di Sabrina Campolongo |
Recensione di Tempi stretti, Ottiero Ottieri
Ottiero Ottieri. Chi era costui? Malgrado il nome dal profumo ottocentesco, si tratta di un contemporaneo, nato nel 1924 e morto nel 2002. E, se anche la maggioranza degli italiani oggi non l’avesse mai sentito nominare, Ottieri ha pubblicato qualcosa come trenta libri, tra romanzi, saggi e poesia, e con editori quali Einaudi, Bompiani e Guanda. Il suo primo romanzo, Memorie dall’incoscienza, è stato scelto nientemeno che da Elio Vittorini, che ha poi pubblicato, tra i suoi ‘Gettoni’ anche Tempi stretti, da poco ripubblicato – e meno male – da Hacca. Ma, nella sua lunga carriera, Ottieri ha abbracciato con slancio sempre nuovo molte realtà diverse, tanto che, più se ne sa, più si leggono i suoi libri, più è difficile rispondere alla domanda iniziale. Chi è, davvero, Ottiero Ottieri? Il giovane dannunziano, lo scrittore industriale, il mondano Salottiero Salottieri (come si era ribattezzato da solo) “devoto al vuoto” (nei versi di Franco Fortini), l’intellettuale marxista, il bipolare, lo studioso di psicanalisi, il poeta quasi confessional, il saggista sociale, l’alcolista, l’eremita, il pornografo, l’egocentrico, il comunista, lo sperimentatore instancabile?
Forse è proprio per l’impossibilità di etichettarlo, che Ottieri viene troppo spesso dimenticato, quando si enumerano le grandi voci italiane del Novecento. I cani sciolti, gli outsider non convincono, innervosiscono, non gli si perdona di spostarsi troppo in fretta, mettendo in apprensione i critici e chi da loro si lascia docilmente guidare.
Lo scrittore dell’incertezza, della costante messa in discussione, del dubbio insanabile, del corpo a corpo carnale e rabbioso con il reale, forse ancora mette a disagio chi preferisce la linea di pensiero diritta e senza sbavature (e chi si è preso decisamente più sul serio), mentre proprio nella complessità, che sfugge alla classificazione sta, a mio parere, la straordinaria unicità di Ottieri dentro la realtà di un secolo schizofrenico, contraddittorio, inquieto e inquietante.
Pochi hanno saputo, quanto e come lui, con tale spietato coraggio e lucidità, mostrare lo stretto intreccio tra sofferenza privata e male pubblico, mostrare come nella dolorosa irrealtà quotidiana la de-personalizzazione vada a braccetto con l’alienazione. Precorrendo, molto spesso, i tempi, come se il suo corpo sensibilissimo manifestasse in anticipo i sintomi dei mali che avrebbero infettato la società, o forse la sua mente fosse troppo lucida per ignorare quello che la maggioranza dei suoi contemporanei poteva lasciare ai margini del proprio campo visivo.
Ottieri ha scritto di dolore e di tossicodipendenza, di nevrosi e di alcolismo, con cognizione di causa, ma senza traccia di retorica o di compiacimento. Le sue storie sono di una tristezza scoppiettante, di un’allegria mestissima. Sono storie non arrese, da cui emerge un’attenzione verso la vita rabbiosa e vorace, inesausta e inesauribile.
Il corpo è, nei romanzi e nella poesia di Ottieri, il termometro sensibilissimo infilato nel cuore o nel fegato di ogni evento, dal fascismo all’avvento della Lega Nord, alla “discesa in campo” di Berlusconi, allo strapotere della televisione, il corpo ne è inquinato, ne è affetto, si adatta e/o si ribella con solenni crisi di rigetto. L’inevitabile disincanto, figlio di una visione così lucida da far girare la testa, non sconfina mai nel nichilismo, né sul versante privato né su quello pubblico, l’appetito di vita non viene guastato dall’insensatezza della stessa, la nausea sartriana non toglie la fame.
Tempi stretti, scritto nel 1957 e definito uno dei prototipi della ‘letteratura industriale’ fa parte della prima produzione di Ottieri, e del suo momento più dichiaratamente ‘impegnato’. Si vede nettamente il tentativo di analizzare e fotografare la società a partire da quello che, all’epoca, era considerato il punto di vista più interessante e nuovo: l’interno delle fabbriche, in cui stava germinando il movimento operaio. La modernità della visione di Ottieri, rispetto alla letteratura militante, sta proprio nel fatto di non riuscire a essere dogmatica o didattica, nel suo rifiuto di ignorare la contraddizione per costruire una coerenza forzata, a colpi di semplificazioni. Ottieri rifiuta “con un colpo di calcagno” la dialettica tra determinismo sociale e determinismo individuale, in cerca di aria pura, così come rifiuta “le categorie dell’affettività bassa sotto le forme alte del pensiero” (1). Come afferma egli stesso: “Con antica vocazione ricordo di aver scoperto, da un tempo incalcolabile, le passioni e i patimenti occhieggiare narcisisticamente dietro le ragioni” (2).
Non può sfuggire che Ottieri, pur avendo identificato nella classe operaia il soggetto e destinatario del suo messaggio, finisca per rivolgersi, di fatto, a quella fetta di borghesi infelici, dilaniati, smarriti e inquieti di cui egli stesso è parte, ma, proprio in Tempi stretti, si vede, con estrema chiarezza, come quella sorta di confusione non sia dovuta soltanto all’occhio dell’intellettuale che osserva, ma si stia aprendo nella coscienza di sé della stessa classe operaia. Tra gli operai alla catena di montaggio e i borghesi ‘padroni’, ritratti nei loro salotti pubblici e nei loro vizi privati, si sta formando, già negli anni ’50, quella nuova classe sociale che è diventata l’attuale maggioranza silenziosa: quella degli incagliati, dei prigionieri eterni nell’anticamera tra il proletariato industriale e la piccola borghesia, lontani tanto dai valori degli uni che dai privilegi degli altri.
Ottieri rileva, in modo disincantato e realistico, l’assurda spinta che porta gli sfruttati – che si vedono restringere sempre di più i tempi per compiere lo stesso, ripetitivo, alienante e spesso pericoloso gesto – a immedesimarsi nel padrone-padre, che si arricchisce sul loro lavoro, il quale trascorre, è vero, nel suo ufficio in fabbrica gran parte delle sue giornate, ma non si nega piacevoli pause con amanti sempre più giovani e pretenziose, avvolto dall’aura di invidia venata di ammirazione della sua “grande famiglia” di sottopagati sottoposti.
Un’invidia non malevola, quasi sognante, non lontana da quella che spinge oggi folle di guardoni sui moli di Porto Cervo, a sospirare ammirando i lussuosi yatch e immaginandosi – con il prezioso supporto di giornali scandalistici e format pomeridiani televisivi – la vita irraggiungibile che si svolge a bordo.
Dalle prime pagine di Tempi stretti è subito evidente che il mito del lavoro nobilitante è pienamente introiettato e condiviso; gli operai della Alessandri sono grati al padrone che li sfrutta, tanto che il problema che a un certo punto scalderà gli animi non è quello della disumanità del passare otto (ma anche nove o dieci) ore al giorno a infilare lo stesso pezzo di metallo sotto a una pressa, con il fiato sul collo di controllori e cronometristi che periodicamente
abbattono di qualche secondo il tempo minimo per finirlo, no, su quello nessuno emette un fiato. La ribellione e la minaccia di sciopero scattano soltanto quando l’ingegner Alessandri, il padre-padrone, fa capire che potrebbe vendere “la grande famiglia” a un gruppo più grosso, aprendo così la prospettiva di ridimensionamenti del personale. Gli operai allora, e solo allora, si sentono traditi. Solo poche settimane prima si celebravano le ‘nozze d’argento’ della Alessandri, con tanto di lapis d’oro consegnati ai primi, fieri, dipendenti e discorso in cui l’ingegner Alessandri aveva affermato, con umiltà degna del Mega Direttore Galattico fantozziano: “La nostra azienda è una grande famiglia. Io non sono che la guida di essa, quindi, se permettete, sono un po’ il vostro padre. Cura naturale di un padre sarà sempre di non lasciar soli i suoi figli”.
Sarebbe facile sorridere di questa identificazione quasi commovente, del senso di appartenenza di questi ‘felici e sfruttati’, che felici non sono, tutt’altro, solo troppo stanchi e alienati per accorgersene, che oggi potrebbe apparire datato. Sarebbe facile, e sbagliato, trattare questa storia alla stregua di un documentario su un passato ormai archiviato, ignorando il nuovo volto e i nuovi modi della stessa alienazione: consumatori che si riconoscono
nel ‘sogno’ di chi ha costruito un impero generando in loro sempre nuovi e futili bisogni (e che piangono la morte di Steve Jobs come quella di un nuovo Messia), le enormi fila dei lavoratori ‘intellettuali’ che quasi si vergognano a domandare di essere pagati per quello che farebbero (e spesso fanno) anche gratis, gli impiegati che escono dall’ufficio alle nove di sera anche se gli straordinari non sono remunerati, in nome di una necessaria flessibilità, i pendolari ammassati in treni fatiscenti e perennemente fuori orario che si infuriano con i manifestanti che ritardano il loro ingresso sul posto di lavoro o il loro meritato momento di abbuffata di modelli e di messaggi dalla scatola magica in salotto.
Nel 1975, Edgar Doctorow scriveva, nel suo romanzo Ragtime: “Come mai le masse si permettono di farsi sfruttare da pochi? La risposta è: lasciandosi persuadere a identificarsi con loro”. Ottiero Ottieri ci mostra la nascita, proprio dentro le fabbriche, nello stesso humus che farà fiorire, nel giro di pochi anni, la rivolta operaia, di quella classe di mezzo, che già vive – con stipendio proletario – drammi e arrovellamenti tipicamente borghesi, dilaniata tra sterile frustrazione e speranza di riuscire – per un giro della fortuna – a far coincidere la proiezione con la realtà.
Il personaggio che meglio incarna questa evoluzione è probabilmente la giovane Emma, che arriva dalla campagna, dove non c’era lavoro per lei, e si trasferisce in città nello stesso appartamento in cui vive anche Giovanni, ospite di un comune amico.
Il primo impatto con la fabbrica viene descritto come traumatico. “Né prima né dopo capì che cosa accadesse intorno a sé nella distesa di macchine, attraverso la bassa selva dei reparti. Certo nessuno glielo spiegò mai: l’avevano portata al suo posto di peso. […] Ogni macchina utensile veniva alimentata da un cavo elettrico pendente dal soffitto: quelle liane ancora di più imbrogliavano la vista, insieme all’apparente confusione della sala, oscuravano il cielo a sega e l’aria già tenebrosa. Del resto molte operaie, sedute sul seggiolino, si sentivano chiuse dopo anni in mezzo a un bosco aggrovigliato dove ognuno bada a se stesso o al massimo ai propri vicini. […] Emma pativa, si annoiava nella fabbrica; si domandava ogni quarto d’ora: rimarrò a questo posto tutta la vita? Rimpiangeva l’aria del suo paese; una notte non le bastava più per riposarsi dalla fatica, schiacciata sulla noia”.
Al tentativo di Giovanni di placarla: “Lo so, ti sembra d’essere finita in mezzo al mare. Bisogna che ci fai l’abitudine. Poi sarai contenta”, Emma replica, esasperata: “Io non mi abituerò mai, io sono diversa”.
Eppure, poco a poco, la ragazza è ammansita, addomesticata dalla ripetizione costante del lavoro, dal ritmo imposto dalla macchina e dall’organizzazione, dall’abitudine progressiva al rumore – “diventò un po’ sorda di orecchie, di corpo e di anima” – alla luce fioca, alla polvere, ai volti spesso impenetrabili dei colleghi, ma, quello che la fa davvero “ingranare” sul lavoro è la distrazione che si prende nella sfera privata, quando si butta in una relazione con Giovanni. Pur sapendo, da ragazza concreta qual è, che la storia non avrà le prospettive sperate, e che il gap sociale tra loro diventerà sempre più profondo, finché lui sposerà una ragazza di buona famiglia lasciandola sola e ‘disonorata’, Emma si lascia andare a questo appetito di vita come a una droga che le permette di stare in piedi, di sopravvivere anche alla pressione mortale della fabbrica, così come fanno diversi colleghi e colleghe, consumando rapporti più o meno clandestini negli uffici vuoti e nei bagni, quasi una forma di resistenza privata che, paradossalmente, ottiene l’effetto di renderli più produttivi e affezionati alla fabbrica.
Così come, sembrerebbe, Giovanni partecipa alle riunioni sindacali, senza correre nessun rischio, in concreto, ma “da osservatore”, vicino agli operai più per una forma di umanesimo romantico che per reale convinzione.
Come in una strategia ben congegnata, la fine della storia con Giovanni non uccide Emma, ma cancella del tutto la sua diversità, rendendola una pedina perfetta della catena produttiva che l’ha ormai assimilata. La fabbrica cessa di essere un incubo, ed è il tempo che passa fuori, ora, ad angosciarla, con le sue infinite possibilità che sembrano spingerla con violenza a scegliere, con i rimpianti che diventano sempre meno laceranti e più melodrammatici, e la tentazione costante della paralisi. Quando la nuova amica, Anna, sbotta, all’apice di un noioso pomeriggio festivo: “Ci si diverte più in fabbrica”, Emma, che avrebbe strabuzzato gli occhi solo qualche mese prima, può comprenderla. “Per questo, per non pensare”, si disse, “Anna vorrebbe tornare subito allo stabilimento”.
A questo punto il cerchio si chiude: la fabbrica diventa quasi terapeutica, uno psicofarmaco contro l’angoscia che essa stessa ha, almeno in parte, creato, un alibi perfetto per giustificare la propria infelicità, il meccanismo esterno per sfuggire al dramma esistenziale.
Intanto, Giovanni può continuare ad amoreggiare sia con le idee comuniste che con le prospettive di crescita professionale. La sua origine, la sua cultura e il suo carisma lo esentano dalla scelta: lui non ha una famiglia numerosa e disagiata da mantenere con il proprio stipendio, può permettersi di stare a guardare. “La mia è una politica per modo di dire, io sono un tecnico…
soltanto un tecnico” si giustifica, a un certo punto, con il marchese che lo ha identificato, seppure con il rispetto dovuto a un pari, come un “nemico”, per via delle sue idee politiche.
Come Emma, anche Giovanni non sa scegliere, più per orrore della scelta in sé che per timore delle conseguenze, sembrerebbe. Infatti i due alla fine si incontrano, l’una promessa sposa a un uomo che nemmeno le piace, ma pronta a restare l’amante dell’altro, l’altro che cercherà di restare rappresentante sindacale ma anche di fare carriera, e che forse un giorno si definirà, magari con parole meno retoriche e con partecipazione un po’ più sincera, “padre” di un’altra “grande famiglia”.
È divertente ricordare che Italo Calvino rimproverava a Ottieri, alla vigilia della pubblicazione di Tempi stretti, la tristezza di fondo del romanzo. “Che gli operai siano anche gente allegra e le fabbriche anche una via di libertà non si vede”, gli scriveva.
Un’osservazione candidamente borghese, molto più di quanto lo sia il punto di vista di Ottieri, che pure visse la fabbrica – la Olivetti, nel suo caso – dall’alto di un ufficio, esattamente come accade al suo protagonista, Giovanni, ma che forse, impegnato per tutta la vita a mettere in discussione tutto, a cominciare da se stesso, riuscì a percepirla anche con gli occhi delle persone costrette alla catena per anni interi.
Quello che potrebbe apparire un limite di Tempi stretti, il suo fallimento come manifesto, la sua indeterminatezza, l’osservazione della caduta senza arrivare sul fondo del baratro, fermandosi prima dello schianto oppure del salvataggio, è il motivo per cui vale ancora la pena, oggi, di leggerlo. Nella prosa di questo primo Ottieri “di carne triste”, per dirla con Calvino, ci sono molti spunti di riflessione ancora attualissimi.
Nei passaggi che narrano delle assemblee sindacali, riportate in modo quasi documentaristico, si evidenzia già la resistenza, anche delle fasce più attive dei lavoratori, contro chi puntava il dito direttamente contro il sistema, in favore di istanze che andavano più nella direzione di aggiustamenti interni al capitalismo stesso; si assiste al prevalere di invidie e recriminazioni tra operai che “stanno meglio” e altri in posizioni più precarie, e alla dispersione di energie che caratterizza il classico schema della guerra tra poveri.
C’è da augurarsi che questa riedizione del romanzo di Ottiero Ottieri porti a una riscoperta di questa importante quanto scomoda voce del Novecento; che si torni a cercare in libreria il folle, lucidissimo Poema osceno o il divertentissimo, tristissimo Una irata sensazione di peggioramento, o ci si decida a ripubblicare libri ora introvabili come I due amori.
Ottieri condivide con molti grandi quell’intima coerenza che travalica le ideologie – con il rischio di strumentalizzazioni da più fronti – e non li fa mai appartenere fino in fondo al loro tempo, situandoli semmai, anche a decenni di distanza, sempre un po’ troppo avanti.
(1) Cit. L’irrealtà quotidiana, Ottiero Ottieri, ed. Guanda pag. 95
(2) Ibidem
Tempi stretti, Ottiero Ottieri, Hacca, 2012