Nascoste tra le norme anti-immigrati, le nuove leggi per reprimere il conflitto sociale generato dalla crisi economica
Nel marzo scorso l’amministrazione di Bologna è nuovamente al centro di un’accesa polemica. Per promuovere un seminario organizzato dal Comune stesso e dalla Casa delle donne sul tema della violenza di genere, l’assessore alla Scuola e alle Politiche delle differenze, Milli Virgilio, allega alla mail di invito l’immagine di una locandina originale del Ventennio: vi si ritrae un uomo di colore – con volto dai tratti scimmieschi, mani artigliate e cappellaccio a penzoloni sulle spalle che fa tanto ‘campi di cotone’ – che aggredisce una donna dal viso sfigurato per lo sforzo di sfuggire alla presa violenta; sotto, a caratteri cubitali, la parola “difendila!” e ancora: “Potrebbe essere tua madre, tua moglie, tua sorella, tua figlia”.
A parte l’emblematica scelta di una locandina dell’epoca fascista, a parte il becero approccio maschilista – che se poteva essere ‘normale’ nel Ventennio oggi avvilisce, mostrando quanta poca strada sia stata fatta verso una parità di genere perlomeno concettuale (l’esortazione è evidentemente rivolta al ‘maschio’ e la donna, la cui identità esiste solo legata a un ruolo – è madre o moglie o sorella o figlia – può al massimo aspirare alla protezione dell’uomo, non difendersi da sola) – ciò che più sconcerta è l’immagine che il manifesto rimanda dello straniero: selvaggio, violento, stupratore. In linea, tuttavia, con la massiccia campagna mediatica anti-immigrati che ormai da più di un anno riempie le pagine della stampa, i telegiornali e le trasmissioni televisive. E che a scegliere una simile locandina sia una giunta locale a maggioranza Pd rivela, se mai ci fossero ancora dubbi, quanto l’approccio xenofobo e razzista non appartenga più all’ideologia di destra ma sia divenuto politicamente trasversale.
Una campagna mediatica tesa a creare un’opinione pubblica che sostiene e avalla i vari decreti sicurezza, una campagna di marketing perfettamente riuscita, possiamo concludere oggi: gli italiani chiedono a gran voce leggi più severe e certezza della pena, un nuovo codice penale che sbatta i ‘criminali’ in carcere e butti via la chiave.
Tuttavia, in prigione non finiranno solo, o soprattutto, gli immigrati. La politica della tolleranza zero è in realtà lo strumento attraverso il quale la classe dirigente, politica ed economica, si sta organizzando per tutelarsi da una ben altra, possibile e futura, situazione di pericolo. L’ultimo rapporto dell’Ocse reso pubblico nel marzo scorso, prevede che a fine 2009 la disoccupazione nei trenta ricchi Paesi membri supererà il 10%: quello che il potere teme sono i conflitti sociali. Tensioni che la mancanza di rappresentanza politica rischia di rendere più aspre.
Quando, dopo le ultime elezioni, la sinistra si ritrovò estromessa dal Parlamento, l’immediata reazione dei vincitori – e dei vinti del Pd – fu contraddittoria: soddisfazione per essersi tolti di torno un problema, e preoccupazione per la paura che, lontana dai giochi di potere e non avendo quindi nulla da perdere, la sinistra potesse tornare in piazza e guidare la protesta civile che la crisi economica avrebbe potuto far nascere. Timori ben presto rientrati, rassicurati dalla totale inconcludenza di Rifondazione comunista e compagni che dopo essersi leccati le ferite han subito preso a guardarsi l’ombelico, a litigare fra loro, a preoccuparsi di superare almeno la soglia di sbarramento delle elezioni europee per non perdere anche quei fondi pubblici.
Stessa preoccupazione è nata nei confronti della Cgil, che il padronato e il governo da una parte cercano di isolare e dall’altra si tengono ben stretta, quale unica forza in grado di contenere e convogliare gli umori di piazza dentro confini moderati, attendisti, controllabili. Ma non si può fare affidamento solo sulla capacità del maggiore sindacato di essere ancora la cinghia di trasmissione tra il capitale e la forza lavoro, anche perché in periodi di crisi il primo non è disposto a concedere nulla alla seconda; al contrario, mira a sfruttarla maggiormente, proprio per ricavare dal taglio del costo della manodopera la redditività perduta. Mentre la politica, con il suo apparato legislativo, si occupa di reprimere le possibili conseguenti proteste.
I primi a essere colpiti dalla crisi economica sono stati gli immigrati; e all’alba della recessione, è esplosa la politica del pugno di ferro. Una florida economia capitalistica – se mai possiamo definire florida l’economia italiana prima del crollo finanziario iniziato con i subprime – necessita di manodopera a basso costo da sfruttare nell’industria manifatturiera: quei clandestini che la Bossi-Fini contribuiva a far rimanere tali. L’avvento della crisi li ha resi non più necessari.
Tuttavia i flussi migratori non si possono arrestare a comando, ancora meno nel corso di una recessione mondiale. Uomini e donne ora ‘superflui’ al sistema produttivo, da rimandare indietro nella miseria e nelle guerre da cui sono venuti; nel frattempo, da rinchiudere in un carcere per il solo atto di aver toccato il suolo nazionale, senza un foglio di carta che lo permettesse, e lì trattenerli, visto che appioppargli semplicemente un foglio di via non basta a liberarsene. Ecco allora la messa in opera di quella sapiente e graduale campagna mediatica di cui la locandina razzista di Bologna è solo un tassello: prima è stato puntato il fuoco sui reati minori commessi dagli stranieri – furti, spaccio di droga – poi si è alzato il tiro criminalizzando un intero popolo – i ‘romeni’ dell’omicidio Reggiani e i ‘rom’ degli stupri di Primavalle e della Caffarella. Cotti a fuoco lento, assimilato il nuovo archetipo dell’immigrato-criminale, gli italiani sono oggi pronti per accettare il prolungamento della reclusione in un Cie fino a sei mesi – proposto già nel dl 11/2009 – e la creazione del reato d’immigrazione clandestina, contenuto nel ddl 733/2009.
Decreti legge e disegni di legge, i due citati e il dl 92/2008, che cavalcando sapientemente la rabbia e l’indignazione pubblica scatenate dai fatti di cronaca hanno funzionato anche da perfetto cavallo di Troia per inserire, tra una norma anti-immigrati e l’altra, ben altri articoli. Quando si dice due piccioni con una fava. Perché se i lavoratori italiani appaiono affetti da cecità, razzismo, nazionalismo, le classi dirigenti al contrario ci vedono benissimo e gli ‘ismi’ sanno come ben manovrarli per i propri interessi.
Così, del decreto legge 92 del maggio 2008, emanato approfittando dell’emotività scatenata dall’ennesimo incidente automobilistico mortale – il caso Vernarelli, due ragazze uccise – il cittadino ha applaudito all’istituzione di pene più severe per chi si rende colpevole di incidenti stradali, è rimasto indifferente alla nuova norma che prevede il carcere per chi affitta appartamenti a immigrati clandestini, e non ha riflettuto sulla nascita della figura del sindaco-sceriffo, al quale è ora consentito di emanare “provvedimenti contingibili e urgenti al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana”; dove ‘prevenire’ è la parola chiave.
La norma ‘in prevenzione’ non necessita, per essere emanata, di alcuna situazione pericolosa; essa si muove nel campo dell’aleatorio e dunque è, in potenza, un meccanismo repressivo quasi assoluto. Fino a oggi, comportamenti minacciosi per l’incolumità pubblica sono stati ritenuti la prostituzione (il 16% dei provvedimenti emessi), la somministrazione e il consumo di bevande alcoliche (il 13,6%), il vandalismo (il 10%) e l’accattonaggio (l’8,4%); domani, che cosa sarà ritenuto ‘pericoloso’ da un sindaco divenuto “ufficiale del Governo” e a cui sono state attribuite “funzioni di competenza statale”?
Alemanno già ha mostrato a Roma che cosa ritiene minaccioso per la sicurezza urbana, firmando il 10 marzo il Protocollo per la disciplina delle manifestazioni e, appena qualche giorno dopo, consentendo alla polizia di impedire a suon di manganellate agli studenti della Sapienza di uscire dall’ateneo e unirsi all’iniziativa della Cgil per la scuola, proprio in nome del nuovo regolamento sui cortei. Vero che per farlo non ha avuto bisogno della nuova autorità riconosciutagli dal dl 92; quella la utilizzerà per altro, si può supporre.
La medesima dinamica ha caratterizzato il decreto 11 del febbraio 2009: chiamato anche legge anti-stupri, nato sull’onda della rabbia per gli ultimi fatti di violenza sessuale, ne sono stati evidenziati pubblicamente solo gli articoli che prevedono un inasprimento delle pene per i reati di violenza sessuale, l’istituzione del reato di stalking, il prolungamento fino a sei mesi della reclusione in un Cie e la nascita delle ronde private. Gli ultimi due provvedimenti hanno avuto vita dura per essere approvati in Parlamento, e sono stati traslocati nel ddl 733. Mentre l’opinione pubblica affamata di sicurezza pare non chiedersi se le ronde, dal vago sapore fascista, si accontenteranno di dare la caccia solo agli immigrati, pur decapitato anche questo decreto ha passato il vaglio delle due Camere con il suo articolo tenuto ben lontano dalla luce dei riflettori: i comuni, in nome della “tutela della sicurezza urbana”, possono “utilizzare sistemi di videosorveglianza in luoghi pubblici o aperti al pubblico” e conservare i dati raccolti per sette giorni, “fatte salve speciali esigenze di ulteriore conservazione”.
Non più solo strade, dunque, ma spazi chiusi, anche privati; il codice definisce ‘luogo aperto al pubblico’ quello nel quale chiunque può accedere liberamente nel rispetto di determinati orari (apertura/chiusura) o osservando determinate condizioni, come il pagamento di un biglietto (un teatro, un cinema, uno scompartimento di un treno). Questo significa che al di fuori delle nostre case, saremo tenuti costantemente sotto controllo. Italiani, stranieri, clandestini: tutti.
E significa anche che i dati video raccolti dal Comune, fino a oggi a bassa definizione perché utilizzabili al solo scopo di controllo del traffico e come deterrente contro gli atti vandalici – mai per attività di indagine e di tutela della sicurezza – avranno ora le medesime caratteristiche tecniche e le stesse finalità di quelli in uso da polizia e carabinieri.
Ma la proposta di legge più articolata è la 733, meglio nota come pacchetto sicurezza. Anche di questa sono noti solo i provvedimenti che rendono più difficoltosa la regolarizzazione degli immigrati ‘superflui’: la tassa di 200 euro per la richiesta di cittadinanza, il reato amministrativo d’immigrazione clandestina punibile con un’ammenda da 5.000 a 10.000 euro, la tassa da 80 a 200 euro per il permesso di soggiorno, il carcere da uno a quattro anni per lo straniero che, colpito da decreto d’espulsione, non lasci il territorio, l’istituzione di un Accordo articolato per ‘crediti’ connesso a specifici obiettivi di integrazione da conseguire nel periodo di validità del permesso di soggiorno e la cui perdita integrale determina la revoca del permesso e l’espulsione immediata.
Coperti da una colposa indifferenza dei media sono invece rimasti gli altri articoli della legge, dal preoccupante sapore cautelativo contro la futura piazza e miranti a creare nuove figure di ‘criminali’ autoctoni.
L’articolo 1 reintroduce il reato di “oltraggio a pubblico ufficiale” – già abrogato nel 1999 – e ne innalza anche la pena: reclusione fino a tre anni, quando la decaduta legge precedente ne prevedeva al massimo due. Può esserne accusato chiunque “offende l’onore e il prestigio di un pubblico ufficiale mentre compie un atto d’ufficio […]. La pena è aumentata se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato”. È evidente il carattere repressivo della norma e altrettanto chiare le circostanze nelle quali sarà più facilmente applicata: manifestazioni e scontri di piazza. Il semplice insulto torna a essere motivo di carcerazione e le ingiurie, in determinate situazioni, fioccano; anche per bocca di pacifiche madri che protestano contro la riforma Gelmini.
L’articolo 7 dà disposizioni “concernenti il reato di danneggiamento” – anche questo tipico delle manifestazioni – e l’articolo 8 prevede il carcere da un mese a un anno – due anni in caso di recidiva – per il reato di “deturpamento e imbrattamento di cose altrui”: i writers, per intenderci. Si può supporre che della norma farà immediatamente tesoro la giunta di destra milanese che in meno di un anno ha cancellato due volte il murales in memoria di Davide Cesare, detto Dax, ucciso a coltellate da tre neofascisti nel 2003.
L’articolo 38 richiama pericolosamente in causa il decreto legge 625/1979 poi divenuto legge 15/1980, che tanto utile fu alla costruzione priva di prove del teorema Calogero nel processo del 7 aprile; occorre fare un passo indietro, per meglio comprendere.
La tesi dell’accusa, che permise di tenere reclusi gli imputati per più di quattro anni in regime di carcerazione preventiva – vale la pena ricordare che il teorema Calogero non superò i tre gradi di giudizio – poggiava su concetti come “il concorso morale”, “l’essere in procinto di”, “il fine terroristico al di là dello scopo immediatamente perseguito” e accusava tutti gli indagati di “reati associativi”, sulla base del pregiudizio di esistenza di un’unica “organizzazione”, attribuendo a ogni singolo tutti i crimini contestati oggetto del procedimento anche quando, circostanze logistiche oggettive, rendevano impossibile la personale presenza dell’indagato e quindi la sua partecipazione al fatto specifico.
Oggi, l’articolo 38 della legge 733 prevede che, in caso di “un delitto consumato o tentato con finalità di terrorismo” e qualora sussistano elementi che “consentano di ritenere che l’attività di organizzazioni, di associazioni, movimenti o gruppi favorisca la commissione dei medesimi reati, può essere disposta cautelativamente […] la sospensione di ogni attività associativa”. Qui le parole chiave sono due: ‘cautelativamente’, che altro non è che un sinonimo di quel ‘preventivo’ già incontrato, e ‘favorisca’ – non ‘commetta’, non ‘tenti’. Sembrerebbe addirittura un passo avanti rispetto al teorema Calogero: che cosa rientra, infatti, nell’azione del ‘favorire’? Favorire è diverso anche dall’istigare. Sostenere a parole una causa – per esempio il diritto di sciopero che Sacconi vuole, a conti fatti, eliminare (1) – dalle pagine di una rivista, equivale a favorire qualcuno che, in futuro, in difesa di quel diritto leso potrà decidere di compiere un reato contro lo Stato? E dunque, in via ‘cautelativa’, l’attività della rivista stessa, cioè la pubblicazione, può essere sospesa?
A questa nuova norma, in un logico ragionamento, si può collegare l’articolo 60 della stessa legge 733 che prevede, “per delitti di istigazione a delinquere o a disobbedire alle leggi (tutte le leggi, dalla cacca del cane che sporca il marciapiede all’omicidio, n.d.a.), ovvero per delitti di apologia di reato […] in via telematica sulla rete internet, […] l’interruzione dell’attività indicata, ordinando ai fornitori di connettività alla rete di utilizzare gli appositi strumenti di filtraggio necessari a tal fine”. Gli stessi fornitori di servizi internet divengono poliziotti della rete, obbligati dal comma 4 dello stesso articolo a “eseguire l’attività di filtraggio” che, “entro sessanta giorni dalla data di pubblicazione della presente legge il ministro dello Sviluppo economico, di concerto con i ministri dell’Interno e per la Pubblica amministrazione e l’innovazione, individua e definisce”.
Davvero, il recente passato dell’Italia e la dinamica del processo agli intellettuali e ai giornalisti del 1979, non fanno ben sperare.
Fin qui, le norme volte a reprimere e gestire la protesta. Resta quel dato sulla disoccupazione; restano milioni di persone – italiani e immigrati regolari – che perderanno il lavoro, in una società sempre più priva di stato sociale. Che farne?
Sempre il pacchetto sicurezza contiene l’articolo 42 e l’articolo 50 che prevedono, rispettivamente, che “l’iscrizione e la richiesta di variazione anagrafica siano subordinate alla verifica, da parte dei competenti uffici comunali, delle condizioni igienico-sanitarie dell’immobile in cui il richiedente intende fissare la propria residenza, ai sensi delle vigenti norme sanitarie” e l’istituzione, presso il ministero dell’Interno, di “un apposito registro nazionale delle persone che non hanno fissa dimora”.
La scusa di un controllo igenico-sanitario, che tutela il cittadino, in realtà introduce l’impossibilità ad avere la residenza per tutti coloro che, impoveriti dalla crisi economica, finiranno per abitare chissà dove e in quali condizioni. È di marzo la notizia che negli Stati Uniti nascono sempre più tendopoli: intere famiglie buttate fuori dalle case di cui non riescono più a pagare il mutuo finiscono a vivere per strada, sotto una tenda. E di certo un semplice telo sopra la testa non supera il ‘controllo igenico-sanitario ai sensi delle vigenti norme’. Non è cosa da poco: alla residenza è legata l’assistenza sociale – ammortizzatori e pensioni – e sanitaria – escluse le prestazioni di pronto soccorso, riconosciute per legge a chiunque. Un bel risparmio, per le casse dello Stato. Alla residenza è legata la possibilità di lavorare in regola; un bel risparmio, per gli imprenditori.
Fino a oggi, la legge 1228 del 1954 riconosceva a tutti i cittadini italiani, senzatetto compresi, il diritto a prendere la residenza nel comune del domicilio o nel comune di nascita; prevedeva addirittura l’obbligo a richiedere la residenza nel luogo in cui si abita.
Privati prima di una casa, e poi della residenza, il passaggio successivo è la schedatura nel registro dei senza fissa dimora presso il ministero; e quello sarà davvero l’ultimo nonluogo dal quale il cittadino non potrà più tornare, un limbo molto simile a quello attualmente riservato agli immigrati clandestini. Perché con residenza a Roma, e abitante magari sotto un ponte a Milano, o a Napoli, o a Bologna, il novello senzatetto non avrà alcun ufficio in città al quale andare a bussare per avere quel minimo di assistenza sanitaria e sociale che ancora – per il momento – la legge gli concede.
A tutti questi cittadini italiani resterà l’alternativa (!) della delinquenza per sopravvivere. A coloro ai quali la crisi non riserverà lo spettro della povertà, privilegiati con un lavoro e una casa, resterà l’alternativa di scendere in piazza a protestare, e rischiare l’arresto, o chiudersi in casa a godere della propria fortunata situazione. A coloro che si organizzeranno in movimenti, associazioni, che useranno la rete per denunciare questa e altre leggi, e magari ‘istigheranno a disobbedire’ mentendo sulla residenza, e poi favoriranno la nascita di un movimento che lotti contro tutto questo, non resterà alternativa: saranno accusati di ‘favorire’ un reato contro lo Stato.
Ma quale Stato? Quali leggi?
(1) Libertà del lavoro… o dei lavoratori?, Erika Gramaglia, PaginaUno n. 13/2009