Felice Bonalumi
Letteratura ed egotismo
La parola è recente, di Joseph Addison, il padre del giornalismo inglese, e compare per la prima volta su The Spectator: egotism, da cui il francese égotisme. Siamo fra fine Seicento e l’inizio del Settecento, e probabilmente giornalistica è anche la strada che porta la parola nella lingua italiana, considerando che diversi giornali del nostro Settecento, da Il Caffè di Pietro Verri a La frusta letteraria di Giuseppe Baretti a L’Osservatore di Gasparo Gozzi, ebbero il giornale inglese come punto di riferimento. Così nel numero del 2 luglio 1714 scrive Addison: “I Signori di Port-Royal, che furono più eminenti per la loro cultura e la loro umiltà di ogni altro in Francia, bandirono il discorso in prima persona da tutti i loro lavori, come derivante da vanagloria e da autopresunzione. Per mostrare la loro particolare avversione contro esso, bollarono questa forma di scrittura con il nome di egotismo; una figura non rintracciabile negli antichi retori” (1).
E la polemica letteraria trova il suo apice nelle righe successive: “La maggioranza delle nostre odierne prefazioni sanno molto fortemente di egotismo. Ogni autore insignificante immagina che sia importante per il mondo sapere che egli scrisse il suo libro nella nazione, che lo fece per trascorrere bene alcune pigre ore, che fu pubblicato su insistenza degli amici o che la sua naturale indole, studi o conversazioni, lo indussero alla scelta del suo argomento” (2).
Da qui la parola dilaga con un significato impreciso, ma vicino alla psicologia. Diversi autori se ne appropriano e se Stendhal è il più famoso, si parla anche di egotismo foscoliano con riferimento alle sue lettere. La definizione rimane comunque piuttosto generica. Così in Umberto Galimberti:
“Ipervalutazione di sé e delle proprie prerogative che induce il soggetto a parlare continuamente di sé e delle vicende della propria vita come delle uniche ad avere un significativo valore” (3).
Il termine è usato nella psicoterapia della Gestalt come una delle sette o otto (dipende dagli autori) resistenze principali. Quest’ultima espressione indica disturbi della relazione tra organismo e ambiente e l’egotista si pone nella posizione di chi sa tutto, di chi si considera arrivato. In questo senso ha trovato una sua realizzazione, un suo posto nel mondo, ma manca assolutamente di vitalità, di spontaneità, della curiosità di conoscere in quanto, appunto, sa già tutto. Il dato centrale resta la sua freddezza, che diventa mancanza nel provare emozioni, nel bisogno di avere il controllo su ogni cosa e, soprattutto, nell’avere una considerazione sempre uguale, dunque statica, di se stesso. L’immagine che rimanda l’egotista è di persona controllata, perfino programmata nei minimi dettagli, che tiene una distanza di sicurezza nei confronti degli altri senza alcuna empatia con nessuno. Con una battuta: gli piacciono tutte le parole con il prefisso auto (auto-apprezzamento, auto-valorizzazione, auto-sostegno e così via).
Il limite con il narcisismo è quanto mai labile e, certamente, la differenza tra normalità ed egotismo è di gradi e non qualitativa. Lo dico in altro modo: un po’ egotisti lo siamo tutti, è salutare, ma rinunciare alle novità della vita è patologico.
Indubbiamente la letteratura offre esempi notevoli di egotismo, ma aggiungerei subito ogni artista, pittore, scultore, musicista o altro, sembra il soggetto di studio ideale. Con questo sto dicendo che dove c’è creatività e fantasia… c’è egotismo, inteso come considerazione elevata di se stessi. Se poi ci siano casi di artisti e letterati (ma proprio solo questi?) in cui la situazione è patologica… lascio al lettore.
Torno alla letteratura perché questo termine apre un interessante campo d’indagine nel suo rapporto con l’autobiografia e con il diario, e le tre tipologie hanno in comune una considerazione di fondo indiscutibile: la mia vita è di grande valore, dunque la scrivo. Dal punto di vista strettamente tecnico, la scrittura egotica è quella in cui c’è una sovrabbondanza del pronome io, il che rende ancora più difficile una distinzione con l’autobiografia e con il diario. D’altra parte, tutte e tre le tipologie hanno come oggetto della scrittura il rapporto tra un io, quello dello scrittore, e il mondo, indagando come attraverso questa relazione si è venuto costruendo un io che proprio con la scrittura approfondisce se stesso. Non è quindi nell’oggetto della scrittura che si può trovare una differenza.
E neppure nel soggetto scrivente. Anzi, il sospetto che si scriva di sé perché si voglia dimostrare che nella propria vita c’è una continuità, arriverei a dire un logos, è molto forte. Salvo restando una domanda: quanta menzogna c’è, in tutte e tre queste scritture? Quanto il soggetto scrivente ha bisogno di vedere nero su bianco quel filo conduttore che evidentemente ha necessità di dimostrare, a se stesso innanzitutto e poi eventualmente ad altri?
Tutto ciò porta a una conclusione: il testo egotico dovrebbe dimostrare il rapporto patologico del soggetto scrivente con il mondo, quello autobiografico e quello diaristico possono invece rendere un soggetto in perfetta armonia con i suoi simili e con il suo ambiente. Dovrebbe, cioè un condizionale, perché non credo che il linguaggio e/o la struttura del testo possano portare a conclusioni certe che facciano risaltare la condizione patologica o meno del soggetto scrivente.
Lo dico in altro modo: il linguaggio è comunque la prima forma di menzogna e un io patologico non può che approfittarne! Se così stanno le cose, si deve lasciare agli psicologici ciò che l’analisi letteraria non permette, ma, come detto in precedenza, la psicologia traccia confini labilissimi fra egotismo e narcisismo, fra egotismo e normalità. Dunque… occorre cercare altrove.
Avanzo una ipotesi che interessa il rapporto testo egotico/testo autobiografico: a posteriori, cioè alla fine del testo, quello autobiografico deve mostrare un cambiamento, una maturazione del soggetto (il che porrebbe l’autobiografia come caso particolare, caso limite del Bildungsroman, cioè del romanzo di formazione). Ciò deve mancare nel testo egotico: il soggetto enumera e analizza le vicende della sua vita per dimostrare il suo non cambiamento. Mi risulta più problematico, per il modo e i tempi di scrittura del diario, avanzare la stessa ipotesi per il rapporto fra quest’ultimo e il testo egotico.
Forse, ma anche in questo caso lo dico a livello di ipotesi, è proprio il tempo di scrittura ad aprire qualche spiraglio. In un duplice senso: il divario tra il fatto raccontato e il momento della scrittura e quello che definisco il ritorno sulla scrittura.
Vado con ordine. Il testo egotico e quello autobiografico si pongono come una riflessione che ammette qualsiasi distanza di tempo rispetto ai fatti raccontati. L’autobiografia, anzi, si intende come una riflessione in età avanzata. Il diario (4) ammette invece una distanza minima, cioè un divario di giorni, di qualche settimana o, al limite, di qualche mese. In quest’ultimo non c’è la sedimentazione temporale, vale a dire la riflessione, presente nelle prime due tipologie di testi. Riflessione vuole dire a sua volta analisi e, dunque, scarto di fatti, perché si tengano solo quelle azioni e quelle vicende che danno ragione della continuità cercata e di cui ho detto prima. Nella scrittura diaristica tutto ciò può non mancare, ma il filtro determinato dal tempo è certamente minore.
In pratica i testi egotici e autobiografici costruiscono sempre a priori l’immagine con cui lo scrittore vuole rimanere nella mente dei lettori, e la scrittura è solo il momento della realizzazione di questo progetto. Il diario si costruisce giorno per giorno e la censura, se non assente è meno presente o, comunque, in modo meno continuo, e può variare di intensità. È una censura più legata al momento, alla situazione psicologico-esistenziale del diarista, con un rapporto più immediato tra impressione/importanza del fatto e scrittura.
Forse ancora più interessante è il secondo aspetto. Il diario può portare, e a dire il vero quasi sempre porta, cancellature e scrittura fra le righe. A volte sono cancellature e sovrapposizioni istantanee, cioè contemporanee alla scrittura di quella pagina, altre volte c’è distanza di tempo e spesso una parzialmente diversa calligrafia o anche un diverso inchiostro avvertono di quanto accaduto. Nei testi egotici e autobiografici cancellature, sovrapposizioni, perfino riscritture sono ammessi in quanto si tratta di un testo letterario. Al più, queste forme di riscrittura possono essere oggetto di analisi dello studioso che così entra nel cantiere dell’opera. Il ritorno sulla scrittura è il più alto atto di tradimento e di menzogna in un diario, è il più alto atto di riflessione per le altre due tipologia di scrittura.
Il caso Stendhal è, per così dire, clinicamente perfetto perché ha lasciato i Ricordi di egotismo, la Vita di Henry Brulard e un Diario. Affezionato anche alla parola che dal titolo della sua opera si diffuse in tutta Europa (tenendo presente che il testo è del 1832, ma venne pubblicato nel 1892) e, infatti, come avverte Massimo Bontempelli nella prefazione (5), usata in precedenza almeno tre volte.
Il problema che questi tre testi pongono è quanto mai interessante. La Vita di Henry Brulard, al di là dello pseudonimo (a quanto pare di un suo prozio monaco dalla testa enorme e a cui sembra Stendhal assomigliasse), tratta dell’infanzia e dell’adolescenza come di un periodo di dolore interiore. La ricostruzione non ha valore mnemonico, ma vuole ripercorrere lo squallore della sua infanzia e dell’ambiente familiare di Grenoble.
Una riflessione che, parafrasando altro titolo e altro autore, si può riassumere come cognizione del dolore, a cui fa da contrappunto l’esplosione della scoperta di Milano, dove arriva nel giugno 1800 al seguito delle truppe di Napoleone, e della conseguente felicità. Dunque l’autore è cambiato, è maturato: ha scoperto un nuovo lato della vita che prima non conosceva, sa di potere essere felice! Come è noto a Milano Stendhal lascia il suo cuore (e non solo in senso metaforico, e basti il nome di Metilde Viscontini Dembowski) e si considererà sempre un esiliato dalla città lombarda, tanto che ancora oggi si può vedere la sua tomba al cimitero di Montmartre con l’epitaffio voluto dallo scrittore in italiano e, soprattutto, con la parola milanese a indicare la sua patria d’elezione (6).
Il metodo di Stendhal nel recuperare la sua vita è, per altro, piuttosto semplice: dalle sensazioni del presente risale alle cause. Una metodo-mosaico? Credo possa essere definito così: la sensazione presente gli dà delle immagini (i tasselli del mosaico) e la riflessione attraverso la scrittura è un tentare di ricostruire l’intero mosaico. La prima domanda (“Che cosa sono stato, dunque?”) con la prima risposta, molto semplice (“Non saprei”) nasce “sugli scalini di San Pietro e là meditai un’ora o due su quell’idea: sto per compiere cinquant’anni, sarebbe tempo di conoscermi. Che cosa sono stato? Che cosa sono? Davvero, sarei molto imbarazzato a dirlo” (7).
Quello che qui interessa è che la Vita di Henry Brulard fu scritta fra Civitavecchia e Roma dal 23 novembre 1835 al 17 marzo 1836, mentre i Ricordi di egotismo sono precedenti, dell’estate 1832, ma si occupano di un periodo posteriore e precisamente dei primi mesi dopo gli anni milanesi e il ritorno a Parigi (8). La continuità anagrafica dovrebbe darci un libro in cui la maturità (raggiunta nel volume posteriore, ma appunto anagraficamente precedente) viene, per così dire, dimostrata nel vissuto.
Niente di tutto questo: credo che la tematica centrale sia l’assenza e, per la precisione, l’assenza di Milano (9), e questo motivo esistenziale-sentimentale pone nelle pagine una sorta di muro invalicabile fra il presente della scrittura, il passato narrato (Parigi) e il passato interiorizzato e dunque sempre presente (Milano). Non è più, o meglio visti i tempi di scrittura, non è ancora la sensazione a guidare il ricordo, ma il sentimento e, al pari, non interessa il singolo episodio ma la vita nella sua rappresentazione complessiva a cui l’autore non sa adattarsi.
Milano è la città della gioia, Parigi della depressione; Milano è la vita come continuità, Parigi la sua frantumazione e, di conseguenza, la frantumazione dell’io; Milano è la città del vivere in società, Parigi della sua impossibilità o, forse meglio, della sua falsità. Il sentimento richiede la sincerità o, perlomeno, una dichiarazione di sincerità, e a questa regola non sfugge nemmeno Stendhal: “Se questo libro riesce noioso, dopo due anni servirà al salumaio per avvolgervi il burro; altrimenti si vedrà che l’egotismo, ma quello sincero, è un modo di dipingere un cuore umano nella cui conoscenza abbiamo fatto passi da gigante dopo il 1721, data delle Lettere persiane, di quel grande Montesquieu, che ho tanto studiato” (10).
Conoscere il cuore degli uomini è anche l’intento del Diario (11), che copre il periodo 1801-1842. Intento nobile, ma riduttivo, perché ci sono impressioni, ricordi, note di costume, fatti personali, riflessioni, in una parola la memoria costruita in un rapporto di vicinanza tra il tempo del fatto e il tempo della scrittura. Ma la memoria scritta diventa anche il mezzo da cui attingere per le proprie opere, cosa che Stendhal fa con abbondanza e, dunque, la domanda, senza risposta, è: quante sono le opere egotiche di Stendhal?
Un solo esempio: la divisione in capitoli del viaggio in Italia, scritto in precedenza (1811) come diario, è fatta nel 1813 dallo stesso Stendhal e così leggiamo nel Diario. Rimango alle opere in esame: ci sono tre Stendhal? Perché no. Certamente tre tentativi onesti, e senza dimenticare che: “Tutto possiamo conoscere, tranne che noi stessi” (12).
1)L’intera raccolta del giornale sul sito: www.gutenberg.org/files/12030/…/12030-h.htm. Il testo inglese è a traduzione dell’autore
2) Ibidem
3) U. Galimberti, Dizionario di psicologia, vol. 2, Gruppo editoriale L’Espresso, 2006. La prima edizione è Utet, 1992
4) Sulla scrittura diaristica molto interessante è E. Mandrussan, Forme del tempo/Modi dell’io. Educazione e scrittura diaristica, Ibis, 2009
5) Stendhal, Ricordi di egotismo, Mina di Vanghel, Vanina Vanini, prefazione di Massimo Bontempelli, Armando Curcio, 1978
6) L’epitaffio completo: “Arrigo Beyle / Milanese / Scrisse / Amò / Visse / amm. L IX. M.IL / Morì il XXIII Marzo MDCCCXLII”
7) Stendhal, Vita di Henry Brulard, Einaudi, 1976. Le citazioni alle pp. 4-5. In contrapposizione, l’autore è già in Italia, a Ivrea: “La mia vita fu rinnovata, e sotterrato per sempre tutto il disinganno di Parigi” (p. 374). E così nel testo prepara l’ingresso a Milano: “La ragione mi dice: ma il vero bello, è Napoli e Posillipo, per esempio sono i dintorni di Dresda, le mura abbattute di Lipsia, l’Elba sotto Rainville ad Altona, il lago di Ginevra, ecc. ecc. Questo dice la mia ragione, il mio cuore non sente che Milano e la campagna ‘lussureggiante’ che la circonda” (p. 375)
8) Ricordo che entrambi i testi sono incompiuti
9) Nell’edizione citata dei Ricordi di egotismo, così a p. 112, cioè nel penultimo capitolo dopo che l’autore ha accettato di correggere le bozze di un suo libro, il De l’Amour: “Le folli tentazioni di tornare a Milano, che tante volte avevo respinte, mi tornavano con forza straordinaria. Non so come ho fatto a resistervi”
10) Stendhal, Ricordi di egotismo, op. cit., p. 78
11) Stendhal, Diario, Einaudi, 1977, vol. 2. Ricordo che l’edizione italiana non è completa, ma, come avverte in nota il curatore, riporta circa i due terzi di quanto ci ha lasciato Stendhal. Il riferimento citato nel testo è del 10 dicembre 1801, dunque nelle pagine iniziali: “Conoscere a fondo gli uomini, giudicare correttamente i fatti, è dunque un bel passo avanti verso la felicità” (vol. I, p. 30)
12) Stendhal, Ricordi di egotismo, op. cit., p. 78