intervista di Sabrina Campolongo |
Nel suo romanzo Vergine giurata, si fa riferimento a un codice ancestrale, il Kanun, che consente a una donna di diventare socialmente un uomo, con tutti i privilegi e i doveri di un uomo, a prezzo della rinuncia totale alla sua femminilità. I giornalisti e blogger italiani che hanno scoperto dell’esistenza del fenomeno sociale delle ‘vergini giurate’ (fenomeno circoscritto ad alcune comunità isolate tra i monti dell’Albania del nord e del Kosovo) grazie al suo romanzo e al documentario in cui ha intervistato alcune di queste donne, hanno usato parole come “antico orrore” per descriverlo. Confesso che la mia prima reazione, invece, è stata di sorpresa. L’idea che un codice così arcaico, peraltro feroce, sotto molti aspetti, consentisse alle donne non solo di rinunciare a essere femmine (come accade alle suore, in fondo, alle ‘spose di Cristo’) ma di diventare uomini, permettendo loro di ottenere, seppur a un prezzo altissimo (lo stesso pagato dalle monache, in ogni caso) un ruolo paritario a quello dell’uomo, mi è sembrato quasi rivoluzionario.
Non credo che questa ‘opportunità’ sia mai stata concessa a nessuna donna di nessuna civiltà, almeno nel mondo occidentale, se escludiamo il popolo delle Amazzoni. Mettendoci più di un pizzico di cinismo, mi verrebbe da dire che oggi – in Italia, almeno – si vedono donne pagare un prezzo simile per ottenere molto meno, forse per la promessa di un trattamento paritario, promessa che spesso diventa miraggio. Lei ha pensato di denunciare un abominio, scrivendo la storia di Hana, oppure è rimasta, almeno in parte, affascinata dalla potenza, non solo simbolica, di una scelta come la sua?
Vergine giurata è una storia, un libro di narrativa, non ho voluto denunciare nulla, se così fosse mi sarei messa a scrivere un libro giornalistico con qualche venatura storico-antropologica. Dalle vergini giurate ero affascinata da quando avevo quindici anni o giù di lì. Ho solo atteso il momento per fare serie ricerche; ho anche atteso che il libro maturasse dentro di me. Quindi Vergine giurata ha attraversato, in un certo senso, una lunghissima gravidanza. Trovo la definizione “antico orrore” una scorciatoia, una semplificazione. Con questo non voglio dire che sia bellissimo che una donna venga privata dalla sua sessualità, e soprattutto della possibilità di dare amore a un uomo. Però va detto che il Kanun è una raccolta di leggi ancestrali complessa. Le vergini giurate sono sì il prodotto di una forma mentis prevaricatrice che nei secoli ha posto la donna sull’ultimo gradino della società, ma al contempo le ha lasciato uno spiraglio. È uno spiraglio feroce? Sì. Ma è, al contempo, un compromesso. Gli uomini concedono ‘la libertà’ e il diritto della ribellione a una donna. Se la donna imbocca quella strada gli uomini la rispettano; la accolgono come loro pari. È come una elaboratissima pièce de teatre, basta vedere le cose nella loro complessità, invece di usare soltanto un pennello imbevuto di nero…
Sarebbe lungo fare luce qui su tutto il meccanismo che porta alla ‘creazione’ di una vergine giurata. Tutto è nato secoli fa, si è protratto nel tempo per diverse ragioni e sta morendo ora con l’era moderna. Ma guardiamolo da un diverso punto di vista: fare voto di castità, rifiutando il marito scelto dal padre, per esempio, è una forma di ribellione. La fai franca, sei libera di andare ovunque senza sentire in ogni momento il fiato sul collo, senza dovere pendere dal giudizio del fratello, del padre che ha in mano il tuo ‘onore’. Diventi socialmente un uomo, quindi smetti di essere un oggetto a vita. E poi non dimentichiamo che il matrimonio d’amore è un’invenzione relativamente recente della società. In molte regioni del mondo ancora vige la regola del matrimonio combinato.
L’opzione amore resta, appunto, un’opzione, non un diritto assoluto. Basta guardare l’India: in molte regioni la ragazza viene data in sposa senza il diritto di scelta; in altre regioni del lontano Oriente succede la stessa cosa. Il matrimonio è un contratto economico, l’unione dei beni tra due famiglie… Io scrissi il libro affascinata dai monti del nord dell’Albania e per amore delle genti che lo abitano. Ero affascinata dalla solitudine delle donne-uomo; la solitudine interna, quella mai espressa ad anima viva. Le parole pesano, da quelle parti; il silenzio è quasi d’obbligo; se attraversi le vallate ti trovi avvolto da un manto di sublime bellezza. A volte la bellezza uccide. Ma la bellezza uccide ovunque, no?
Un giorno una vergine mi disse: «Visto che ti stai scervellando per capire perché ho giurato castità…» (infatti la osservavo, doveva essere stata bellissima da giovane, era ancora un uomo piacevole). «L’ho fatto» mi confidò, «perché ero molto più avanti del mio tempo. Non volevo essere menata per il naso da un uomo. Non io. Ed eccomi qua». Dopo l’uscita del libro, e soprattutto dopo la messa in onda del documentario girato per la televisione pubblica svizzera, le vergini giurate diventarono una specie di meta ambita per giornalisti e fotografi. Gente da mezzo mondo mi contattava per ottenere le loro coordinate. Spesso percepivo dalle mail, dalle telefonate di richiesta, non un interesse a capire a fondo la complessità della storia, bensì la fretta di catturare in immagine i fenomeni da baraccone: donne strambe, esotiche, forse lesbiche e primitive, di un Paese povero e disgraziato. A una donna-uomo due giornaliste occidentali promisero di regalare un orologio d’oro se avesse concesso l’intervista. La vergine era disoccupata da mesi. Le due occidentali ottennero la storia, le scattarono le foto. Ritornarono a casa propria, pubblicarono il pezzo. Non le inviarono mai l’orologio, nemmeno uno da venti dollari.
La sua vita è divisa tra l’Albania, la Svizzera, gli Stati Uniti e l’Italia. Qual è la differenza più significativa che ha vissuto sulla sua pelle di donna e scrittrice, tra questi Paesi?
Amo molto l’Italia perché parlo e scrivo la lingua. E l’amo ancora di più perché ci sono venuta da scrittrice e da documentarista, con il privilegio di avere conosciuto l’Italia migliore: quella degli studenti che fanno volontariato con passione e tra mille sacrifici; degli operatori sociali; dei magistrati e degli attivisti dell’Antimafia; degli psicologi e degli psichiatri che si occupano delle ragazze di strada e dei bambini abbandonati… Senza tutto questo, non so se avrei conservato e nutrito l’amore e il profondo interesse.
Moltissimi albanesi, da emigranti, hanno avuto un’altra esperienza: quella dell’umiliazione; della gente che non dava loro casa in affitto perché erano albanesi. Storie che conosciamo molto bene… Va anche detto che gli elementi della malavita albanese in Italia non hanno subito molto; qualche pesce piccolo è finito dentro, sì, ma gli altri, i pezzi grossi, stanno bene. La malavita, come ovunque nel mondo, il rispetto se lo compra. Se l’è comprato anche in Italia.
Gradualmente, per la diaspora albanese in Italia le cose sono migliorate grazie all’olio di gomito e alla perseveranza di ogni emigrante, e anche grazie alla memoria storica degli italiani che una volta da emigranti avevano dovuto percorrere la medesima strada: l’emigrazione. L’ha incorniciato molto bene Gian Antonio Stella nel suo libro L’orda: quando gli albanesi eravamo noi.
Per quanto mi riguarda, il muro io lo trovai in Svizzera, dove approdai quando lasciai l’Albania. Era un muro educato, ma comunque di cemento. Ho la cittadinanza elvetica; mia figlia è nata lì; mio figlio maggiore vive molto bene in Svizzera; mio marito è svizzero. È uno dei miei Paesi, dunque. Ma nei primi anni avrei preferito un pugno aperto sul muso invece della condiscendenza, dei guanti bianchi. Dovevo dimostrare che non ero una furba, non ero una lavativa. Ho camminato sulle uova, ho sbattuto contro i muri, contro le porte, dentro di me non sempre ho gestito bene la rabbia e la frustrazione. Poi un giorno venne pubblicato, in Italia, il mio primo libro, l’unico libro autobiografico, Senza bagagli. Arrivò ovviamente in Ticino. E la storia cambiò. Ero stata finalmente sdoganata. Oggi ho con la Svizzera un rapporto di reciproco rispetto, credo.
L’America è altamente imperfetta ma è abbastanza calda per dirti, ogni volta che arrivi all’aeroporto: Welcome home. L’accento, che sia pesante o leggero, non spaventa nessuno. L’America fa casa. È casa. Quando in centro Milano o in centro Parigi metteranno una donna islamica col velo ad accogliere i clienti nella profumeria del centro commerciale superchic, per gli ultra ricchi, me lo facciano sapere; e quando la donna in questione parla pure male la lingua eppure è stata assunta, ancora: me lo facciano sapere. Amo profondamente l’Europa ma certe barriere sono ancora dure da far cadere, sempre che cadano.
L’Albania è le radici, gli amici, la lingua, la tomba di mio padre. L’Albania è un amore quasi atroce, ti risucchia, perciò ci devi stare attento. È un Paese straordinario, intenso, nel bene e nel male.
Che Paese è l’Albania di oggi? Cosa ha guadagnato e cosa ha perduto (se qualcosa ha perduto) rispetto a quello da cui è fuggita?
L’Albania ha guadagnato la libertà, e ha perso i sogni. E qui non vorrei essere fraintesa. Non sono una nostalgica della dittatura, non sto dicendo che sotto il regime di Hoxha si stava meglio. Al contrario, l’Albania di allora era un’orribile, lugubre prigione a cielo aperto. Ma il popolo era capace di sognare. Immaginavamo cosa c’era dall’altra parte del muro. Ci tenevamo in piedi con l’idea di un mondo che forse mai avremmo visto. Ma c’era ‘l’illusione della bellezza’, pensavamo che qui, in Occidente, ogni cosa era bella, impeccabile. Se fossimo stati abbastanza colti, preparati, istruiti, l’Occidente un gio no ci avrebbe accolto a braccia aperte. Il sogno quindi ci teneva umili, e pieni di dignità. Era la dignità del prigioniero che, tra la tentazione del suicidio dietro le sbarre e la pazienza della tortura quotidiana, sceglie la pazienza, coltiva la pazienza. E nonostante tutto osa sognare…
Poi ‘scese’, venne, arrivò la democrazia, e l’Albania si trovò spiazzata. Non aveva esperienza. Non aveva più pazienza di costruire con calma, aveva fame di tutto. Negli ultimi vent’anni il mio Paese ha attraversato tutte le malattie infantili e inevitabili di ogni democrazia giovane. Ha assorbito dall’Occidente le caratteristiche peggiori a scapito di quelle migliori. L’Albania di oggi è un Paese fragile, il livello di corruzione è altissimo. Il popolo è svogliato, il distacco dalla vita politica e sociale è andato approfondendosi. Gli albanesi onesti sono delusi e stanchi di sperare perché presi regolarmente in giro da chi li governa. Perciò hanno chiuso gli occhi. Non c’è più un sogno di un mondo migliore. Il mondo è questo, la realtà è questa… Oggigiorno il piccolo paese si trova davanti a un bivio: o decide di rafforzare le ossa e crescere, facendo buon uso delle indubbie risorse che possiede, oppure si troverà a essere definitivamente il pariah dell’Europa.
A febbraio di quest’anno, lei ha scritto una lettera aperta, pubblicata da La Repubblica, al nostro premier, Silvio Berlusconi, comunicandogli la sua rabbia e sdegno per l’ennesima battuta di cattivo gusto, questa volta riferita alle “belle ragazze albanesi”. Le ha mai risposto? Quali altri ritorni ha prodotto il suo atto di accusa?
Sarei stata un’ingenua se mi fossi aspettata una risposta dal premier Berlusconi – con tutte le battute che ha seminato negli anni, il Cavaliere prima di me avrebbe dovuto dare un bel po’ di risposte ad altra gente. E se lo avesse fatto sarebbe stato un gran signore. Ma ha sempre perso l’occasione. In tutta franchezza, non ho scritto la lette ra aperta nemmeno con rabbia. L’ho fatto per una pura e semplice ragione: qualcuno doveva farlo. Il primo ministro albanese Salì Berisha, amico di Silvio Berlusconi nonché responsabile dello sfascio dell’Albania odierna, non lo ha fatto. Davanti a una battuta di pessimo gusto, Berisha, accanto a Berlusconi, ha sorriso e taciuto.
Ho scritto perché le botte sulla pelle delle “belle ragazze” albanesi le ho visto con i miei occhi; perché il loro dolore l’ho raccolto, per anni. Mi sarei sentita a disagio con la mia coscienza se non l’avessi fatto. E gli effetti di quella lettera sono stati ambivalenti. Moltissimi lettori hanno espresso stima, indignazione, solidarietà. Hanno espresso partecipazione e si sono scusate, a nome del Cavaliere, anche molte persone che Berlusconi lo hanno votato, e che sanno distinguere, analizzare, di volta in volta, il modus operandi del premier. Poi, com’è normale, ci sono i soliti detrattori: «Lei signora si fa pubblicità a poco prezzo. Come si permette lei? Come ti permetti tu e il tuo Paese di pezzenti! Hai fatto i soldi sulla pelle di quelle ragazze…» È un gioco vecchio, banale, si ripeterà sempre: quando mancano gli argomenti si va all’offesa, all’attacco personale, alla calunnia. L’Italia degli ultimi mesi ne sa qualcosa, no?
Nel suo documentario Cercando Brunilda, un momento che mi ha molto toccata è quello in cui legge la bellissima poesia scritta da Vassi, una ragazza albanese costretta dal fidanzato a prostituirsi sulle strade italiane. Nell’intervista che segue, Vassi dice: «Scrissi la poesia per non impazzire, per dare un senso a quella notte tanto irragionevole». La sua prima notte sulla strada. Ho pensato subito a Hana e alle sue poesie. Molti direbbero che per lei le poesie e la scrittura sono l’unico conforto, nei quattordici anni di solitudine sui monti, eppure io credo che il significato della letteratura, per Vassi come per Hana, sia più vicino all’insubordinazione. Mi piacerebbe conoscere il suo punto di vista.
Poco tempo fa incontrai in Texas una ragazza quindicenne. Suo padre era stato condannato a morte per un crimine che non aveva commesso. Ora l’uomo è libero, la prova del Dna l’ha scagionato. Ma sua figlia, cresciuta con il padre condannato a morte, in tutti gli ultimi anni ha scritto, ogni giorno. Aveva un dolore intenso nello sguardo, uno di quelli che ti spaccano in due. Mi disse: «Quando uno è contento e felice ride, fa le battute. La felicità sta nel bel mezzo della faccia, non c’è bisogna di nasconderla. Il dolore sì. Se uno prova dolore, lo vuole mettere da qualche parte, toglierlo dalla faccia. Allora scrive. Mette le cose giù, le mette al riparo. Io scrivo. Ho scritto. È meglio così».
Il legame tra la sua attività letteraria e quella di documentarista mi appare molto stretto. Qual è il rapporto tra i due piani, quello dell’inchiesta sulla realtà oggettiva, spesso drammatica, e quello del romanzo?
Sono una che racconta storie, prima di ogni cosa sono una scrittrice di narrativa. Però darei fuori di matto se non andassi là fuori a raccontare anche per immagini. Non tutte le storie di cui mi innamoro possono diventare un romanzo o un racconto breve. E poi cambiare strumento di espressione è utile anche alla narrativa pura. La ravviva, le dà forza, la nutre, le regala materiale vivo. L’inchiesta, o meglio la ricerca, mi sta molto a cuore. Prima di iniziare un documentario macino molto materiale, accumulo più che posso. Parto per le riprese solo quando sono convinta di avere fatto molto bene ‘i compiti’.
Per l’inizio del 2011 è annunciata l’uscita del suo nuovo romanzo, scritto in italiano come già Vergine giurata, dal titolo: Piccola guerra perfetta. Di che cosa parlerà?
Di una guerra. Di un amore. No. Di molti amori. E dell’orrore di una guerra ‘piccola’ – in fondo i bombardamenti sul Kosovo e la Serbia durarono solo settantotto giorni. Nessun soldato occidentale perse la vita in combattimento, nella guerra del Kosovo; fu una guerra combattuta dal cielo. Ma ciò che accadde in terra fu atroce. Andai nel Kosovo pochissimo tempo dopo. Feci ritorno più volte. Fu una meticolosa raccolta di testimonianze: a casa avevo tonnellate di materiale ‘ufficiale’ dai media di mezzo mondo. Percorsi tutto il Kosovo. Donne e uomini si fidarono, mi misero il loro cuore sul palmo della mano. Quando mi sentii pronta scrissi il libro. Sotto forma di romanzo.
Elvira Dones è nata a Durazzo e cresciuta a Tirana (Albania). Nel 1988 ha lasciato il suo Paese e si è stabilita in Svizzera, dove ha scritto sette romanzi, due raccolte di racconti, alcune sceneggiature e realizzato documentari per la televisione. Dei suoi scritti, sono stati pubblicati in Italia: Senza bagagli, BESA, Lecce 1998, Sole bruciato, Feltrinelli, Milano 2001, Bianco giorno offeso, Interlinea, Novara 2004 (da cui è stato tratto il film tv Roulette di Mohammed Soudani), I mari ovunque, Interlinea, Novara 2007, e Vergine giurata (scritto in italiano) pubblicato da Feltrinelli, Milano 2007. Sposata e madre di due figli, vive ora nei sobborghi di Washington. Di prossima uscita il romanzo Piccola guerra perfetta, per Einaudi, Torino.