Come e perché Comuni Province e Regioni si sono trasformati in giocatori d’azzardo; la speculazione con i soldi pubblici e l’indebitamento con le banche
Milena Gabanelli l’ha definito, in una vecchia puntata di Report, “un problema da mal di testa”, e in effetti cercare di capire quali trucchi nascondano i contratti derivati sottoscritti dagli enti locali con le grandi banche (nazionali e non), è davvero una sfida al limite del possibile. La questione di fondo è invece abbastanza chiara: comuni, province e regioni, o perché bisognosi di racimolare fondi a fronte dei tagli ai bilanci sempre più consistenti, o per difendersi dai rischi di aumento dei tassi di interesse sui soldi presi in prestito – tramite mutui o emissioni di titoli obbligazionari – hanno deciso, in quest’epoca di finanza creativa e su suggerimento dei grandi istituti di credito (soprattutto Unicredit fino al 2007, ma anche Merrill Lynch, Deutsche Bank, Ubs e altre ancora), di ricorrere a strumenti finanziari complessi.
Che cosa sono i derivati
I derivati sono titoli il cui valore dipende (deriva) dall’andamento di un indicatore finanziario di riferimento (detto ‘sottostante’), quale il tasso d’interesse, le valute, gli indici di borsa, oppure le merci (oro, petrolio, soia, alluminio, cotone, succo d’arancia ecc.). A seconda di come sono costruiti sull’attività sottostante (tecnicamente la loro ‘struttura’), i derivati prendono nomi diversi: per esempio futures su indici di borsa, options su singole azioni, swap su tassi d’interesse o valute, e così via.
Per quel che riguarda gli enti locali, il derivato per eccellenza è lo swap (letteralmente ‘scambio’) sui tassi d’interesse. Lo swap consente di sostituire il tasso d’interesse fisso, che le amministrazioni pagano su un certo capitale preso a prestito (bond, obbligazioni oppure mutui), con un tasso di interesse variabile, o viceversa. In periodi di tassi crescenti, infatti, risulta avvantaggiato chi ha acceso prestiti a tasso fisso, mentre in ipotesi di tassi decrescenti, risulta favorito chi si è indebitato a tasso variabile. Le amministrazioni quindi possono trovarsi, a un certo punto – come qualsiasi privato che abbia sottoscritto un mutuo o un finanziamento – nella condizione di pagare tassi più elevati rispetto a quelli di mercato, su debiti sottoscritti nel passato.
Più lunga è la scadenza del prestito, più diventa difficile immaginare i futuri andamenti dei tassi di interesse: chi lo sa cosa potrebbe succedere ai mercati fra cinque, dieci, vent’anni? Le banche quindi propongono agli enti locali uno swap ‘a copertura’ (cioè come assicurazione) dai rischi delle dinamiche dei tassi: se tu (ente locale) sei indebitato a tasso variabile per una data cifra e temi un rialzo dei tassi, puoi sottoscrivere un contratto swap con me (banca) per lo stesso importo, in cui tu sostituisci il tuo tasso variabile con un tasso fisso e io continuo al posto tuo a pagare gli interessi variabili. Periodicamente io ti verserò l’importo degli interessi a tasso variabile e tu mi verserai l’importo degli interessi a tasso fisso: se i tassi di mercato superano il tasso fisso che abbiamo concordato, ci guadagni tu, mentre se scendono sotto quel tasso, ci guadagno io.
Ovviamente questa operazione ha un costo (una commissione, che va pagata all’intermediario, ossia alla banca, ossia sempre a me), e in teoria presuppone percezioni opposte sull’andamento dei tassi di mercato da parte dei due soggetti sottoscrittori del contratto. Nella realtà, le banche non sono così trasparenti, o così ingenue, e qui cominciano i mal di testa della Gabanelli. I contratti che gli enti locali hanno sottoscritto in quest’epoca di finanza creativa sono riedizioni dello swap molto più complesse, in cui la funzione di copertura sparisce per lasciare il posto a quella speculativa: la banca propone una scommessa a più strati (‘strutturata’), formata da diversi contratti, in cui per esempio (e semplificando molto), se i tassi di mercato si mantengono all’interno di un intervallo prefissato (poniamo tra il 3% e il 5%) il guadagno per l’ente locale è nullo, se salgono oltre il limite superiore (il 5%) ci guadagna l’ente, se scendono sotto il limite inferiore (il 3%) ci guadagna la banca. È evidente che la convenienza complessiva dell’operazione dipenderà da dove vengono fissati i livelli di soglia, e da quanto stretti sono i ‘corridoi’ in cui l’ente locale guadagna e quanto ampi quelli in cui guadagna la banca; corridoi espressi sui contratti da formule matematiche complesse.
Per prezzare questi derivati strutturati (cioè per valutarne l’utilità economica), bisogna innanzitutto scomporli nelle varie componenti e successivamente testarli in base a ogni possibile andamento dei tassi: solo così è possibile evidenziare su grafici quanto ampie sono le possibilità di perdita a fronte di quelle di guadagno. Purtroppo i software che servono a effettuare il pricing di uno strumento finanziario complesso costano centinaia di migliaia di euro, e sono molto pochi i soggetti (solo le grandi banche, alcune società di consulenza specializzate e le società di rating) che posseggono le competenze necessarie per valutare a tutto tondo un derivato strutturato. E Unicredit, Ubs, Merrill Lynch e soci, su questa disparità informativa ci hanno fatto conto, facendo firmare ai loro incompetenti (o collusi?) clienti istituzionali contratti che nella quasi totalità dei casi costituiscono un cappio al collo delle già impoverite amministrazioni. Con quali risultati?
Le dimensioni del fenomeno
Secondo i dati più recenti pubblicati da Bankitalia, sono quasi 500 gli enti locali che, a fine marzo 2009, utilizzavano strumenti derivati: 13 regioni, 28 province e 440 comuni.
Tra la fine del 2005 e la fine del 2007, sulla base dei dati tratti dalla Centrale dei rischi, il numero di enti che utilizzava strumenti derivati, quasi sempre swap di tasso di interesse, è fortemente aumentato, da 349 a 669, per scendere a 474 a fine 2008. Per quanto riguarda la distribuzione geografica, le amministrazioni con una maggiore esposizione in derivati sono quelle campane (229 milioni), seguite da quelle del Piemonte e del Lazio (rispettivamente 185 e 126 milioni). Il valore nozionale, cioè il valore complessivo del capitale sul quale sono calcolati gli interessi che si scambiano le due controparti (enti locali e banche), sulla base delle segnalazioni statistiche di vigilanza è cresciuto a ritmi sostenuti negli anni scorsi, passando da circa 0,1 miliardi di euro alla fine del 2000 a circa 33 miliardi alla fine del 2006; nel marzo 2009 il valore nozionale era pari a 24,5 miliardi.
I valori di mercato negativi, cioè le perdite che gli enti locali dovrebbero versare alle banche se le operazioni in essere dovessero essere chiuse alla data di rilevazione, sono passati da circa 2 milioni a fine 2000 a quasi 1,1 miliardi alla fine di marzo 2009. L’esposizione più rilevante è quella dei comuni (0,6 miliardi), seguita da quella delle regioni (0,4 miliardi) e delle province (0,1 miliardi). E ci sono già i primi morti: per citare solo due casi, il comune di Taranto è fallito, e l’Ici che i suoi cittadini pagano è destinata interamente a ripianare i conti con le banche; quello di Napoli, già fallito nel 1996, è ancora sull’orlo del baratro.
Allora perché gli enti locali continuano a firmare questi contratti?
Ci sono tre motivi fondamentali.
Il primo è che, quando l’ente non riesce più a far fronte ai suoi impegni con le banche, invece di fermarsi e salvare il salvabile apre nuovi contratti sempre più onerosi per cercare di recuperare le perdite; secondariamente, incredibile a dirsi, le perdite su derivati possono non essere segnalate a bilancio; e terzo, le banche offrono spesso sostanziosi anticipi in contanti alle amministrazioni che sottoscrivono queste formule iperspeculative, somme che consentono agli enti locali di continuare a erogare servizi ai cittadini anche quando i soldi non ci sono. Ma cerchiamo di capire meglio.
Il banco vince sempre
Nello swap, come abbiamo visto, i due contraenti si impegnano a versarsi reciprocamente a scadenze prestabilite gli interessi maturati sul debito (gli uni calcolati secondo i tassi variabili di mercato e gli altri a un tasso fisso predeterminato), e il guadagno dell’operazione sta nella differenza fra questi due importi. Se è l’ente locale a pagare di più, come succede nella quasi totalità dei casi (le operazioni sono strutturate proprio per questo), quando le somme da sborsare diventano impossibili da saldare la banca propone all’ente di sostituire il vecchio contratto con uno nuovo, che incorpora fin dall’inizio tutte le perdite maturate (e ne prospetta di ulteriori), ma le spalma su una scadenza più lunga, diminuendo l’importo della rata periodica. In soldoni, è quel che accade quando una famiglia sostituisce un mutuo ventennale con uno trentennale: la rata da pagare diminuisce ma la somma da rimborsare aumenta.
Ma, a differenza di quel che accade con il mutuo sulla casa, nel caso dei derivati strutturati la somma da rimborsare cresce in modo imprevedibile: può raddoppiare, triplicare, sfuggire completamente al controllo. E di nuovo, quando le rate ritornano insostenibili, si presenta la banca offrendo un altro contratto, che gli amministratori firmano nella speranza che le condizioni di mercato cambino e questa volta siano gli istituti di credito ad avere la peggio.
È la sindrome del giocatore d’azzardo, che si indebita sempre di più contando sul fatto che, prima o poi, la fortuna deve girare, senza considerare che, purtroppo, il banco vince sempre. Ma, come è logico, l’unico effetto reale è quello di posticipare le perdite in là nel tempo, facendole pesare sulle generazioni future, e soprattutto, visto che il mandato degli amministratori pubblici scade nel giro di pochi anni, ciò che si ottiene per certo è di farle pagare a una giunta diversa.
Fondi che affondano
La seconda ragione che rende estremamente appetibile il mercato dei derivati è la possibilità, fino alla scadenza del contratto, di non mettere a bilancio le eventuali perdite. Le regole sui bilanci pubblici italiani non prevedono nulla in tal senso (forse il legislatore non si aspettava che le amministrazioni speculassero con i soldi pubblici, e come dargli torto), e di conseguenza non si trova una voce in cui contabilizzare le perdite maturate (che sono presunte fino alla scadenza o alla chiusura anticipata del contratto, quando diventano improvvisamente reali). Questo fatto ha solleticato l’appetito degli intermediatori finanziari della City, che si sono riversati in massa sul promettente mercato italiano. Il risultato è che le (magre) finanze degli enti locali nascondono potentissime bombe a orologeria destinate prima o poi a esplodere, obbligando le amministrazioni a pagare un importo stimato fino a oggi (ma destinato a crescere nel futuro) in più di un miliardo di euro. E così i soldi che i cittadini verseranno a comuni, province e regioni sotto forma di tasse, invece di essere impiegate per gli ospedali, gli asili e le metropolitane, a causa dell’incompetenza (ma sarà davvero incompetenza?) delle giunte, serviranno solo ad arricchire i colossi finanziari.
Ma c’è di più e di peggio, e questo peggio ha di nuovo un nome inglese: si chiama sinking fund. È l’autunno del 2002 quando la regione Lombardia, già guidata da Roberto Formigoni, emette un bond da un miliardo di dollari con scadenza nel lontano 2032. Ad aiutare il Pirellone ci sono Ubs e Merrill Lynch. La legge consente a un ente locale di indebitarsi a lunga scadenza ma – per evitare di lasciare sulle spalle delle generazioni future l’onere di un così oneroso rimborso – impone che venga creato una specie di piano di ammortamento. In pratica la regione deve costruire un grosso salvadanaio in cui mettere, nell’arco dei trent’anni, tutti i soldi necessari per far fronte al rimborso finale. Questo salvadanaio si chiama appunto sinking fund (letteralmente fondo che affonda).
Stranamente il sinking fund non viene creato dalla regione investendo direttamente le somme necessarie in tranquillissimi titoli di Stato – sarebbe troppo semplice e, si potrebbe malignare, poco remunerativo per le banche. Il sinking fund lo creano le stesse banche che contemporaneamente curano l’emissione del bond. La Lombardia stipula due contratti derivati con Ubs e Merrill Lynch e si impegna a versare loro il denaro secondo un piano di ammortamento prestabilito, denaro che le due banche investono in varie obbligazioni. L’aspetto sorprendente è che, posto che il sinking fund deve garantire alla regione solo la restituzione di un miliardo nel 2032, tutto il rendimento aggiuntivo lo incassano le banche; viceversa, nel caso che il fondo faccia investimenti sbagliati e che qualche bond vada in default, il danno è tutto della Lombardia. Un meccanismo geniale: le banche hanno rendimenti senza rischi, mentre la Lombardia ha rischi senza rendimenti.
Il giochino è stato denunciato da Il Sole 24ore nel giugno 2009 in un articolo a firma Morya Longo, e prospetta scenari inquietanti: il giornale, con documenti ufficiali alla mano, è in grado di provare che le due banche hanno inserito nel sinking fund della Lombardia titoli che loro stesse avevano emesso per conto di altre regioni o società. Ubs nel 1998 aveva curato un’emissione obbligazionaria per conto della regione Lazio, un bond trentennale per 250 milioni di euro. Ebbene: 80 milioni di euro di quel bond sono stati messi pochi anni dopo, dalla stessa Ubs, nel sinking fund della regione Lombardia. Stessa cosa con obbligazioni della Sicilia: nel 2000 la regione aveva emesso un bond da oltre 2 miliardi di vecchie lire – con l’aiuto di Merrill Lynch – per finanziare “certi progetti infrastrutturali” e per coprire il disavanzo del 1999. E due anni dopo la stessa Merrill Lynch ha piazzato 45,5 milioni di quel bond nel sinking fund della Lombardia. Morale: senza neppure saperlo, la Lombardia ha finanziato le infrastrutture siciliane e quelle del Lazio.
E di esempi ce ne sono molti altri. Warburg Dillon Read (poi diventato Ubs) nel 2002 aveva aiutato la Grecia a indebitarsi per 200 milioni di euro, e ha poi messo 115 di quei 200 milioni nel sinking fund della Lombardia. Merrill Lynch ci ha invece piazzato 34 milioni di obbligazioni del Land del Baden-Wurttemberg; operazione anch’essa curata dalla stessa Merrill Lynch nel 1993. Questi dati risalgono a fine 2007, ma nel frattempo poco è cambiato.
Bene inteso: nessuna legge è stata violata. Il problema è che l’operazione appare fatta più nell’interesse delle banche che in quello della Lombardia; l’impressione è che Ubs e Merrill Lynch abbiano usato il sinking fund come una sorta di discarica per titoli che non erano riuscite a vendere a investitori bene informati. Come scrive Longo, non ci sono prove, ma il sospetto è legittimo.
La vicenda lombarda è simile a quella di altre regioni. Fonti consultate sempre dal Sole 24ore rivelano che nel sinking fund della Puglia – creato dalla stessa Merrill Lynch nel 2003 – sono stati collocati i bond di diversi comuni italiani (per esempio Firenze), di alcune province (per esempio Roma) e di varie regioni (per esempio Lazio). Anche il sinking fund della Liguria – riferiscono fonti bene informate – è pieno di bond di altri enti locali. Insomma: senza che nessuno se ne accorgesse, poche banche hanno creato una rete inestricabile che ha legato i destini di regioni, province e comuni in un’unica grande ragnatela. Una situazione quanto meno ambigua, tanto è vero che sul bond della Lombardia sta indagando il pm di Milano Alfredo Robledo e su quello della Puglia il pm Francesco Bertone.
Ma anche a prescindere da una valutazione penale, ci sono due questioni su cui soffermarsi a riflettere. La prima è il conflitto d’interessi: se le banche mettono nel sinking fund di una regione i bond che loro stesse hanno emesso per altre regioni (pur scegliendoli all’interno di un paniere concordato), è ragionevole domandarsi nell’interesse di chi fanno questa scelta. Per loro ci sono infatti triplici guadagni: quelli per le due emissioni e quelli sul rendimento del sinking fund. Ma per la regione?
C’è poi un rischio ancora più preoccupante, quello che gli esperti definiscono sistemico: se è vero che gli enti locali difficilmente vanno in fallimento (ma qualche volta ci vanno), è certo che se anche una sola di queste amministrazioni avesse problemi, le sue difficoltà si allargherebbero
a macchia d’olio in tutta Italia. Perché gli impegni presi sui mercati finanziari vanno onorati, e se gli enti locali non possono pagare dovrà farlo lo Stato, oppure le banche, e se anche loro non avranno le somme necessarie sarà il collasso. Proprio quel che è successo in Grecia, in Spagna, in Irlanda e in Portogallo. E non a caso, durante la crisi greca dello scorso anno i titoli bancari più tartassati sul mercato borsistico nazionale sono stati quelli dell’Unicredit, la banca italiana più esposta in contratti derivati con gli enti locali.
Ma l’agenzia Moody’s (la principale agenzia mondiale di rating) rassicura (!), dichiarando in una recente conferenza stampa che il rischio di un contagio sistemico fra amministrazioni legato ai derivati, nonostante il crescente numero di controversie giudiziarie in merito, è basso. Tuttavia, l’agenzia ha declassato il comune di Firenze, per esempio, nonostante i solidi fondamentali economici, perché la giunta guidata da Matteo Renzi ha deciso di bloccare i pagamenti su contratti di swap contestati in sede giudiziaria. L’opinione di Moody’s non è condivisa dalla sesta commissione permanente del ministero delle Finanze la quale, nel documento conclusivo sull’indagine circa l’utilizzo e la diffusione degli strumenti di finanza derivata e delle cartolarizzazioni nelle pubbliche amministrazioni, approvato il 12 marzo del 2010, dichiara che “costituire il sinking fund con titoli obbligazionari a loro volta emessi da altri enti locali costituisce di fatto un’interrelazione, di dimensioni teoricamente sistemiche, tra le condizioni finanziarie di diversi enti territoriali”.
Vanna Marchi & friend
La terza ragione che rende così appetibili i derivati strutturati agli enti locali, è che permettono alle banche, come abbiamo ricordato in precedenza, di offrire alle amministrazioni sostanziosi anticipi in contanti. Una manna per le giunte che faticano addirittura a pagare gli stipendi a fine mese. Per di più, tutti i funzionari interessati sostengono che le banche hanno loro venduto questi derivati come un investimento a costo zero, cioè senza commissioni. Già a prima vista la faccenda puzza: possibile che le banche rinuncino a un compenso che spetta loro di diritto? E infatti non è così.
Un contratto swap può essere par o non par. I contratti par sono strutturati in modo tale che le prestazioni delle due controparti siano agganciate al livello corrente dei tassi di interesse nel momento della stipula del contratto: a tale data il contratto ha quindi un valore di mercato nullo sia per l’ente che per la banca.
I contratti non par, invece, presentano, al momento della stipula, un valore di mercato negativo per una delle due controparti, poiché uno dei due flussi di pagamento non riflette il livello corrente dei tassi di mercato. I termini finanziari della transazione vengono quindi riequilibrati attraverso il pagamento di una somma di denaro alla controparte che accetta condizioni più penalizzanti. Tale pagamento, che dovrebbe essere pari al valore di mercato negativo del contratto, prende il nome di up front. L’entità dell’up front, proporzionale al valore del contratto, può arrivare a essere di svariati milioni di euro. I contratti derivati che gli istituti di credito hanno firmato con gli enti pubblici sono essenzialmente non par, quindi prevedono il pagamento da parte della banca di un up front all’ente locale: ecco l’origine dei famosi anticipi in contanti, che in realtà sono solo la restituzione della perdita (reale) che il contratto prevede come condizione di partenza per la controparte pubblica.
Ma c’è di più (mai come in questi casi, al peggio non c’è fine). Le banche, invece di versare per intero l’up front all’ente, ne trattengono a sua insaputa una percentuale: questa commissione invisibile (e assolutamente illegittima) rappresenta il costo implicito (cioè non apparente) di quei
lucrosi contratti che le banche spacciano ‘a costo zero’.
Facciamo un esempio. La banca sottoscrive con l’ente, a un prezzo pari a zero, un contratto non par che ha valore di mercato negativo pari a -10 milioni di euro. I 10 milioni di euro andrebbero versati integralmente all’amministrazione – che ha accettato di partire svantaggiata – e invece la banca ne trattiene 3 per sé e gira all’ente solo 7 milioni di euro. Quest’ultimo, tutto contento per il denaro così generosamente ricevuto, non sa dei 3 milioni che la banca ha mancato di versargli, e che rappresentano non solo una commissione fantasma, ma anche una perdita reale in partenza sul contratto che ha sottoscritto. Perdita che sarà molto difficile recuperare, visti tutti i trucchi a esclusivo beneficio delle banche che nascondono i derivati strutturati. In sostanza, ogni volta che gli enti locali firmano un contratto swap non par in cui l’up front non viene loro versato interamente, la banca parte con un guadagno certo e le amministrazioni con una perdita certa.
Alla luce di questi riscontri la guardia di finanza e diverse procure hanno avviato vari filoni di inchiesta: in primis perché nel comportamento degli istituti di credito sono ravvisabili varie ipotesi di reato, e in secundis perché parte dell’up front che la banca trattiene è stata talvolta utilizzata come tangente per ungere il parere positivo degli advisor (consulenti indipendenti che possono essere chiamati a certificare la correttezza dell’operazione).
A settembre 2010 erano 16 le indagini aperte per ipotesi di truffa, usura, appropriazione indebita e falso, presso le procure della Repubblica di Roma (3), Milano (2), Torino, Verona, Asti, Como, Bologna, Firenze, Napoli, Bari, Brindisi, Ragusa e Messina. Mentre altre 8 inchieste riguardavano accertamenti in materia di spesa pubblica delegati dalle procure regionali della Corte dei Conti del Lazio (2), Veneto (2), Puglia, Umbria, Abruzzo e Piemonte. Gli istituti di credito coinvolti sono i soliti noti: Unicredit, Merrill Lynch, Ubs, Deutsche Bank, JP Morgan, oltre a Intesa, Bnl, Montepaschi e altri ancora. Fra i banchieri indagati spicca il nome di Gaetano Bassolino (Ubs), figlio dell’ex governatore della regione Campania, i cui contatti nella pubblica amministrazione sono stati certo utili per far concludere alla banca contratti milionari.
Utili idioti
Le ipotesi di truffa a carico dei dirigenti bancari reggono sulla base del fatto che gli enti locali non siano operatori qualificati a operare in strumenti finanziari complessi come i derivati, nonostante gli istituti di credito abbiano fatto firmare loro una dichiarazione in tal senso.
Tuttavia la normativa europea non sembra accordarsi con questo assunto: Mifid (Markets in financial instrument directive) è il nome con cui sono note la direttiva 2004/39/CE del Parlamento europeo e il suo regolamento attuativo (2006/73/CE), recepite entrambe in Italia nel 2007 con il decreto legislativo 164 del 2007. Il Mifid impone alle imprese di investimento di operare una classificazione della propria clientela ai fini di modulare gli obblighi informativi da assolvere e le tutele da garantire, individuando tre tipologie di clienti: il cliente al dettaglio (retail), definito in modo negativo in quanto né cliente professionale né controparte qualificata; il cliente professionale, categoria alla quale appartengono di diritto i soggetti autorizzati a svolgere servizi di investimento, i governi nazionali e locali, gli enti pubblici, le banche centrali e le istituzioni internazionali; e il cliente qualificato, un sottoinsieme dei soggetti professionali – non se ne fa parte di diritto, a differenza della categoria professionale, ma occorre presentare una richiesta e attendere un’autorizzazione – composto da imprese di investimento, enti creditizi e assicurativi, fondi pensione, governi nazionali, banche centrali e istituzioni internazionali.
Questi tre livelli di clientela rispecchiano (o dovrebbero rispecchiare) livelli via via crescenti di competenze finanziarie, a cui devono corrispondere diversi livelli di informazione dovuti per legge prima della firma del contratto. Orbene, secondo il Mifid gli enti locali, essendo di diritto clienti professionali, possono investire in strumenti finanziari derivati senza essere sottoposti a una valutazione di idoneità da parte degli istituti di credito.
Le accuse di truffa e truffa aggravata nei confronti delle banche sarebbero quindi ingiustificate, e gli amministratori locali che gridano allo scandalo si comporterebbero – come stigmatizza il Financial Times – da provincialotti ingenui, solo perché i contratti che hanno sottoscritto stanno accumulando perdite. Ed è davvero difficile dargli torto, almeno nei casi più gravi.
Possibile che il comune di Milano o la regione Lombardia non avessero al loro interno le competenze necessarie a valutare un contratto derivato complesso, pur potendo emettere obbligazioni per centinaia di migliaia di euro? E se non avevano le competenze necessarie, perché prima di firmare non si sono rivolti a società di consulenza specializzate in grado di chiarirgli le idee? Come è possibile sottoscrivere senza batter ciglio documenti i cui termini sono specificati da formule matematiche incomprensibili? Al di là della maggiore o minore conoscenza in tema di finanza, il problema è innanzitutto di buon senso e di fare un uso responsabile dei soldi pubblici, tanto è vero che non tutti sono caduti nella rete – ferma restando la questione di fondo che la speculazione finanziaria, si guadagni o si perda, dovrebbe aver ben poco a che fare con l’amministrazione della cosa pubblica. Il comune di Treviso (che pure non è New York) ha organizzato all’interno del suo dipartimento amministrativo una task force che si occupa di controllare quotidianamente l’andamento dei tassi di mercato e degli swap in essere: non firma contratti che non capisce, per quanto possano apparire allettanti, chiede alle banche tutte le informazioni necessarie per valutare l’utilità economica di ogni operazione e – guarda caso – fino a oggi non ha preso alcuna una fregatura (anche se, mai dire mai…).
Ma ormai i danni sono fatti e il governo italiano deve correre ai ripari perché, se le accuse non reggono, gli enti locali dovranno sborsare alle banche cifre da capogiro, facendo anche rischiare al Paese il contagio sistemico di un possibile default. Così, come si legge in un articolo de Il Sole 24ore (11 gennaio 2011) dal titolo azzeccatissimo – “Presunti ignoranti” – il ministero dell’Economia, precedendo per una volta la Commissione europea (che ha in progetto qualcosa di simile), sta per emanare un regolamento in cui classifica per legge le municipalità come ‘clienti al dettaglio’: il livello più basso di consumatori i quali, in virtù di una più limitata conoscenza finanziaria, debbono godere della maggiore protezione da parte degli istituti di credito. Forse i nostri enti locali sul momento non apprezzeranno ma, pensandoci bene, meglio presunti ignoranti che falliti.