di Nicola Loda |
Dai tulipani dell’Olanda del ‘600 ai mutui subprime: la continuità delle bolle finanziare
Per economia reale si intende l’ambito della vita economica direttamente collegato alla produzione e alla distribuzione di beni e servizi. Si contrappone all’economia finanziaria, che non produce nulla ma sembra essere divenuta essenziale per il reperimento dei capitali necessari al buon funzionamento di un’attività economica ‘reale’.
Le due anime dell’economia appaiono dunque, per definizione, complementari l’una all’altra. Ciononostante, a seguito della crisi economica esplosa nell’agosto 2007, l’economia finanziaria ha perso la sua rispettabilità. Nel corso di quell’estate molte persone negli Stati Uniti smisero di pagare le rate del mutuo e le banche cominciarono a crollare sotto il peso delle insolvenze. A seguire il panico, la depressione delle aspettative e il calo dei corsi dei titoli. Dissero che strumenti finanziari come i mutui subprime erano stati promossi senza adeguata vigilanza; dissero che bastava rimuovere le poche ‘mele marce’ che avevano sfruttato un sistema lasciato troppo libero e fissare nuove regole per impedire in futuro il ripetersi del disastro. Confortante, non fosse che basta guardarsi alle spalle per rendersi conto di quanto le medesime parole furono pronunciate da generazioni di nostri antenati all’indomani delle catastrofi economiche che con cadenza ciclica colpiscono i mercati dal Seicento a oggi.
Il primo grande esempio di speculazione finita in disastro si verificò ad Amsterdam all’inizio del XVII secolo. In quel periodo i tulipani, l’ultima novità importata dall’Oriente, erano considerati simboli di enorme prestigio. Il loro alto prezzo attirava sempre nuovi investitori disposti a indebitarsi fino all’ultima proprietà per comprarne i bulbi. Erano infatti questi ultimi – sotterrati in attesa della crescita – e non i fiori recisi – commerciabili solo giunti a fioritura – oggetto delle trattazioni; i contratti di compravendita erano dunque del tutto simili agli attuali future. Ogni nuovo investimento spingeva i prezzi ancora più in alto, attirando quindi ulteriori investimenti in un circolo vizioso. Nessuno in Olanda voleva rimanere escluso dal grande affare: tutti pensavano che i valori non sarebbero mai scesi. Toccarono infatti vette spropositate (un bulbo veniva scambiato per un carro nuovo con cavalli e finimenti) ma nel 1637 cominciarono a diminuire e dopo i primi realizzi il panico si impadronì del mercato e i prezzi crollarono. Nel febbraio di quell’anno un’assemblea di giudici riunita ad Amsterdam stabilì che i contratti sottoscritti erano equiparabili al gioco d’azzardo, lasciando dunque libera facoltà se onorarli o meno. Ridotti a carta straccia, l’inadempienza legalizzata dei contratti portò sul lastrico moltissime persone. Ciò ebbe l’effetto di una gelata sull’intera vita economica olandese, che per svariati anni faticò a riprendersi.
Un secondo caso emblematico fu la storia di John Law e della Banque Royal. Riscosso poco successo in patria con le sue innovative teorie economiche, Law sbarcò a Parigi nel 1716 dove ottenne miglior fortuna. Le casse dello Stato era state svuotate dal prodigo regno del Re Sole e la Francia si ritrovava gravata da un enorme debito pubblico; il duca di Orleans, reggente del giovane Luigi XV, accolse Law con entusiasmo e gli permise di istituire una banca, la Banque Royal – quella che oggi chiameremmo una banca centrale – con la possibilità di emettere cartamoneta convertibile in moneta metallica. L’emissione di banconote doveva servire alla banca sia per riacquistare i titoli del debito pubblico sia per pagare le spese correnti dello Stato. La novità delle banconote fu particolarmente gradita al pubblico e la Banque Royal ne emise in grandi quantità. Il colpo da maestro fu la creazione della Compagnia del Mississippi, incaricata di sfruttare i giacimenti d’oro che si diceva fossero presenti nell’enorme territorio della Louisiana.
La Banque Royal si adoperò per vendere al pubblico le azioni della Compagnia, chiudendo in questo modo il cerchio: si stampavano banconote per pagare i creditori dello Stato i quali utilizzavano le stesse banconote per acquistare le azioni della Compagnia; i fondi ricavati da quest’ultima transazione non venivano investiti per la ricerca dei giacimenti, bensì utilizzati anch’essi per pagare il debito dello Stato. Le azioni videro salire vertiginosamente il loro valore, sostenute da una domanda divenuta isterica (si narra di donne che offrivano il proprio corpo in cambio di azioni). Sempre più biglietti vennero stampati, tanto che ben presto la loro quantità non fu più coperta dalle riserve in oro. Nel 1720 il meccanismo si ruppe: bastò il capriccio di un nobile che chiese la conversione in metallo delle sue banconote. La Banque Royal tentò di evitare il pagamento e la paura serpeggiò fra i creditori. Per mascherare l’inganno si arrivò ad assoldare un battaglione di mendicanti da far sfilare con una pala in mano per le vie di Parigi, fantomatici coloni in partenza per la Louisiana. Quando la gente si accorse che i ‘coloni’ dormivano ancora sotto i ponti della città, fu il panico. Quindici persone morirono in mezzo alla folla che cercava di cambiare le banconote, dichiarate inconvertibili. I corsi di tutte le azioni francesi crollarono e moltissime persone finirono in rovina. Tutte le colpe ricaddero su Law il quale, grazie all’aiuto del reggente, fuggì a Venezia dove morì in ‘dignitosa povertà’.
Nello stesso periodo anche la vita finanziaria di Londra viveva un momento euforico. Nel 1711 Robert Harley, conte di Oxford, e John Blunt, un semplice scrivano, fondarono la Compagnia dei Mari del Sud. La corona britannica aveva accumulato ingenti debiti durante la guerra di successione spagnola e la nuova società si offrì di scambiare un terzo dei titoli pubblici con proprie azioni; in cambio lo Stato gli riconosceva un lauto interesse e lo sfruttamento esclusivo di tutti i traffici con l’America del sud. Tale area, da sempre sottoposta al monopolio commerciale spagnolo, sembrava doversi aprire ai mercanti inglesi con la fine delle ostilità. Con la pace di Utrecht del 1713 la Spagna concesse all’Inghilterra l’‘asientos de negros’ – il monopolio del commercio degli schiavi verso l’America meridionale – e il ‘vascello di permissione’ – l’autorizzazione a un attracco l’anno per un solo vascello. Ben poca cosa quest’ultima concessione, e difatti il prezzo delle azioni rimase pressoché stabile fino al 1719.
Nel 1720 la Compagnia dichiarò di essere in grado di rilevare l’intero debito pubblico inglese e in due mesi il Parlamento approvò la proposta. Le azioni presero il volo: quotate 128 sterline a gennaio, salirono a 330 a marzo, a 890 in giugno e a 1.000 in agosto. Nessuno voleva farsi sfuggire la possibilità di acquistare un pezzo – un’azione – di una tale solida compagnia capace addirittura di acquistare il debito nazionale; senza riflettere sul fatto che, in un circolo vizioso, quelle azioni finanziassero innanzitutto quel debito pubblico acquistato e non l’investimento nel commercio. Molte persone si arricchirono a una velocità mai vista prima, molte altre vollero imitarle fondando nuove società per azioni. Ne nacquero con gli obiettivi più fantasiosi: società per lo sviluppo del moto perpetuo, per inventare macchine da scrivere, per dragare il mar Rosso alla ricerca del tesoro perso dagli egizi inseguendo Mosè, senza dimenticare l’intramontabile ‘intrapresa di grande convenienza, che nessuno sa qual è’. La confusione fu tale che lo Stato dovette intervenire. Fu approvata una legge, il Bubble Act, che vietava la costituzione di nuove società per azioni. In realtà il provvedimento mirava non a difendere gli sprovveduti, bensì a obbligarli a comprare solo le azioni della Compagnia dei Mari del Sud, l’unica società che oltre a finanziare il debito statale vantava tra i suoi azionisti ministri e membri del Parlamento; l’unica quindi che avesse diritto di monopolio sulla speculazione in atto.
Anche questa storia ha un epilogo amaro: alcuni grandi azionisti vollero realizzare i loro profitti innescando una corsa alle vendite che fece sprofondare il titolo. Lo Stato intervenne attraverso la Banca d’Inghilterra e riuscì a stabilizzare il prezzo delle azioni a 140 sterline, un settimo del loro valore massimo. Molte persone vennero pesantemente coinvolte nel crollo e lo stesso Isaac Newton perse nell’affare 20.000 sterline (circa un milione di dollari odierni). La caccia ai colpevoli che seguì al disastro vide John Blunt, ormai elevato al rango di Sir, sfuggire per poco alla morte aggredito a colpi di pistola per le strade di Londra da una vittima della speculazione. Come molti truffatori della sua risma, Sir Blunt si salvò dal carcere consegnando al governo i suoi complici. I dirigenti della Compagnia vennero sollevati dalle cariche e i loro beni confiscati a parziale risarcimento delle vittime. Alcuni vennero perseguiti e finirono in carcere o furono costretti all’esilio, altri si suicidarono.
Nel suo saggio Breve storia dell’euforia finanziaria, il celebre economista John K. Galbraith illustra i maggiori crack finanziari traendo da essi una sconfortante conclusione: i fenomeni speculativi sono il frutto dell’avidità e della stupidità umana, si verificano a intervalli più o meno regolari, hanno premesse pressoché identiche e sempre lo stesso risultato: un impoverimento generalizzato seguito da una brusca frenata della vita economica.
Inizialmente si individua una presunta novità sulla quale focalizzare la fantasia del pubblico (i tulipani, l’oro della Louisiana, il concetto di società per azioni), qualcosa che possa giustificare grandi aspettative o che possa essere spacciata come un’innovazione nelle tecniche finanziarie, atta a ottenere profitti alti per infiniti periodi. I capitali cominciano a piovere gonfiando i corsi delle azioni o i prezzi dei beni. Tali prezzi smettono di rappresentare valori oggettivi per divenire l’aspettativa di guadagni futuri. Inoltre, per inseguire l’investimento si fa largo uso della leva finanziaria, creando situazioni di forte indebitamento. Tutti accorrono alla mangiatoia e chi non partecipa nel grande affare oppure osa sottolinearne il rischio viene bollato come sciocco o peggio. Quando il processo smette di autoalimentarsi giunge inevitabile il crollo. I prezzi si azzerano e gli investitori falliscono, i debiti contratti non sono più esigibili e quindi falliscono anche i loro finanziatori, ovvero le banche. L’allargamento della crisi agli istituti di credito costringe i governi a intervenire e tutta la nazione finisce per sostenerne i costi, in termini di bilancio statale, perdita di posti di lavoro, impoverimento generale e azzeramento della fiducia, che preclude a futuri investimenti.
A questo punto servono una spiegazione e dei colpevoli: si mettono (non sempre) in prigione le persone più in vista, si trova una fantasiosa spiegazione sulle motivazioni del crollo e si invoca il bisogno di nuove regole etiche. Dimenticandosi che in un sistema economico volto all’accumulo del capitale il comportamento più ‘etico’ consiste nell’arricchirsi il più velocemente possibile, con qualsiasi mezzo e affrontando qualsiasi rischio.
Parlando del crack della Compagnia dei Mari del Sud, Charles McKay scrisse: “[Nell’autunno 1720] in quasi ogni città di una certa importanza dell’Impero si tennero riunioni pubbliche in cui furono votate petizioni che invocavano la vendetta dell’assemblea legislativa sui direttori della Compagnia, i quali con le loro pratiche fraudolente avevano condotto il Paese sull’orlo della rovina. Nessuno sembrava afferrare che la nazione stessa era altrettanto colpevole della Compagnia. Nessuno condannava la credulità e l’avarizia del popolo: la degradante cupidigia di guadagno… o l’infatuazione che aveva spinto una folla di persone a cacciare le loro teste con tanta fanatica bramosia nella rete tesa per loro da finanzieri intriganti” (1).
(1) Extraordinary Popular Delusions and the Madness of Crowds, Charles McKay