intervista di Giuseppe Ciarallo |
Milano non esiste è un’opera che, in piena epoca di liberismo economico sfrenato, riprende la tradizione della ‘letteratura industriale’ di volponiana memoria, ridando vigore a un genere nato per denunciare la disumanità e l’alienazione del lavoro in fabbrica, che diventano mix letale quando addizionate al disagio sociale legato alla mancata integrazione del migrante. In breve, la storia ruota attorno alle ossessioni di un operaio calabrese ospite da quarant’anni di una città che non ha mai imparato ad amare (disamore manifestamente ricambiato) nonostante abbia raggiunto l’apparente traguardo di una bella famiglia numerosa, di un’abitazione di proprietà e di un lavoro che, per quanto duro, offre la possibilità di una vita dignitosa all’intero nucleo familiare. Ma l’operaio ha una sola idea fissa, rivolta costantemente alla terra d’origine, nella quale a costo di immani sacrifici ha fatto costruire, proprio di fronte all’amato mare, una casa che dovrà diventare, nelle sue intenzioni, il salvifico rifugio per l’intera famiglia una volta raggiunta l’agognata pensione. Ma il protagonista del romanzo non ha fatto i conti con il radicamento che la moglie, lombarda, e i figli naturalmente sentono nell’odiata Milano. Testardamente, l’ormai pensionato operaio tornerà, da solo, al paese natio, dove vivrà la propria solitudine coltivando in sé l’ennesima follia che lo porterà, ogni mattina, a recarsi in stazione con la speranza di vedere scendere dal treno in arrivo da Milano la moglie e i sei figli, vinti e convinti dalle sue ragioni.
Dunque, nel romanzo Milano non esiste mi è sembrato quasi di cogliere una sorta di anacronismo: la vicenda si svolge ai giorni nostri, con chiari riferimenti a personaggi (Berlusconi & C.) e vicende (ThyssenKrupp) dell’oggi, mentre l’aria che si respira è quella che soffiava forte nelle città italiane del nord con una forte presenza operaia, negli anni ’70…
Non mi interessava fare un romanzo storico in senso tradizionale, avevo già sperimentato questo genere con Il romanzo di Tommaso Campanella, volevo focalizzare una condizione umana vissuta in un tempo senza tempo, tanto è vero che il protagonista non ha neppure un nome. Comunque gli operai esistono ancora, hanno una fisionomia antropologica un po’ diversa ma vivono i medesimi problemi degli anni Sessanta e Settanta, anzi quei problemi sono accentuati dall’arrivo di lavoratori extracomunitari e da quello degli europei più poveri, oltre che dal mercato del lavoro sempre più perverso. Non volevo neanche scrivere (ma da lì dovevo cominciare per rispettare quella logica interna che ogni racconto esige) un romanzo che somigliasse alla letteratura industriale proprio per evitare la datazione, ma mettere in evidenza temi scottanti come lo sradicamento, l’identità, l’integrazione, lo scontro generazionale, la condizione umana del nord e del sud. Ho polemizzato anche con chi ha scritto il risvolto di copertina, non mi sento rappresentato da quelle parole. Tra l’altro tra i nomi citati mancano proprio i due che in qualche modo ho sfiorato. Per i calabresi, Raoul Maria de Angelis e per i narratori dell’epoca, Ottiero Ottieri. Conosco i rischi che si corrono scrivendo poesia civile o narrativa civile, la retorica è a portata di mano e il tono comiziale sempre in agguato e perciò non volevo che il lettore fosse guidato in una certa direzione.
Il protagonista del romanzo, un operaio calabrese poco acculturato, emigrato nella metropoli da quarant’anni e mai completamente integratosi, per tutto il corso della narrazione vive una sorta di scissione interna che lo porta a ragionare su binari paralleli riguardo a molti aspetti della sua vita: ha una forte identità di classe ma al contempo porta avanti una lotta ostinatamente solitaria, quasi individualistica; è capace di solidarietà nei confronti dei disperati extracomunitari (nei quali forse a tratti si rispecchia) ma spesso si lascia andare a commenti sprezzanti (al limite del razzismo) nei loro confronti; vede l’unità della famiglia come un indiscutibile dogma, ma non ci pensa un attimo a trasferirsi da solo (seppur con la viva speranza, anzi la sicurezza di essere raggiunto dai suoi cari) nella casa fatta costruire nel paese natio…
Sì, il protagonista è pieno di contraddizioni, pieno di paure, incapace di seguire comportamenti lineari. Senza rendersene conto a volte è perfino razzista, lui che aborre i razzisti. È un sognatore perdente, uno che punta tutto sui sentimenti ed è incapace di aprirsi al mondo, alla città che per quanto aspra ed estranea, gli ha dato lavoro e famiglia.
Decisamente è un protagonista negativo e privo del minimo senso di considerazione degli altri.
Io però non mi schiero né dalla sua parte né dalla parte della moglie o dei figli. Il mio compito è stato quello di narrare, non di trarre dalle vicende delle conclusioni politiche, sociologiche o, dio ci scampi!, moralistiche.
Lei s’immagina se i lettori dovessero trarre conclusioni di questo genere da Il Maestro e Margherita di Bulgakov, da Delitto e castigo di Dostoevskij, da Lo straniero di Camus o da Bellezza e tristezza di Yasunari Kawabata che conseguenze ne nascerebbero?
La narrativa può diventare didascalica ma in un modo tutto particolare. Ha ragione, il mio operaio ha una forte identità di classe ma ha paura di tutto, s’è portato appresso le incertezze della sua origine e non ha saputo scendere a patti con le nuove realtà in cui è vissuto. Ma anche
per questo fa tenerezza e non mi sentirei di condannarlo, come qualche recensore ha fatto. Io vorrei che il libro fosse giudicato nei suoi esiti e non negli aspetti che ha prodotto o potrebbe produrre dal punto di vista sociologico o politico.
Ho vissuto sulla mia pelle una vicenda simile a quella del protagonista del libro. Mio padre dopo una vita da operaio, una volta in pensione, senza rotture o litigi con la famiglia, decise di tornare a vivere nel suo paese natio, dove rimase un anno durante il quale poté toccare con mano la delusione e la solitudine dello sradicato che non ha più un posto dove stare. Leggendo il libro e ripensando a mio padre mi sono chiesto: ma com’è possibile trascorrere una vita in una città, con una famiglia, una casa e un lavoro, e dunque almeno una parvenza di integrazione, e vivere nell’ossessione del ritorno a quel luogo d’origine (desiderio quasi religioso, da riconquista del paradiso terrestre perduto) dal quale si è fuggiti per mancanza di prospettive? E ancora: è possibile che le parole (e i pensieri) di mio padre, fossero le stesse parole e gli stessi pensieri di ogni migrante, e che ogni migrante abbia lo stesso recondito desiderio e, di contro, una prole alla quale non riesce a tramandare cultura e tradizioni dei luoghi d’origine?
Conosco molti casi simili a quelli dell’operaio da me creato e simili a quello di suo padre. Chi si porta dentro il paradiso perduto cerca costantemente di ritrovarlo, magari soltanto alla fine della sua vita, sentendosi prima in soggiorno obbligato. In Calabria un paio d’anni addietro è tornato un signore che vi mancava da circa cinquant’anni. Appena ha messo piede nella piazza del suo paese è caduto per terra guardandosi attorno con gli occhi sorridenti ed è morto.
In Argentina, negli Stati Uniti, in Canada, ho trovato comunità italiane che hanno ricostruito le feste patronali, i dolci, le tradizioni, eccetera. Noi siamo la nostra infanzia, hanno detto e ribadito spesso sia Cesare Pavese, sia Corrado Alvaro. Sono gli odori, i sapori, i contatti del primo amore, già, che non si scorda mai. Ma anche la condizione umana venutasi a creare tra il protagonista, sua moglie Letizia e i figli è molto comune ancora adesso, pur nella diversità dei nostri giorni. Franco Nero, per esempio, mi ha telefonato, appena uscito il libro, chiedendomi scherzosamente chi mi avesse raccontato la sua storia. Un primario di medicina a Lucca mi ha detto la stessa cosa, e anche a Gubbio e a Palermo ho avuto riscontri simili. O il protagonista è troppo comune oppure esiste ancora una emigrazione che crea i dissidi da me narrati. Una cosa è certa, il libro ha suscitato molto interesse vincendo ben quattro premi importanti, come il Calopezzati, il Corrado Alvaro, il Libero Bigiaretti e perfino il Giacomo Matteotti che viene assegnato dalla presidenza del Consiglio dei ministri. Non solo, c’è stato anche chi ha colto le mie più segrete intenzioni evidenziando che con questo testo ho voluto riaprire la Questione meridionale.
Attualizzando una delle tematiche del romanzo, secondo lei dove è stato imboccato, dal ramo sbagliato, il bivio che ci ha condotti a quest’oggi così incerto per il mondo del lavoro? Quali sono le cause che hanno portato a far sì che una figura così determinante per la vita sociale e democratica della nazione, la classe operaia forte e compatta degli anni ’70, venisse ridotta a entità disgregata e umiliata, liquidata unicamente come costo per le aziende, svilita ed equiparata a una qualsiasi altra merce?
Si tratta di cause concomitanti e soprattutto della corsa sfrenata al guadagno che deve esserci a tutti i costi per gareggiare al fine di produrre a bassi costi per esportare e per vendere senza essere sopraffatti dai prodotti importati. Ci sono dei Paesi al mondo dove la manodopera costa una inezia, non so, venti volte in meno di quella italiana, e dunque addio Italia. Non so come si può ovviare a questo, è certo che la società dei consumi (ma mi rendo conto di dire una genericità) ci ha svuotato di valori e la società del vuoto a perdere ha fatto il resto. Ma ci sono anche errori che vengono da molto lontano e proprio dall’inizio dell’unità d’Italia. All’epoca non si tenne conto della disparità economica e sociale se non per distruggere tutto ciò che pareva ‘straniero’ e da lì in poi si è aperta la ferita che non si vuole sanare per ragioni note a tutti.
Come vado predicando, ormai l’Italia c’è ed è bene tenerla unita e fare in modo che funzioni, ma io avrei preferito restare borbonico, se avessi potuto scegliere.
Vede, i Borboni non è che fossero il meglio e non sempre erano illuminati, ma avevano conservato l’umanesimo e il donchisciottismo che, fusi in un amalgama vitale, permettevano al popolo una vita dignitosa. Non solo, la gente del mezzogiorno sapeva guardarsi negli occhi, fino al 1861. Poi ha dovuto abbassare lo sguardo e sentirsi straniera nella propria casa; impropria, non legittima, inopportuna, sbagliata. Pensi soltanto a quanto sono ‘bastardi’ e incomprensibili i dialetti bresciano, bergamasco o milanese – a differenza di quello napoletano e veneziano e siciliano, con grandi tradizioni teatrali e letterarie – eppure quando le truppe giunsero in Calabria o in Campania pretesero di farsi capire parlando l’ostrogoto lombardo o piemontese e diventando furiosi e malvagi per non essere compresi.
Siamo finiti dritti dritti in un tema che poco ha a che fare col libro ma è di estrema attualità: mi sembra che tra leghisti padani pseudo celti, sudtirolesi nostalgici dell’impero austro-ungarico e neoborbonici (ci mancano solo i cattolici integralisti ancora offesi per la breccia di Porta Pia), questa Italia così com’è da 150 anni a questa parte, la vogliano veramente in pochi. Personalmente sono convinto che dall’unità d’Italia, sia al nord che al sud, come sempre siano uscite sconfitte le classi più umili. I ricchi, del nord e del sud, sono rimasti ricchi, anzi hanno accresciuto le loro proprietà, i poveri hanno invece continuato a fare la fame. Come nell’ottima sintesi gattopardesca, in pratica si ebbe un totale cambiamento senza che in realtà cambiasse alcunché…
Non posso che concordare con le sue affermazioni, con le sue analisi, purtroppo. Sì, davvero non è cambiato nulla nella mentalità di chi ha governato l’Italia da un secolo e mezzo. E ci sono delle cose inconcepibili che griderebbero vendetta, anche se con le vendette non si va da nessuna parte. I leghisti sono una vergogna, dicono cose che non stanno né in cielo né in terra, ragionano come i vecchi proprietari di aziende agricole che sono stati gli uomini più reazionari che si possa pensare e i più incolti. Ce n’erano che avevano letto a scuola qualche capitolo de I promessi sposi e ricordavano a memoria cinque frasi e si davano l’aria dei sapientoni.
Hanno portato lo stesso atteggiamento nella gestione politica, senza nessuna tensione ideale, senza nessun progetto se non quello di agire egoisticamente e insensatamente… e i risultati si vedono. Mi viene da pensare che forse i poveri faranno sempre la fame, ma interiormente saranno sempre più liberi di coloro i quali hanno messo il cervello (l’anima no, perché non la possiedono) all’ammasso del cretinismo imperante.
Ma torniamo al tema della nostra chiacchierata. La cosiddetta ‘letteratura industriale’, quella dei Volponi e dei Fortini, solo per citare i protagonisti più noti, ebbe negli anni ’60 e ’70 un compito di supporto culturale alle lotte operaie e fu molto efficace nel denunciare la condizione di disumana alienazione a cui la vita di fabbrica conduce. Nell’Italia di oggi, dove il termine ‘lotta di classe’ è diventato un concetto eversivo, e dove due uova lanciate contro la sede di un sindacato, diciamo, compiacente verso la linea di un padronato tornato a essere retrogrado e aggressivo, vengono paragonate alle pallottole degli anni di piombo e definite prodromi di una nuova stagione terroristica, nell’Italia dell’era Berlusconi, intendo, che ruolo può avere una neo-letteratura industriale (o forse sarebbe più consono chiamarla letteratura neo-industriale)?
Non c’è una letteratura neo-industriale né una neo-letteratura industriale, ma un’attenzione ai fenomeni di sfruttamento delle masse che stanno per ritornare in modo massiccio. Non si tratterà di un ricorso storico di tipo vichiano, ma di una caduta di stile delle industrie che non sono state in grado di uscire dalla logica ottocentesca. Se le compartecipazioni avessero trovato un terreno fertile la crisi sarebbe stata meno violenta e gli operai avrebbero pagato di meno. Il proble ma è che Marx, per molti aspetti, è ancora attuale e che i dirigenti dovrebbero leggere Elias Canetti di Massa e potere. Comunque non credo, non ho mai creduto che la letteratura possa o debba interpretare le istanze dell’attualità e diventare ‘il piffero’ della rivoluzione, come ha scritto Elio Vittorini.
La letteratura, poesia o narrativa (altra cosa è la saggistica o la critica) ha i tempi lunghi, si insinua nelle coscienze, nei pensieri, nei sentimenti e fiorisce dopo un certo tempo, altrimenti è qualcosa di superficiale e non produce durata, non diventa punto di riferimento della consapevolezza.
Due parole sulla tecnica narrativa, a mio avviso risultata estremamente azzeccata per rendere il gorgo di schizofrenia nel quale il protagonista lentamente si avvita: il soliloquio di un uomo che possiede limitati strumenti culturali, il quale attraverso gli schemi rigidi ereditati dalle figure familiari (il padre, in primis) e dalla cultura popolana della sua terra di provenienza, pensa di poter interpretare il mondo e dare una risposta a ogni suo quesito esistenziale, soffrendo poi per l’inadeguatezza dei propri mezzi, poco idonei a fronteggiare le dure prove che la vita gli riserva…
Milano non esiste è maturato in me lentamente, per prendere corpo definitivo ci sono voluti degli anni. Sull’emigrazione, alla fine degli anni Settanta, avevo scritto un libro di poesie, con riferimenti espliciti alla Svizzera e alla Germania, intitolato L’eredità infranta (quella di Gioacchino
da Fiore, di Telesio e di Campanella, per intenderci) e a Milano avevo dedicato varie composizioni poetiche (adesso in Al macero dell’invisibile edito da Passigli di Firenze) e un racconto particolarissimo che parla di due brigatisti che fanno saltare in aria il Duomo, lo radono al suolo e nessuno se ne accorge.
I milanesi sono troppo preoccupati del lavoro e di fare soldi, figuriamoci se possono rendersi conto che l’arte è sparita e anche il simbolo della spiritualità è stato distrutto.
Un giorno a Roma ho visto piangere un signore all’ufficio postale, credo, che era andato in cassa integrazione e ormai parlava solo di morte. Lo faceva con immagini che sembravano uscite da un sogno, con parole semplici. Allora ho pensato che potevo calarmi nell’animo di qualcuno, di un operaio, e farlo pensare e parlare proprio come quelli conosciuti al paese. Mi è bastato sgombrare la testa dei troppi libri letti e prendere la vita e metterla nelle pagine. Dovevo soltanto stare attento a non farmi prendere dall’irritazione e tenere i discorsi sempre sul filo dell’indignazione, ma soprattutto dovevo seguire integralmente i sentimenti dell’operaio, assecondarlo, sentirne le pulsazioni del sangue. Ogni volta che affronto un tema cerco di prepararmi, di non improvvisare, non perché io tema gli anacronismi, anzi quelli a volte danno una tinta di sano surrealismo sempre ben accetto nella narrazione, ma perché se non si ha la contezza degli spazi e delle condizioni reali non sarà possibile fare agire i protagonisti a loro agio e tutto diventa falso. Vede, le racconto un aneddoto che ormai ho ripetuto diecine di volte e ne ho tratto anche un racconto.
All’epoca in cui Elsa Morante stava scrivendo La storia un giorno mi pregò di accompagnarla alla marranella di San Palo con la mia cinquecento non prima di essermi procurato un quadernone, una matita e un metro da falegname. Lo feci ciecamente, gli ordini di Elsa non si potevano discutere, ma a un certo punto –ricordo era con noi anche Dario Bellezza – le chiesi perché dovessimo andare a San Paolo attrezzati a quel modo. E lei, serafica: «Vedi, io devo sapere esattamente dove si muovono i miei personaggi, devo conoscere le misure delle stanze, dei luoghi, delle piazze. Sulle pagine non apparirà mai una cifra, una qualsiasi misura, ma io conoscendo il tutto ho l’agio di far muovere ognuno secondo le esigenze».
Il rispetto delle regole è una necessità che troppi poeti e troppi narratori hanno dimenticato, non fosse altro che per opporvisi, distruggerle, rinnovarle.
Per concludere, sono curioso di sapere se ha intenzione di esplorare ulteriormente l’affascinante tematica delle dinamiche che regolano quell’essenziale aspetto dell’esistenza umana, che è il mondo del lavoro o pensa di aver esaurito l’argomento con Milano non esiste? D’altronde, i figli del nostro protagonista sono rimasti a Milano, e con tutta probabilità stanno vivendo vite da precari. E quello dei call center e della generazione ‘a tempo determinato’ è una storia che merita di essere raccontata…
Sono tentato di far seguire un’altra storia, tutta milanese, che si svolge attorno alla vita dei sei figli. Ma ho bisogno di una sosta per non cadere in quello che io chiamo il ‘facilismo’ ed evitare che a caldo mi venga la tentazione di ergermi a giudice dei comportamenti. Comunque sto scrivendo – soprattutto riscrivendo – molti racconti accumulati negli anni e molti versi. Si tratta di salvare cose che pensavo fossero state perdute e che invece ho ritrovato in mezzo ai libri donati a una fondazione e spulciati uno per uno prima di metterli negli scatoloni. Ho ‘scoperto’ che alcuni dei temi dominanti, fin da quand’ero ragazzo, per me sono stati l’emigrazione e la follia, che poi trovo siano sorelle, in qualche modo.
Dante Maffìa è poeta, narratore, saggista, critico d’arte e fondatore di riviste prestigiose come Il Policordo, Poetica e Polimnia. Come poeta fu segnalato, agli esordi, da Aldo Palazzeschi che ha firmato la prefazione al suo primo volume, Il leone non mangia l’erba, e da Leonardo Sciascia che con Dario Bellezza riteneva Maffìa “uno dei più felici poeti dell’Italia moderna”.
Numerosissime le sue opere poetiche, di saggistica e di narrativa, ultime delle quali Milano non esite (Hacca, 2009) e La donna che parlava ai libri (Edilet, 2010).