di Luciana Viarengo |
Recensione de Rue des italiens, Girolamo Santocono
Molti romanzi scritti in prima persona che narrano di infanzie-adolescenze-formazioni in chiave autobiografica, con risultati qualitativi fra i più vari – generalmente romanzi d’esordio – non costituiscono altro che una gratuita, autogratificante e liberatoria evacuazione di ego psicologicamente costipati.
Pochi e meritevoli sono gli autori che hanno saputo rendere la propria testimonianza autobiografica un simbolo o un pretesto per qualcosa di più vasto e significativo, in grado di stimolare – o quantomeno interessare – il lettore.
Ecco perché il consiglio di ri-lettura è questa volta caduto su Rue des Italiens di Girolamo Santocono, un romanzo autobiografico tanto lieve nel tono quanto denso nei contenuti. Contraddistinto da una grande vivacità narrativa – peraltro penalizzata da una traduzione e da un editing non propriamente accurati e, a tratti, addirittura ingenui – questo racconto, un po’ amaro e un po’ sorridente, sulla vita negli anni Cinquanta della comunità degli emigrati italiani nel Belgio, ha in sé due valenze che lo rendono degno di nota: la prima è la sua appartenenza a una letteratura minore, nel senso deleuziano del termine; la seconda è ricondurre noi, italiani spregiatori di nuovi migranti, al ruolo rimosso di minoranza disprezzata.
Nella quasi totalità dei casi, nella letteratura maggiore il contesto storico e sociale svolge un ruolo di sfondo o di substrato alla vicenda primaria. Nelle letterature minori, invece – per Deleuze, quelle prodotte da minoranze che scelgono di esprimersi nella lingua dominante – proprio per la limitatezza dello spazio a loro ascrivibile all’interno del panorama letterario, ogni storia individuale è in realtà storia comunitaria, e quindi collettiva, ovvero Storia.
Esattamente come nel caso di Rue des Italiens, uscito in Belgio nel 1986 (ma tradotto e pubblicato in Italia solo due anni fa, nella collana Diritti & Rovesci delle Edizioni Gorée), che da romanzo autobiografico diviene narrazione di una realtà sociale.
Santocono, sociologo e studioso dell’emigrazione italiana nell’Europa del nord, è stato un bambino assimilabile agli Abdel, Samir o Halima che siedono oggi sulle panchette delle scuole materne italiane o fra i banchi di quelle elementari: un immigrato di seconda generazione. La sua testimonianza è quindi particolarmente preziosa perché oltre a mostrarci, con occhi bambini, la vita dei minatori italiani emigrati, ci permette di comprendere – in quanto individuo assimilabile a noi, e non ‘altro’ per pelle, religione, lingua – il senso di schizofrenia delle generazioni sradicate. Sradicate quanto i loro padri, certo, ma a differenza di questi, prive anche del ‘paese’lontano, immateriale e simbolico, al quale rapportarsi o per il quale struggersi. Perennemente in bilico fra il legame con la patria dei propri antenati e l’appartenenza a quella nella quale sono cresciuti.
Nel Belgio di oggi, un cittadino su dieci non è di nazionalità belga – percentuale ancora più elevata nella parte francofona del paese – e se consideriamo, sulla totalità della popolazione, quanti hanno ascendenze straniere, la percentuale sale al 25%. La nuova patria di Santocono è quindi un paese fortemente esemplificativo sia per quanto riguarda le seconde generazioni, sia per l’immigrazione ai fini occupazionali.
Se oggi, le logiche del capitalismo impongono una delocalizzazione della forza lavoro verso aree di sottosviluppo economicamente più vantaggiose, ci sono attività che non possono essere delocalizzate, come nel nostro sud la raccolta dei pomodori o su tutto il territorio nazionale la manovalanza edile. Nel caso specifico, sono le miniere belghe.
Dopo la prima guerra mondiale, il Belgio si riprende con maggior velocità, rispetto al nostro paese proprio grazie alla produttività delle miniere e delle fabbriche. Tanto da rappresentare un punto di approdo per quanti decidono di abbandonare l’Italia fin dalle prime avvisaglie di instaurazione della dittatura fascista. Troveranno accoglienza grazie al bisogno di manodopera dell’industria pesante – ma anche grande difficoltà per ottenere i documenti regolari non appena il regime fascista inizierà ad esercitare pressioni in tal senso, e arresti dalla polizia belga quando le autorità italiane segnaleranno alcuni di loro come agitatori antifascisti.
Ma sarà al termine della seconda guerra mondiale che gli accordi tra il nuovo governo italiano e quello belga – il primo impegnato a fronteggiare la profonda crisi dell’industria e la mancanza di lavoro, il secondo ansioso di sopperire alla carenza di manodopera tedesca – sanciranno il contratto che sposterà 50mila lavoratori italiani verso le miniere del Belgio, attirati da campagne pubblicitarie nelle quali la vita del minatore del Nord è a dir poco edulcorata, quando addirittura non mostrano immagini di allegri lavoratori locali intenti ad accendersi le sigarette con i biglietti da mille. Qualche anno dopo, precisamente nel 1953, ha inizio la storia di Santocono, bambino così piccolo che “la sua età si poteva contare sulle dita di una mano”.
Inizia col frastuono infernale di una stazione invasa di gente, un concerto di grida e pianti, di colpi di fischietto e odore di aria fredda. In questo girone dantesco ha luogo il primo incontro con il padre, partito dalla Sicilia prima che il figlio potesse averne memoria. Un gigante sconosciuto che se lo tiene stretto al petto quasi temesse di perderlo di nuovo.
È l’approdo nella nuova terra, dopo l’interminabile viaggio in treno per lasciare ‘il paese’ e due giorni di sosta nella stazione di Milano per le visite mediche. I controlli attuati dai medici belgi sugli aspiranti minatori erano alquanto scrupolosi, bastava un niente, piedi piatti, zucchero nelle urine, per venire scartati: come garantirsi altrimenti la resistenza necessaria a sopportare il lavoro in miniera? “E questa non era una bella cosa, perché al ritorno in paese la gente avrebbe mormorato, avrebbe detto che avevi una malattia che non si poteva neanche nominare, che eri un uomo inutile, un mezzo morto buono solo per la spazzatura”.
La famiglia di Santocono è tra gli immigrati nella Vallonia insediati all’Etoile, luogo rimasto nella memoria e nel cuore dell’autore come qualcosa di molto simile al paradiso, sebbene rappresentasse in realtà un inferno sulla terra: “una vasta distesa di carbone, un terreno quasi fangoso, disseminato di strane e decrepite costruzioni che avevano tutte a che fare con la miniera. Sullo sfondo, a sovrastare il tutto, un’immensa montagna così nera che veniva da chiedersi se non fosse lei a colorare di grigio scuro il cielo”. Questo è il luogo in cui la società carbonifera ha piazzato gli stabilimenti per il setacciamento del carbone, e in uno dei due edifici di mattoni detto La Cantine, una gigantesca gabbia per polli, cresce il piccolo Girolamo, in un meltin’ pot di dialetti e usanze, e in uno stato di totale libertà spartita e assaporata con squadroni di coetanei.
Ma se il bambino che è stato conserva questo ricordo paradisiaco, l’adulto che è diventato “tappa la bocca al bambino, un minchione incosciente incapace di afferrare la realtà delle cose”.
Il trasloco successivo nella città di Morlanwelz gli sembrerà una punizione terribile per una colpa non commessa, ma darà il via a un inarrestabile processo di sdoppiamento, da un lato l’italianità del suo quotidiano e dall’altro l’integrazione nel tessuto sociale e urbano della sua nuova patria.
Nella lunga affabulazione di Rue des Italiens, fanno la loro comparsa figure tra le più disparate, tutte connotate attraverso caratteristiche spiccate, a volte amare, a volte comiche, ma sempre prive di qualsiasi risvolto macchiettistico.
Con i personaggi e gli episodi narrati, Santocono compone l’affresco di un’epopea troppo spesso dimenticata. Rende giustizia a un esercito di disperati coraggiosi senza volto, dei quali si possono al massimo, e a fatica, ricordare le morti collettive, come nel caso di Marcinelle. Ed emerge, come una beffa, il paternalismo esercitato da alcuni illuminati industriali del carbone, nella fattispecie quelli di Morlanwelz – ritenuti tutt’oggi benefattori della città – capaci di comprendere con largo anticipo che per ottenere consenso e salvaguardarsi dai conflitti sociali, è necessario dare ai propri operai l’illusoria convinzione di vivere meglio degli altri.
In realtà, la rete di opere benefiche messa in atto ha permesso loro di gestire al meglio gli ingranaggi del potere e di manipolare le coscienze dei lavoratori. Ciò che potremmo definire un esempio di capitalismo etico.
Contributo, anch’esso, al processo di integrazione delle nuove generazioni, prive di legami concreti con la patria dei loro padri.
Esemplare in questo senso, il racconto di una vacanza – la prima dopo dodici anni – al paese d’origine, un mondo lontano da Girolamo quanto potrebbe esserlo Marte, e non solo in senso logistico. Alla fine, il ritorno a Morlanwelz: “Quando siamo arrivati in Belgio, subito ho avuto l’impressione che la gente fosse tutta brutta e malata; i paesaggi tristi, insipidi e sbiaditi. Poi, quando il treno si è fermato alla stazione di Morlanwelz, ho sentito che ero tornato a casa”.
Pagine godibili, ricche di riflessioni profonde e di situazioni comiche, contrappuntate da un eccesso di interiezioni potenti che non escludono le bestemmie. Pagine divertenti e tenere, utili a rinfrescare memorie oggi pericolosamente rimosse, in un’epoca in cui si è pronti a inaugurare alla presenza del presidente della Camera il “Centro italiano della cultura del carbone” (Carbonia, 2006), ma incapaci di imparare qualcosa dalla sofferenza che tale ‘cultura’ ha comportato.
Rue des italiens, Girolamo Santocono, Edizioni Gorée, 2006