Sabrina Campolongo
Recensione de L’onore perduto di Katharina Blum, Heinrich Böll
L’onore perduto di Katharina Blum potrebbe essere il titolo di un feuilleton di fine Ottocento, leggendolo la prima volta ho immaginato una fanciulla per bene ingiustamente diffamata, ma alla fine difesa a spada tratta, nello scontato lieto fine, da un cavaliere senza macchia, che la riabilita agli occhi del mondo recuperando l’onore e, presumibilmente, sposandosela.
Il titolo è forse la prima pennellata ironica con cui Heinrich Böll colora il suo breve romanzo, ma è innegabile che Katharina Blum possieda molte doti che farebbero di lei la perfetta eroina di un romanzo d’appendice: è giovane e bella, ma anche “una persona molto riservata, quasi prude in campo sessuale”, il che, considerato che il romanzo non è ambientato a fine Ottocento ma nel 1972, la rende quasi una rarità, una donna d’altri tempi e senza grilli per la testa, fin troppo seria, quasi fredda, per alcuni. Una persona inattaccabile, si direbbe, da un punto di vista scandalistico almeno, eppure la storia si apre con un assassinio di cui Katharina Blum si dichiara colpevole: quello del giornalista del Giornale – che Böll dichiara già nel risvolto di copertina essere inevitabilmente affine, nelle strategie e nella prassi giornalistica, a quelli del gruppo Bild – colpevole di averla diffamata.
Va ricordato, a tal proposito, che proprio in quegli anni la cosiddetta Boulevardpresse e in particolare il Bild e gli altri giornali del magnate della stampa Axel Springer conducevano una martellante campagna contro i ‘nemici dello stato’, ‘assetati di sangue’, e i loro ‘fiancheggiatori’ invocando misure sempre più restrittive della libertà, incoraggiando la delazione e giustificando metodi sempre più duri di inquisizione, contribuendo attivamente a creare un clima di caccia alle streghe in nome di un’emergenza nazionale, vistosamente sovradimensionata, come denunciò lo stesso Böll in più occasioni.
L’onore perduto di Katharina Blum si configura quindi come la sua denuncia in prosa, un pamphlet, dalla sua stessa definizione, ispirato, tra le altre, alla vicenda del professor Peter Brückner, docente di psicologia di Hannover, sospeso dal proprio incarico e pesantemente diffamato dalla stampa (in special modo dai giornali di Axel Springer) per avere ospitato per una notte la vecchia conoscente Ulrike Meinhof, cofondatrice, come è noto, della Rote Armee Fraktion, o banda Baader-Meinhof. Böll si era anche espresso sul caso di Ulrike Meinhof e sul modo violento e ingannatore in cui i mass media l’avevano dipinta al fine di coinvolgere “nel potere esecutivo tutto il pubblico con i suoi istinti, per non dire altro, incontrollabili”, in una celebre lettera pubblicata sul quotidiano Spiegel il 10 gennaio 1972, in cui affermò tra le altre cose che “anche il signor Springer dovrebbe essere processato pubblicamente per istigazione a delinquere”.
Il filo della trama, ne L’onore perduto di Katharina Blum, viene dipanato a ritroso, usando l’espediente narrativo di una cronaca giudiziaria – a volte citando direttamente la fonte delle informazioni, altre volte facendo riferimento a misteriosi informatori, ma sempre dando l’illusione di una scarna ricostruzione dei fatti – che lascerà, alla fine, soltanto pochissime tessere incomplete nel puzzle della vicenda, tessere che il lettore non faticherà a mettere al loro posto senza un grande sforzo di immaginazione, grazie agli strumenti fornitogli dal narratore. Seguiamo quindi la caduta dell’irreprensibile segretaria Katharina Blum, rea di aver accolto in casa sua un uomo conosciuto soltanto poche ore prima, durante un ballo in maschera per il carnevale, rivelatosi poi ricercato dalla polizia per rapine in banche e sospettato di terrorismo – accusa, quest’ultima, che alla fine verrà a cadere – e di averlo aiutato a fuggire. È proprio la condotta, fino a quel momento fin troppo decorosa, della Blum, che depone dal primo momento a suo sfavore, essendo così poco credibile il fatto che una come lei possa aver accolto tra le sue braccia uno sconosciuto, che la struttura mentale degli investigatori non può partorire che due ipotesi: o Katharina Blum mente, quindi conosceva quell’uomo, un certo Ludwig Götten, da ben prima di quella notte, oppure Katharina Blum non è la santarellina che vuole far credere. Il colpo di fulmine non è inserito nei manuali di investigazione, né alcun altro impulso irrazionale, se non quello omicida, sembrerebbe.
In ogni caso, oltre agli interrogatori senza troppi riguardi della polizia, Katharina Blum – che è onesta ma non ingenua, ed era consapevole di mettersi contro la giustizia, aiutando il suo “grande incontro” a darsi alla fuga – deve fronteggiare un attacco ben più violento e imprevisto: quello del Giornale, che la prende di mira, trasformandola in un caso da copertina. La vita di Katharina viene fatta a pezzi e riconfezionata in salsa piccante, la sua privacy impunemente stuprata, a partire da fughe di notizie dagli organi investigativi che non vengono, a loro volta, investigate, la verità subdolamente manipolata, la parola usata come un’arma iniqua, contro chi non ha alcun mezzo per difendersi. Il giornalismo fatto di titoloni infamanti e accuse senza prove, basate sul luogo comune e sulla volgarità, trasformano la segretaria troppo seria in una donna dall’oscuro passato, fredda e calcolatrice, complice di comunisti assassini, che ha abbandonato la vita modesta che poteva darle un onesto marito per i lussi pagati con il crimine, che non si degna nemmeno di andare a trovare sua madre – madre che lo stesso Giornale cita a momenti come una povera vecchina ammalata, in altri, a seconda della convenienza, come la donnaccia che si ubriacava in sagrestia con il vino rubato alla messa e si abbandonava a orge con i suoi molti amanti. Il fatto che si tratti solo di menzogne, che in parte contraddicono se stesse, non intacca, in ogni caso, la credibilità del Giornale, che tutti leggono e da cui il popol(in)o impara cosa pensare.
A seguito della massiccia e inarrestabile campagna di diffamazione, Katharina si vede recapitare ogni genere di missive, dalle proposte oscene agli epiteti di “troia dei comunisti”, dai cataloghi di biancheria sexy alle minacce dirette.
Dapprima furiosa e incredula, la giovane donna scivola poi in uno stato di lucida chiusura, un isolamento nel quale medita l’unica vendetta alla sua portata, l’assassinio di chi ha ingiustamente e spietatamente puntato contro di lei la pistola dell’opinione pubblica, il giornalista Werner Tötges.
Nel frattempo, altri personaggi escono elegantemente dalla faccenda, grazie al loro danaro e ai loro appoggi politici. Alois Sträubleder (un industriale che secondariamente fa anche il professore e il manager di partito), sposato ma così invaghito della Blum da averle regalato un anello di valore e la chiave della sua casa di montagna – che lei ha accettato su sua insistenza ma non ha mai usato, finché non le è tornata utile per offrire un rifugio all’uomo di cui si è innamorata – è riuscito, per esempio, a far scomparire dal Giornale tutti i riferimenti al “misterioso visitatore maschile” di Katharina, che porterebbero a lui, e a uscirne pulito, nonostante Götten sia stato alla fine arrestato nella sua stessa casa di vacanza. Katharina invece non ha amicizie politiche influenti, né mezzi per comprare il silenzio di chi la sta facendo a pezzi e Böll, tramite la sua precisa ma mai fredda cronaca, ci conduce, assieme a lei, alla conclusione che la sua unica arma è una pistola.
Soltanto l’intervento di uno Stato davvero di diritto potrebbe impedire il gioco al massacro, ma è evidente che quel genere di stampa è molto più funzionale al sistema conservatore di quanto lo possa incidentalmente nuocere, per imprevedibili occasionali errori di mira.
L’onore perduto di Katharina Blum è scritto come antitesi e parodia allo stesso tempo della prosa giornalistica che vi si denuncia. Il narratore, rivolgendosi ai lettori come un abile affabulatore, promette stretta aderenza ai fatti e annuncia ogni digressione scusandosene, come un inconveniente fastidioso ma inevitabile, mentre finge di sospendere il giudizio verso tutti i personaggi e chiede addirittura perdono per ogni riferimento al sangue o alla violenza.
La costruzione è così verosimile che, leggendo qualche opinione di lettura online, se ne trovano di diversi lettori che sono caduti nell’inganno della ‘storia vera’ e non si sono resi conti che di un’opera di invenzione, comunque, si tratta. Sotto la facciata della cronaca si cela uno straordinario romanzo, in cui ogni dettaglio che ci viene rivelato in modo solo all’apparenza casuale, concorre a costruire una solida impalcatura, e nulla è lasciato al caso.
Lo sguardo ironico e feroce di Heinrich Böll, come un faro potente, rischiara tutte le incongruenze e le falsità che sfuggono alla pubblica opinione condizionata dai distrattori di massa, per usare la definizione di Noam Chomsky, mentre semina all’interno della narrazione gli elementi che inquadrano la vicenda nella giusta prospettiva.
Il Giornale, per esempio, mette in bocca all’ex marito di Katharina Blum una dichiarazione secondo la quale la donna “mirava in alto”, aggiungendo “come volete che un onesto, umile lavoratore, si faccia una Porsche?”, facendo riferimento all’auto che Götten guidava la sera della sua sparizione, e che aveva rubato nel pomeriggio, ma il lettore sa che lo stesso giornalista che ha scovato il ‘marito affranto’ guida una Porsche, guadagnata, si presume, con il suo onesto lavoro. Così come è arcilussuosa l’auto dell’industriale, incidentalmente anche candidato politico innamorato, Alois Sträubleder, raggiunto dalla notizia dello scandalo che potrebbe – ma non sarà così, naturalmente – travolgerlo, proprio mentre si trova a essere relatore in un congresso di imprenditori cattolici.
E non si può non sorridere amaro, leggendo che Katharina, in carcere, seminerà il terrore tra gli amministratori, proprio per la sua nefasta fama di onestà e intelligenza, quando si sparge la notizia che sarà assegnata al ramo economia.
Si può dire che Böll combatta la sua battaglia contro la cattiva informazione sul suo stesso terreno, dimostrando di padroneggiare tecniche di manipolazione della parola estremamente più raffinate. Alla parola violenta e faziosa contrappone quella leggera e rispettosa, ai grotteschi spauracchi sventolati dalla stampa e introiettati senza farsi domande dai suoi lettori, oppone una gamma di sfumature e di percorsi individuali, scandagliati con delicatezza chirurgica, a mostrare che nessuno rientra perfettamente in alcuna definizione, alla presunta violenza sbandierata contrappone la vera violenza strutturale di una società che spinge i suoi cittadini verso la violenza fisica, disarmandoli di ogni altro mezzo di opposizione, a cominciare dalla parola.
Ci ricorda lo stesso professor Peter Brückner (1), accusato ingiustamente di fiancheggiare i terroristi – ignorando le sue parole pubbliche contro la lotta armata come mezzo – e per questo ostracizzato fino alla fine dei suoi giorni, che la gestione del diritto di parola è l’elemento su cui si fonda il potere dello Stato autoritario, esattamente come avviene nella famiglia autoritaria, in cui ai bambini non è concesso parlare. Fin dalle prime domande che le vengono rivolte, è evidente che Katharina Blum non può esprimersi in sua difesa, né con i poliziotti, che le chiedono solo di confermare una verità già scritta per lei, né di fronte ai tassisti, ai vicini di casa, ai negozianti e alle casalinghe tedesche, che l’hanno già condannata, sulla base di ciò che acriticamente assorbono dai giornali.
La sua chiusura e la violenza fisica che ne scaturirà sembrano la naturale conseguenza della violenza che è costretta a subire nella sfera pubblica e privata e da cui nessuno, tanto meno lo Stato, la tutela.
La cattiva stampa è per Böll il sicario del potere, il suo compito quello di esacerbare l’odio e di giustificare la repressione e la sospensione dei diritti individuali. Böll si preoccupa anche di spazzare via l’attenuante del qualunquismo commerciale, la pretesa di colpire ciecamente nel mucchio in cerca soltanto di scoop che possano far crescere le vendite, mostrandoci come i feroci cani da caccia dei giornalisti d’assalto diventino teneri barboncini al guinzaglio dei politicanti come Sträubleder.
Oltre che per il suo valore letterario, l’opera di Böll resta tristemente attuale anche per la questione che denuncia, che dovrebbe essere al centro delle preoccupazioni di chiunque voglia dirsi intellettuale oggi, a maggior ragione in Italia. Se si cerca un esempio vicino, si possono leggere i molti articoli apparsi recentemente sui grandi quotidiani italiani dopo il funerale dell’ex militante delle Brigate rosse Prospero Gallinari, in cui i giornalisti, salvo rarissime eccezioni, non fanno che sfoderare le stesse frasi fatte e parole a effetto impiegate dai loro colleghi un quarantennio fa, mancando ancora una volta l’occasione di tentare una seria analisi su ciò che è accaduto veramente negli anni ‘70 e sulle motivazioni di coloro che allora imbracciarono le armi, o anche dei nuovi volti che, al tempo poco più che bambini o nemmeno nati, si sono ritrovati, nel 2012, ai funerali di Prospero Gallinari.
A quei giornalisti, ma soprattutto ai loro lettori, farebbe bene rileggere Heinrich Böll, e anche la sua concittadina Christa Wolf, quando ci ricorda che il desiderio compensatorio di violenza fiorisce nelle zone inesplorate del passato e che “ciò che non è stato elaborato, pensato, espresso, espiato e capito genera continuamente il male” (2).
L’onore perduto di Katharina Blum, Heinrich Böll, Einaudi, 1975
(1) Cfr. P. Brückner, Stato autoritario e movimenti alternativi in Germania, Einaudi, 1982
(2) C. Wolf, Un giorno all’anno. 1960-2000, Edizioni E/O