di crisi economica come quello attuale.
A questo aspetto, analizzato nella prima parte di questa inchiesta – il triangolo del nuovo ‘mercato interno’ del lavoro immigrato: accordo di integrazione, permesso di soggiorno, lavoro regolare – si aggiungono una serie di agevolazioni che possono essere sintetizzate in altri due triangoli: quello tra permesso di soggiorno, lavoro regolare ed edilizia pubblica, e quello tra permesso di soggiorno, lavoro regolare e incentivi economici.
Tasse ed edilizia residenziale pubblica
Il negativo andamento del debito pubblico e del deficit di bilancio è ormai argomento di discussione anche tra i cittadini, visti i recenti sviluppi della crisi economica e finanziaria e gli ‘stretti’ rapporti dell’Italia con l’Unione europea. Situazione che non migliora nei bilanci degli enti locali, il cui debito è passato dai 113 miliardi di aprile 2010, ai 114 miliardi di aprile 2011. A questi notevoli incrementi, tuttavia, ha fatto da contrappeso la crescita annua delle entrate tributarie al netto dei ‘Fondi della riscossione’ (1) (vedi tabella 1).
I tributi e i contributi previdenziali sono quindi un’entrata importante per lo Stato, e vi contribuisce anche il lavoratore extracomunitario regolarmente assunto. Grazie al sito www.lavoce.info possiamo risalire ai contributi previdenziali che nel 2007 sono stati versati dai lavoratori stranieri, euro più euro meno, tra Irpef, Iva, imposte da lavoro autonomo e per i fabbricati (vedi tabella 2).
Dati aggiornati dal IV Rapporto Inps (2), che parla di 7,5 miliardi versati nel 2008. Il rapporto inoltre ci informa che i lavoratori stranieri iscritti all’Inps, nel 2010, sono 2,7 milioni, i pensionati stranieri 110mila, mentre quelli in età pensionabile sono appena il 2,2% sul totale dei residenti (nello stesso anno: 2,08 milioni).
Questi dati andrebbero confrontati con quell’incremento occupazionale, costantemente in crescita dal 2008, del lavoratore straniero, e quelli della disoccupazione totale, italiana e straniera, per lo stesso periodo (vedi prima parte dell’inchiesta). Ci si rende in tal modo conto, una volta di più, come lo sfruttamento dei contratti stagionali e della limitata periodicità del permesso di soggiorno giova sì alle imprese, ma anche allo Stato, che vara i decreti e le politiche economiche con cui vengono stabilite le logiche del mercato del lavoro; logiche che gonfi ano le casse tributarie con prospettive pensionistiche insufficienti per i lavoratori stranieri regolari, e inesistenti per quelli irregolari.
Al mercato del lavoro si somma il ramo immobiliare ed edilizio, il quale rappresenta un’altra grossa opportunità per l’economia pubblica e privata e che vede ancora una volta coinvolto lo straniero, a patto che sia straniero extracomunitario.
Tralasciando i Centri di accoglienza e i Villaggi della solidarietà, di cui si è già parlato (3), dando nuovamente un’occhiata al Testo unico sull’immigrazione, in materia di garanzie per il lavoratore straniero apprendiamo che il datore di lavoro, come stabilito dall’art. 5bis, dovrebbe dare la “disponibilità di un alloggio per il lavoratore che rientri nei parametri minimi previsti dalla legge per gli alloggi di edilizia residenziale pubblica”.
Ovvero, come specificato dall’art. 40 comma 6: “Gli stranieri titolari di carta di soggiorno e gli stranieri regolarmente soggiornanti che siano iscritti nelle liste di collocamento o che esercitino una regolare attività di lavoro subordinato o di lavoro autonomo hanno diritto di accedere, in condizioni di parità con i cittadini italiani, agli alloggi di edilizia residenziale pubblica, ai servizi di intermediazione delle agenzie sociali eventualmente predisposte da ogni Regione o dagli enti locali per agevolare l’accesso alle locazioni abitative e al credito agevolato in materia di edilizia, recupero, acquisto e locazione della prima casa di abitazione”.
Ma cosa si intende esattamente per ‘edilizia residenziale pubblica’? Sono tutti quegli alloggi destinati a immigrati e gruppi ‘socialmente inferiori’, quindi con reddito basso, allo scopo di favorirne l’integrazione sociale.
Integrazione, tuttavia, che deve sempre passare da una condizione occupazionale, per sfuggire alla detenzione nei Cara o nei Villaggi della solidarietà. Un’integrazione soggetta a discriminazione. Infatti, benché l’Unione europea abbia adottato ben due direttive anti-discriminazione (2000/43/EC e 2000/78/EC), il Gruppo di lavoro sulle politiche sociali del CECODHAS (Osservatorio europeo sul Social housing), analizzando la situazione dello straniero nel diritto alla casa, ha ampiamente dimostrato l’esistenza di una doppia dimensione: quella etnico-razziale (là dove gli alloggi vengono assegnati in base alla nazionalità, al numero di componenti della famiglia e allo status in ingresso nel territorio) e quella socioeconomica (là dove si viene incontro alle famiglie con reddito regolare, escludendo quindi tutti i lavoratori irregolari tanto utili alle imprese i quali, per regolarizzarsi, oltre alle qualifiche del permesso CE o della carta di soggiorno, avrebbero bisogno proprio di un alloggio che non può essere altro che di edilizia sociale). Ne nasce una gerarchia nell’accesso alla casa che svela la mancanza di una vera politica di edilizia sociale, in particolar modo per quanto riguarda gli immigrati.
Gerarchia che il centro-destra, nel nostro Paese, vede ad appannaggio degli extracomunitari, lamentando un aumento nella costruzione di case popolari a loro in primis assegnate perché, sempre secondo il centro-destra, gli stranie riavrebbero più facilità di accesso alla graduatoria, in quanto appartenenti a famiglie numerose, con molti figli, e redditi più bassi; discriminazione nei confronti dei lavoratori italiani, che si vedono usurpare il posto dagli immigrati.
Facendo presente, ancora una volta, che tutte le garanzie per il lavoratore straniero dipendono da due fattori fondamentali, il lavoro e il permesso di soggiorno, e che entrambi questi fattori dipendono dalla regolarizzazione, e che questa è una cosa non sempre possibile; facendo presente che un lavoratore irregolare non può nemmeno ricorrere a un mutuo, o agli istituti di credito in generale, bisognerebbe chiedersi quale risposta abbia dato il centro-destra a tale problematica, ovvero com’è andato il mercato immobiliare negli anni in cui ha governato quella parte politica.
Sarà forse per i bassi salari, oppure per i lavori a contratto determinato, se non addirittura a progetto, a chiamata, a stage ecc., certo è che il mercato delle compravendite immobiliari è tuttora bloccato. La notizia è di Bankitalia, che conferma: nel primo trimestre del 2011 il 69,3% delle agenzie immobiliari ha venduto soltanto un immobile. Dato confortato anche dall’indagine di Federconsumatori e Adusbef (4) che evidenzia, non solo come per acquistare un’abitazione di 90 mq in zona centrale ci vogliano diciotto anni di stipendio, ma anche come i costi relativi alla casa (luce, riscaldamento, nettezza urbana ecc.) siano aumentati, in dieci anni (2001-2011) di 241 euro al mese per le abitazioni di proprietà e di 707 euro al mese per gli affitti; costi che spingono quindi l’italiano verso la più economica edilizia residenziale pubblica.
E le risposte del governo?
Per l’edilizia residenziale privata è al nuovo Piano Casa che bisogna guardare (revisione del piano Berlusconi del 6 marzo 2009) il quale, alle questioni abitative degli italiani, cerca di mettere una pezza con premiazioni di volumetria aggiuntiva nei casi di demolizioni e ricostruzioni, delocalizzazioni, cambi di destinazione d’uso oppure cambiamento della sagoma per l’armonizzazione architettonica (ampliamento del 20% per le abitazioni e del 10% per edifici non residenziali come negozi, edifici industriali ecc.).
Per l’edilizia pubblica sociale, invece, occorre tornare al decreto del 16 luglio 2009, col quale il governo ha varato un Piano Nazionale di edilizia abitativa “al fine di garantire su tutto il territorio nazionale i livelli minimi essenziali di fabbisogno abitativo per il pieno sviluppo della persona umana”. È contemplato un ‘Fondo nazionale di edilizia abitativa’ il cui importo massimo non supera i 200 milioni di euro, destinato ad alimentare un sistema di fondi immobiliari per l’acquisizione e la realizzazione di immobili di edilizia residenziale, attuabili con la partecipazione
di soggetti sia pubblici (Stato, Regioni, Province autonome ecc.) che privati. L’art. 11 comma 2 dello stesso decreto prevede che i soldi “dovranno essere dedicati allo sviluppo di una rete di fondi o altri strumenti finanziari che contribuiscano a incrementare la dotazione di alloggi sociali come definiti dal decreto del ministero delle Infrastrutture di concerto con i ministri della Solidarietà sociale, delle politiche per la famiglia, e per le politiche giovanili e le attività sportive”. Quindi fondi ad appannaggio dell’edilizia e non delle problematiche abitative o di concessione abitativa.
È sempre il decreto a stabilire l’onere a carico dello Stato: 30% del costo di realizzazione in caso di “acquisizione o recupero degli alloggi che saranno offerti in locazione a canone sostenibile, anche trasformabile in riscatto”; 50% del costo di realizzazione in caso di alloggi locati per 25 anni; 100% del costo di realizzazione in caso di “alloggi di edilizia residenziale pubblica a canone sociale”.
Ma almeno c’è qualche possibilità, per i futuri inquilini stranieri, di acquisire l’alloggio, salvando così uno dei parametri necessari al mantenimento del permesso di soggiorno?
Secondo l’art. 7 del decreto, alla fine del canone di locazione, l’alloggio può essere offerto “in prelazione” agli inquilini, in forma collettiva o individuale, a un prezzo che non può superare quello del costo iniziale dell’abitazione (rivalutato sui parametri dell’inflazione), sempre che nel frattempo non ci sia stata la messa in mora degli inquilini stessi. In caso contrario, gli alloggi verranno ceduti sul mercato, o al comune o agli ex Iacp (Istituti autonomi per le case popolari).
Normativa più recente, invece, la possiamo trovare nel Decreto sviluppo 2011, pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 13 maggio e molto criticato dall’opposizione (il solito Pd) proprio in materia di
edilizia e casa. I punti salienti sono due: scomparsa di necessità della gara d’appalto in caso di opere pubbliche inferiori a 1 milione di euro (verranno affidate direttamente all’appaltante dal responsabile del procedimento) e introduzione del principio di ‘silenzio assenso’ per il rilascio del permesso di costruzione.
Insomma, sebbene i decreti, i piani casa e i piani nazionali, ricorrano sempre alla stessa dialettica di “strategie in risposta al bisogno abitativo locale”, l’impressione è che la risposta sia al bisogno dell’edilizia e delle problematiche ‘socioeconomiche’ del capitale.
Un esempio su tutti lo troviamo nel già citato art. 11 del decreto 16 luglio 2009, al comma 8, il riferimento è all’attivazione di “strumenti finanziari innovativi dedicati al settore dell’edilizia sociale quali, a titolo esemplificativo, ma non esaustivo, fondi di garanzia, forme di finanziamento in pool, piani di risparmio casa, che favoriscano il riscatto a medio termine degli alloggi anche in collaborazione con istituti bancari”.
Istituti bancari che ricorrono al mutuo fondiario e alle agevolazioni fi scali previste dall’art. 19 comma 3 del Dpr 29 settembre 1973 n. 601, ancora in vigore, il quale prevede “l’imposta sostitutiva ridotta alla metà per i mutui concessi dagli istituti di credito fondiario a Istituti Autonomi per le case popolari e a cooperative edilizie in conformità alle disposizioni degli artt. 147 e 148 del Testo unico sull’edilizia popolare ed economica approvato con R.D. 28 aprile 1938, n. 1165”. Esercizio del credito fondiario che il Testo unico bancario (art. 38) ha concesso a ogni banca, estendendo di conseguenza l’imposta agevolata, dagli istituti di credito fondiario a tutti gli istituti di credito.
La legge del nuovo ‘mercato interno’ del lavoro immigrato sembra così aver aggiunto un nuovo triangolo: quello tra permesso di soggiorno, lavoro regolare ed edilizia pubblica. Ora manca all’appello un solo triangolo: quello tra permesso di soggiorno, lavoro regolare e incentivi economici.
Incentivi economici all’assunzione di immigrati: i ‘lavoratori svantaggiati’
La crisi economica ha colpito tanto i lavoratori italiani quanto quelli stranieri. Come abbiamo visto nella parte precedente dell’inchiesta, per salvare i propri utili l’imprenditoria nostrana è ricorsa al plusvalore derivante dalle assunzioni stagionali e dallo strumento della cassa integrazione, facendo scattare una legge di ‘mercato interno’ utile al ‘mercato ufficiale’.
Qualcuno, arrivati a questo punto, potrebbe tentare di confutare lo sfruttamento socioeconomico della catalogazione regolare/irregolare del lavoratore immigrato, facendo notare come sì, gli stranieri in cassa integrazione ci sono andati, e che sì, hanno anche preso l’indennità di mobilità, mentre molti lavoratori italiani precari sono stati semplicemente lasciati a casa.
Per non tralasciare quella che potrebbe rivelarsi un’altra tecnica, utile alle imprese, per drenare profitto nel gioco del ‘mercato interno’/‘mercato ufficiale’, vediamo cosa dice il rapporto di Italia Lavoro a proposito della mobilità.
La legge 23 luglio 1991 n. 203 definisce la mobilità come un’indennità spettante, in misura percentuale, “del trattamento straordinario di integrazione salariale che [i lavoratori] hanno
percepito ovvero che sarebbe loro spettato nel periodo immediatamente precedente la risoluzione del rapporto di lavoro” (art. 7). La durata varia in base all’età, e in genere non può superare l’anzianità lavorativa maturata, cosa che per i lavoratori extracomunitari, collocati stagionalmente, diventa irrisoria.
La legge, comunque, prevede anche una norma fondamentale per il diritto alla mobilità, fondamentale più per l’azienda che per il lavoratore: “Il diritto di precedenza all’assunzione” del lavoratore in mobilità rispetto al lavoratore semplicemente disoccupato (art. 8). Un diritto per il lavoratore di essere assunto con contratto a termine non superiore ai dodici mesi, un diritto per l’azienda di pagare il lavoratore con un salario pari a quello degli apprendisti. “Beneficio contributivo” che l’azienda può godere per un ulteriore anno nel caso decida di assumere a tempo indeterminato il lavoratore in mobilità, in aggiunta a un altro contributo pari, per ogni mensilità di retribuzione, “al cinquanta per cento della indennità di mobilità che sarebbe stata corrisposta al lavoratore”.
Tornando al rapporto di Italia lavoro, possiamo capire quanto questo dato diventi interessante nel momento in cui lo si relaziona con le statistiche che dicono come, a partire dal 2000 –e ancora di più nel 2009, anno di inizio della crisi – il numero degli stranieri beneficiari della mobilità sia aumentato in modo esagerato rispetto agli italiani (vedi tabella 3).
La ‘tecnica’ della mobilità, oltretutto, trasferisce l’extracomunitario in un’altra classificazione, quella dei ‘lavoratori svantaggiati’, che già comprende gli italiani ma che potrebbe assumere tutt’altre dimensioni con gli sviluppi occupazionali qui trattati.
Sotto questa ‘categoria’ rientra chiunque non lavori regolarmente e non percepisca uno stipendio da almeno sei mesi; chiunque non possegga un diploma di scuola media superiore o professionale; i lavoratori con più di cinquant’anni, o gli adulti che vivono soli, o con una o più persone a carico; chi lavora in aziende con tasso di disparità uomo/donna di almeno il 25%; e i membri di una minoranza nazionale che debbono integrarsi culturalmente e professionalmente (5). Lavoratori o inoccupati portatori di incentivi economici alle imprese che li assumono, incentivi che lo Stato versa, nel caso di loro assunzione, inserimento, o reinserimento nel mercato del lavoro, tramite agenzie oppure cooperative (6 ), le quali devono prevedere appositi piani, ma anche apposite convenzioni, con gli operatori pubblici.
Per la provincia di Trento (7), per esempio, il contributo varia dai 7mila ai 15mila euro per lavoratore, e viene erogato all’azienda richiedente entro due anni, con rate posticipate, subordinate alla durata della collaborazione col lavoratore svantaggiato.
Questione diversa quella del sud Italia. È necessario tornare al già citato Decreto sviluppo 2011 nel quale, oltre ai benefici immobiliari, troviamo anche quelli per il credito d’imposta, utili a promuovere le nuove assunzioni a tempo indeterminato e quindi la produttività nel territorio.
Un credito, fatte salve le disposizioni delle leggi in materia di aiuti ai lavoratori svantaggiati, pari al 50% dei costi salariali dei 12 mesi successivi all’assunzione (che diventano 24 per i lavoratori molto svantaggiati, ovvero disabili fisici, mentali o psichici [8] privi di lavoro da almeno 24 mesi), calcolato sulla differenza tra i lavoratori occupati a tempo indeterminato dell’anno e la media degli occupati a tempo indeterminato nei dodici mesi precedenti. Le risorse a cui il decreto attinge sono quelle del Fondo sociale europeo e del Fondo europeo di sviluppo regionale, “versate all’entrata del bilancio dello Stato, e successivamente riassegnate per le suddette finalità di spesa”.
Ma nel Mezzogiorno c’è davvero bisogno di questi aiuti? Oppure servono solo per far invidia alla Lega nord? Stando al Rapporto immigrazione 2011, il numero degli occupati italiani nel Mezzogiorno (2009-2010) è sceso di 5,7 punti percentuali, contro un aumento di quelli stranieri (2008-2010) pari a 33 punti percentuali; ma analizzando insieme occupati italiani e stranieri, la contrazione maggiore si è avuta proprio al Sud: meno 4,5 punti percentuali tra il 2008 e il 2010.
Ai Fondi europei così previsti dal Decreto sviluppo, dunque, è doveroso aggiungere anche il progetto ‘Rete dei servizi per la prevenzione del lavoro sommerso’, promosso dal ministero del Lavoro e realizzato proprio da Italia Lavoro s.p.a: 4,5 milioni di euro destinati all’edilizia, ai servizi e all’agricoltura, per la prevenzione del lavoro sommerso di immigrati irregolari nel Mezzogiorno; 3.000 tirocini per disoccupati e inoccupati (60% extracomunitari, 40% comunitari) e un contributo, per oneri di attivazione, pari a 200 euro mensili, con importo massimo per tirocinante di 400 euro (per i quali, invece, è prevista una borsa di studio di 550 euro).
Italia Lavoro non è nuova a questo genere di iniziative. Già nel 2007 si era fatta promotrice di un piano di reinserimento di lavoratori immigrati (REI), commissionato dal ministero del Lavoro, a beneficio di Lombardia, Veneto e Campania.
Un progetto che, per sua stessa dichiarazione, non interveniva direttamente sul lavoro nero, ma veniva utilizzato come strumento di prevenzione al lavoro nero: gli incentivi previsti dal piano, sempre a favore delle aziende e non del lavoratore, erano pari a 5.000 euro, al lordo di ritenute fiscali, per ogni lavoratore assunto con contratto a tempo indeterminato e 1.500 euro per i contratti a tempo determinato (9).
Mai mercato del lavoro fu così ghiotto di iniziative, incentivi e beneficiari, ed è tutto merito di quello status irregolare attivato involontariamente, di sicuro inconsapevolmente, dal corpo dell’immigrato nel momento in cui tocca il suolo italico.
Preoccupazione della Commissione europea a parte, quindi, pare evidente come il nostro sia un paese spinto, a ragion veduta, in materia di integrazione, anche se un dubbio permane: è la capacità dello straniero a integrarsi nella nostra società a spostarlo nella catalogazione da irregolare a regolare? Oppure è una normativa che sembra nata ad hoc per il mercato del lavoro, che stabilisce una linea di confine di soli due anni tra l’occupazione e il precariato? (Linea di confine che diventa invalicabile per qualsiasi extracomunitario voglia ottenere la cittadinanza, non per discendenza, non per matrimonio, ma per aver risieduto sul territorio dello Stato per almeno cinque anni.)
Sovvengono due risposte.
La prima la troviamo nel rapporto di Italia Lavoro: “Il malfunzionamento del sistema delle quote e il frequente ricorso a sanatorie, testimoniano il fatto che è più semplice per un immigrato ottenere lo status di regolare se questi è già presente nel Paese anziché per un potenziale migrante che cerchi di ottenere l’accesso al mercato del lavoro italiano dal proprio Paese di origine. La maggior parte di irregolari deriva da una condizione di visa overstayers cioè di persone che non hanno lasciato l’Italia allo scadere del loro visto d’ingresso”.
La seconda risposta arriva dall’ennesimo battibecco Maroni vs. Malmstrom, risalente ad aprile scorso, col quale il commissario europeo ha espresso tutta la sua disapprovazione alla firma del governo sulla “libera circolazione nell’area Schengen” dei cittadini immigrati.
Un permesso di soggiorno temporaneo a fini umanitari che nel versante italiano sa tanto di ‘migrazione economica’, essendo gli stranieri entrati nel territorio dello Stato non come richiedenti asilo ma come richiedenti lavoro, e quindi destinati a rientrare brevemente nel loro Paese. La direttiva, invece, dovrebbe occuparsi di chi, per veri motivi umanitari, nella propria terra non ci può tornare.
Del resto: “La concezione materialistica della storia parte dal principio che la produzione e, con la produzione, lo scambio dei suoi prodotti sono la base di ogni ordinamento sociale; che, in ogni società che si presenta nella storia, la distribuzione dei prodotti, e con essa l’articolazione della società in classi o stati, si modella su ciò che si produce, sul modo come si produce e sul modo come si scambia ciò che si produce. Conseguentemente le cause ultime di ogni mutamento sociale e di ogni rivolgimento politico vanno ricercate non nella testa degli uomini, nella loro crescente conoscenza della verità eterna e dell’eterna giustizia, ma nei mutamenti del modo di produzione e di scambio; esse vanno ricercate non nella filosofia, ma nell’economia dell’epoca che si considera” (10).
(1) I fondi della riscossione “indicano le variazioni delle entrate in attesa di contabilizzazione relative ai tributi erariali, all’Irap destinata alle Regioni e ai contributi sociali destinati all’Inps versati per il tramite della delega unica”; rif. Supplementi al bollettino statistico: indicatori monetari e fi nanziari, Banca d’Italia Eurosistema
(2) Cfr. https://www.inps.it/portale/default.aspx?NewsId=777
(3) Cfr. La ricca economia della carcerazione, Giovanna Cracco, Paginauno n. 14/2009 e Il business dei rifugiati politici con i soldi dei Fondi europei, Davide Corbetta, Paginauno n. 23/2011
(4) Cfr. http://www.federconsumatori.it/news/wysiwyg_news/newseditor/ComunicatiMostra.asp?nid=20110326103420
(5) Regolamento CE N. 800/2008 della Commissione, del 6 agosto 2008, articolo 18
(6) Cfr. http://www.inps.it/portale/default.aspx?sID=0%3B5773%3B6118
(7) http://www.agenzialavoro.tn.it/aziende/incentivi/incentivi_economici _provinciali
(8) Regolamento CE N. 800/2008 della Commissione, del 6 agosto 2008, articolo 19
(9) Dati del ministero del Lavoro, della salute e delle politiche sociali, relazione: Il ruolo dei servizi per l’impiego per l’emersione del lavoro irregolare
(10) Cit. da Antidühring, Friedrich Engels