La strategia del governo non abbandona il fossile e avanza proposte di rinnovabili ad alto impatto ambientale
Trivelle trivelle!!! “Ripeto fino alla noia che c’è una bufala. Non c’è nessun referendum sulle trivelle o per le rinnovabili. Non c’è una sola trivella in discussione: solo la scelta se continuare a estrarre petrolio e gas fino all’esaurimento del giacimento, senza sprecare ciò che già stiamo utilizzando, o fermarsi a metà alla scadenza della concessione”. Così si esprimeva l’ex premier Matteo Renzi. E ancora: “Io spero che questo referendum fallisca perché potrebbe bloccare 11.000 posti di lavoro”; “Sto cercando di sbloccare un Paese per anni fermo. Per me è una medaglia al petto, anzi è il minimo che posso fare”.
A sostegno del NO al referendum del 17 aprile 2016 sottolineava il contributo delle estrazioni al soddisfacimento del fabbisogno nazionale – “Dall’unità d’Italia abbiamo estratto circa 200 milioni di tonnellate di petrolio e 767 miliardi di metri cubi di metano. Tutto questo non ci serve a essere indipendenti energeticamente ma ci aiuta ad avere una parte delle riserve” – e auspicava che sul quesito referendario ci fosse “la massima informazione”: “Sapete qual è il quesito? Non ‘volete vivere in mondo meraviglioso con pale eoliche su cui noi siamo leader’ o ‘con il petrolio che vi esce dalle orecchie’, non è questo: il referendum è ‘volete che quando scadranno le concessioni vengano fermati i giacimenti in attività anche se lì c’è ancora gas e petrolio?’. Noi pensiamo che finché ce n’è in sicurezza si debba tirare fuori quel che c’è, poi si smonteranno le infrastrutture”.
E contemporaneamente il comitato per il NO dal suggestivo nome “Ottimisti e razionali”, con a capo l’ex legambiente Chicco Testa, calcava le stesse orme del presidente del Consiglio spiegando che votare SÌ era sbagliato e strumentale, perché con la vittoria del referendum le aziende sarebbero state costrette a licenziare in un settore ricco di professionalità e tecnologia, insistendo sull’importanza del contributo delle estrazioni nazionali per il fabbisogno energetico nazionale. Eppure, nonostante la sconfitta del referendum per il mancato raggiungimento del quorum, la Strategia Energetica Nazionale (SEN) di Calenda-Galletti lanciata a giugno di quest’anno non spende una riga propositiva rispetto alle nuove estrazioni. Ma come?
Non erano così fondamentali e indispensabili? Possibile che in un anno si siano già esaurite tutte le riserve? Avevano forse ragione i No Triv a sostenere che si trattava solamente di falsità e speculazioni? La SEN a tal proposito è molto chiara: “La produzione nazionale di gas nel 2016, nonostante le riserve ancora disponibili, è calata a circa 5,8 miliardi di metri cubi anno (-14,6% sul 2015), coprendo circa l’8% dei consumi”. “L’obiettivo che si propone nella SEN 2017 è di stabilire un percorso per arrivare a un sistema gas complessivamente più sicuro, competitivo, flessibile (anche per rispondere alle crescenti esigenze di back-up e flessibilità richieste dal crescente peso delle fonti rinnovabili non programmabili sulla produzione di energia elettrica) e resiliente (per fare fronte alla prevista diminuzione della produzione nazionale unita alla crescente esigenza di fronteggiare i rischi geopolitici connessi all’elevata dipendenza dagli approvvigionamenti di gas dall’estero)”.
E ancora: “La produzione nazionale, stabilmente in declino è stata considerata price-taker, in quanto non varia in funzione delle condizioni di mercato, ma è legata alle curve di produzione dei giacimenti”, che significa che non ha minimamente la possibilità di influire sul prezzo del gas. È già forse finita la bolla speculativa? Oppure la vittoria dei comitati che sono riusciti a far introdurre nello Sblocca Italia il divieto di fare il famigerato frackingfratturazione idraulica, ha bloccato le reali ambizioni delle lobby petrolifere? E nonostante le bufale sul fabbisogno energetico e la necessità degli investimenti in infrastrutture inutili e pericolose, la nuova SEN comincia a parlare anche di “Povertà energetica”.
La “Povertà energetica”
Negli ultimi quindici anni l’incidenza dei consumi delle famiglie sul totale della spesa energetica è aumentata (fino al 2013 di quasi un punto percentuale). Tale incremento è risultato maggiore per le famiglie meno abbienti, a causa della relativa incomprimibilità dei consumi energetici. La bassa elasticità della domanda, unita alla difficoltà di effettuare i necessari investimenti per migliorare l’efficienza energetica delle proprie abitazioni, suggerisce l’emergenza di un fenomeno, noto anche come Povertà energetica (PE), oggetto di forti attenzioni da parte della Commissione europea. Per farvi fronte si è istituito un bonus elettrico e gas sotto forma di sconto in bolletta, che nel 2015 copriva in media due mensilità di spese energetiche, per un totale complessivo erogato ai beneficiari pari a 78,6 milioni per il bonus elettrico e 63 milioni per il bonus gas, entrambi coperti dagli oneri generali di sistema.
L’Aeegsi (Autorità per l’energia elettrica il gas e il sistema idrico) ha segnalato come solo un terzo circa delle famiglie potenzialmente beneficiarie abbia richiesto i bonus, a fronte di una platea stimata, sulla base della soglia ISEE in vigore al 2014, in circa 3,9 milioni di famiglie. Alcuni studi hanno criticato la regola dell’accesso al bonus, sia per la soglia ISEE, sia per il prerequisito di connessione alla rete: molte famiglie infatti usano metodi alternativi al metano per il riscaldamento, e quindi non vengono neppure considerate nel provvedimento.
In base al metodo britannico di monitoraggio della PE con l’approccio “Low Income – High Costs75”, risulta che nel periodo 2004-2015 la percentuale di famiglie italiane in stato di PE era circa l’8% del totale (2,1 milioni di famiglie), con un’incidenza nel Mezzogiorno pari al 14%. Questa quota di povertà energetica deve seriamente far riflettere e tentare di dare altre alternative per farvi fronte. Ma per il governo e la SEN le famiglie in condizioni di PE potrebbero trarre beneficio da un intervento di efficientamento energetico delle loro abitazioni che, oltre a migliorare il riscaldamento/raffrescamento dell’alloggio, con conseguente diminuzione dei rischi per la salute, ridurrebbe il costo della bolletta energetica, permettendo così di rientrare dall’investimento fatto.
Però la stessa SEN, senza mezzi giri di parole, evidenzia come le famiglie in povertà energetica non possano investire, per mancanza di risorse e possibilità a indebitarsi, e nulla viene detto su come risolvere questo problema, se non un timido: “A tale riguardo, la cessione del credito, unita a una garanzia pubblica, potrebbe favorire l’accesso delle famiglie in PE allo strumento eco bonus”.
Il problema della PE è urgente ma come sempre la classe dominante non trova soluzioni per le classi meno abbienti. Una realtà evidenziata anche dalla storica sentenza 39884 del 4 settembre scorso della Cassazione, che ha condannato una donna del leccese per essersi allacciata abusivamente alla rete. Per la Suprema Corte l’energia elettrica non è un bene di prima necessità, non è indispensabile alla vita, ne derivano agi e opportunità ma la sua mancanza non mette a rischio l’esistenza. E proprio a partire da questa sentenza occorre fare un serio ragionamento.
Per i vari governi, la privatizzazione e la liberalizzazione dell’energia sono state fondamentali. Le diverse strategie energetiche continuano a creare business per le imprese private e non viene mai affrontato il concetto di energia come bene comune. Anzi, proprio nella SEN possiamo leggere: “Il protagonista centrale della liberalizzazione deve essere il consumatore, che rimane il vero pilastro della riforma”. Quindi chi non consuma non ha diritto all’energia, perché il punto è essere ‘consumatori’ e non ‘cittadini’. Una strategia che affonda di fronte alla vera situazione del Paese, fumosa, con poche reali proposte e concentrata a favorire la speculazione delle grandi compagnie energetiche.
La SEN
La strategia si divide in alcuni capisaldi: il mercato elettrico e il tema delle rinnovabili, il mercato del gas, l’efficienza energetica, la questione della raffinazione e dei prodotti petroliferi.
Quasi superfluo ricordare che il nostro Paese è un importatore di energia e che necessariamente risente delle ricadute geopolitiche a livello mondiale, principalmente nel settore petrolifero e del metano. È la stessa SEN a enfatizzare il problema geopolitico.
La dipendenza del greggio dall’import è del 94%, soprattutto dal Medioriente da cui importiamo il 38% del totale. La produzione della Basilicata incide solamente per il 6,2%. Ma se il mercato del petrolio non vede gravi rischi di sicurezza, quello del gas pone serie preoccupazioni per il governo. Anche se l’obiettivo che si propone la SEN 2017 è stabilire un percorso per arrivare a un sistema gas complessivamente più sicuro, competitivo, flessibile e resiliente, il contesto denota una forte sofferenza e una certa mancanza di chiarezza rispetto a molte incognite.
Sono diversi i fattori che incidono sulla sicurezza e sulla prospettiva del mercato del metano. Nel 2019 termineranno i contratti di fornitura gas con l’Algeria e si dovrà puntare a una rinegoziazione; sempre nel 2019 scadranno i contratti di transito del gas algerino attraverso il gasdotto TTPC in Tunisia; la situazione in Libia poi è totalmente fuori controllo, e ciò mina l’importazione di gas sia per la produzione che per il trasporto. Sempre nel 2019 scadranno i contratti di transito di gas russo attraverso l’Ucraina, e Gazprom ha già dichiarato di non voler rinnovare gli accordi con la controparte ucraina ma di voler portare avanti i progetti per aggirare quella rotta, attraverso il Nord Stream2 e il Turkstream.
Proprio con la realizzazione del Nord Stream l’Italia rischierebbe di doversi approvvigionare per tutto il gas russo via Germania; un mutamento delle rotte europee che oltre a ridimensionare enormemente il progetto di fare dell’Italia l’hub del gas del Mediterraneo, con rischi concreti per gli investimenti miliardari fatti negli ultimi anni, potrebbe comportare anche costi addizionali per il prezzo all’ingrosso in Italia. Di fatto il Nord Stream renderebbe la Germania un hub centroeuropeo e lì si formerebbero i prezzi, rendendo strutturale lo spread tra il sistema italiano e il nord Europa, dato che il costo all’ingrosso al PSV (Punto di scambio virtuale) diverrebbe pari a quello tedesco più i costi addizionali di trasporto, aumentando il divario di competitività per le imprese italiane. A questo si aggiunge un altro fattore di incertezza, il calo della produzione nei Paesi produttori europei come Olanda e Regno Unito.
Per far fronte a queste situazioni, la SEN propone le sue ricette. Innanzitutto chiede l’apertura del Corridoio Sud, operativo dal 2020, con il Tap e con l’arrivo del gas azero per 8,8 miliardi di metri cubi. A questo deve essere aggiunta la scoperta del giacimento Zohr in Egitto da parte dell’Eni e che entrerà in produzione nel corso di quest’anno, aumentando la possibilità di esportazione tramite Gnl (Gas naturale liquefatto) e quindi tramite navi metaniere. Inoltre lo sviluppo dei giacimenti nel Mediterraneo orientale (Israele, Libano, Cipro) potrebbe portare a infrastrutture comuni di trasporto con quelle del giacimento Zohr. Oltre ai due terminali di rigassificazione di Damietta e Idku, viene proposto il progetto East Med, con gasdotto off shore da Creta alle coste italiane. Un progetto ritenuto fattibile anche dalla Commissione europea in quanto utile alla diversificazioni delle fonti e delle rotte di approvvigionamento, e oggetto di discussione nel G7 tra Italia e Israele.
Per concludere si punta all’avvio dello sviluppo del Turkstream, che assieme al ITGI-Poseidon (gasdotto da Grecia a Italia) bilancerebbe il raddoppio del russo-tedesco Nord Stream, supportando lo sviluppo dell’hub italiano. Ma tutte queste possibilità restano per ora sulla carta (figura 1).
Resta dunque ferma l’idea di fare dell’Italia un grande hub del gas nel Mediterraneo, e con tale obiettivo è stato avviato un percorso di incremento della capacità di trasporto della rete gas nazionale, che comprende la possibilità dell’inversione dei flussi fisici dal sud verso il nord del Paese, con un investimento di oltre 700 milioni di euro, in gran parte già effettuato da Snam Rete Gas.
Il progetto si divide in due parti: “La prima fase è finalizzata all’aumento della capacità di trasporto della rete nella Pianura Padana, per garantire la continuità delle forniture nel caso di interruzioni prolungate delle importazione dal nord Europa e creare i presupposti per l’export verso la Svizzera (tramite il gasdotto Transitgas) e l’Austria (tramite il gasdotto Tag). Già da ottobre 2015 è possibile trasportare circa 5 milioni di metri cubi al giorno di gas (circa 2 miliardi di metri cubi l’anno) verso la Svizzera, attraverso il punto di interconnessione di Passo Gries (in alternativa ai 18 milioni di metri cubi/giorno esportabili verso l’Austria). La seconda fase del progetto, il cui completamento è previsto nel 2018, prevede l’incremento della capacità di export dall’Italia fino a 40 milioni di metri cubi/giorno (circa 13 miliardi di metri cubi/anno), che potranno transitare tutti a Passo Gries o fino a un massimo di 18 milioni di metri cubi al giorno a Tarvisio e la parte restante al nodo elvetico.
Il gas arrivato in Svizzera dall’Italia potrebbe poi proseguire verso la Francia (fino a 9,5 milioni di metri cubi al giorno) e la Germania (fino a 22 milioni di metri cubi al giorno). Ma per fare questo occorrono nuovi gasdotti come l’East Med e il Poseidon con fino a +20 bcma, in caso di realizzazione del progetto Poseidon alimentato per 10 bcma attraverso il progetto East Med, per l’import di gas dal bacino offshore israelo-cipriota, e per 10 bcma da gas russo via Turkstream. I volumi di gas russo via Turkstream non andrebbero considerati come aggiuntivi ma evidentemente sostitutivi di parte degli import attuali al punto di entrata di Tarvisio, al confine austro-italiano, non contribuendo pertanto alla diversificazione delle fonti di approvvigionamento ma solo a quella delle rotte. Inoltre si punterebbe a un raddoppio della portata del Tap che passerebbe da 8 miliardi di metri cubi a 18 miliardi che avverrebbe tramite aumento di spinta da centrale in Albania”.
Creare una cosa simile significa costruire sia nuovi punti di entrata che il collegamento tra sud e nord Italia, e viene proposto un progetto devastante che passerà dalle zone terremotate: “Completare la nuova linea della dorsale adriatica. Questo progetto, che traguarda il 2023, servirà a incrementare la capacità di import da sud e superare le difficoltà di interventi sull’attuale dorsale costiera, che attraversa territori fortemente urbanizzati. Il progetto renderà disponibile nuova capacità di trasporto da sud (sia dalla Sicilia che dall’Adriatico) per circa 24 Msm3/g”.
Il Gnl (Gas naturale liquefatto)
A tutto questo si deve aggiungere l’investimento nel Gnl, cioè nella rigassificazione. La SEN spende non poche parole per questi progetti, da qua al 2030: “Incrementare la diversificazione delle fonti di approvvigionamento, attraverso l’ottimizzazione dell’uso delle infrastrutture esistenti e con lo sviluppo di nuove infrastrutture di importazione, sia via gasdotto, che Gnl, a carico di soggetti privati”; “Incrementare la capacità di import di Gnl per favorire la partecipazione dell’Italia al mercato globale del Gnl in concorrenza con i terminali del nord Europa”.
Per il governo la capacità di rigassificazione sarà quindi un asset fondamentale per l’Italia del futuro, perché consentirà di cogliere le opportunità di un mercato Gnl che si prevede in over-supply fino alla prima metà del prossimo decennio, e allo stesso tempo di gestire la maggior volatilità delle importazioni da sud (in particolare dall’Algeria). Un mercato Gnl anche nel Mediterraneo dovrebbe infatti consentire l’accesso a un portafoglio più ampio di fornitori (oltre al Qatar, per esempio Algeria, Mozambico, Usa, Egitto, Angola e Trinidad e Tobago) a prezzi competitivi, anche rispetto al gas via pipeline, in virtù dell’abbondanza di offerta (e del lieve vantaggio logistico rispetto al nord Europa per i carichi provenienti da Suez). Per il governo è dunque strategico rivedere il posizionamento dell’Italia sul mercato del Gnl nel Mediterraneo, prima di tutto attuando una revisione del meccanismo di remunerazione dei servizi di rigassificazione (da tariffa ad asta) per migliorare la competitività degli impianti esistenti, e poi valutando anche lo sviluppo di nuova capacità di rigassificazione (come già previsto nella SEN 2013), al fine di superare le limitazioni degli impianti attualmente in esercizio.
È ovvio che nei prossimi mesi vedremo ritirare fuori i vari progetti di Gnl presentati negli ultimi anni, visto che la SEN parla di un fabbisogno annuale di Gnl di 11 miliardi di metri cubi. La politica di Gnl servirà inoltre a diminuire la dipendenza energetica dalla Russia, visti i nuovi scenari geopolitici sempre più di scontro mondiale (1).
Dal 2016 è stato attivato dal Ministero dello Sviluppo economico un sistema innovativo, e unico in Europa, per i terminali di rigassificazione esistenti, che prevede offerte con aste di un servizio integrato di rigassificazione e stoccaggio del Gnl. Le gare 2017-2018 hanno offerto circa 1,3 miliardi di metri cubi di stoccaggio per fini industriali. Una questione che pone un’ulteriore riflessione, visto che la rigassificazione e lo stoccaggio vengono fatti per creare stock di energia per i grossi complessi industriali: per profitti di pochi quindi, viene compromesso l’ambiente e aumenta il rischio per le popolazioni.
Ma questo è la visione della politica energetica governativa, che si prefigge di sostituire il consumo energetico industriale attuale con l’utilizzo del gas metano: invece di investire e obbligare a una politica al rinnovabile, il governo rilancia di nuovo il fossile, su un settore che consuma circa il 20% del totale dell’energia usata in Italia.
Particolare attenzione merita anche la questione dello stoccaggio del gas, perché in un sistema logistico servono le vie di rifornimento ma anche i magazzini. L’Italia è il Paese che stocca più gas a livello pro capite, seconda in Europa per quantità totale dopo la Germania. Negli ultimi anni abbiamo visto i governi insistere sulla questione dei vari progetti, con tutti i rischi ambientali connessi. La nuova SEN, pur lasciando la porta aperta a nuovi impianti di stoccaggio, per ora si limita a parlare della necessità di un miglioramento del margine di sicurezza tramite incremento della capacità di erogazione giornaliera di punta dagli stoccaggi, per recuperare il calo registrato negli ultimi tre anni, e soprattutto per avere la flessibilità necessaria a gestire un mercato potenzialmente più volatile: “L’impresa maggiore di stoccaggio sta realizzando interventi per ripristinare entro il 2020 circa il 30% della capacità di erogazione di punta persa negli ultimi anni. Ulteriori interventi dovrebbero essere quindi programmati per il recupero integrale delle capacità di erogazione preesistenti, anche mediante la realizzazione di nuovi pozzi nelle aree già in esercizio, in sostituzione di quelli esistenti.
I progetti per nuovi stoccaggi già autorizzati dal Ministero dello Sviluppo economico dovrebbero portare entro il 2020 circa 57 Msm3/g di punta addizionale di erogazione (e 4,5 bcm di spazio addizionale)”. In pratica l’obiettivo è aumentare la dinamica di stoccaggio, cioè aumentare la capacità di iniezione ed estrazione. Per far questo si lavorerà su nuovi pozzi e sull’aumento della pressione, e cioè mandando gli stoccaggi in sovrappressione, cosa concessa dal ministero per Sergnano, Ripalta, Minerbio e Fiume Treste, con enormi rischi per l’ambiente e soprattutto per la sismicità indotta e innescata (2).
Il governo mira quindi a creare uno scenario di mercato che si sposterà progressivamente dai contratti long-term Take-or-Pay verso forniture spot approvvigionate dai principali hub europei, dove la sicurezza e la competitività di approvvigionamento dipenderanno sempre di più dalla capacità di mettere in competizione rotte e Paesi alternativi, via gasdotti e Gnl. L’obiettivo sarà massimizzare i flussi commerciali per le importazioni a migliori condizioni economiche. Perché, come la stessa SEN ammette, esiste un problema serio rispetto ai prezzi: “In termini di prezzi, il mercato italiano continua infatti a essere penalizzato da uno spread di circa 1,8 €/MWh rispetto ai mercati nord europei, ben più elevato rispetto al solo costo variabile del trasporto”.
Uno spread che per il governo è dovuto alla mancata integrazione del mercato italiano con quello europeo, e al poco sviluppo di Gnl, ma che è anche fortemente condizionato “dalla presenza di contratti di importazione long-term Take-or-Pay per oltre 90 bcm/y che, essendo ancora basati in modo preponderante su aggiornamenti oil–linked del prezzo, incidono in modo significativo sui meccanismi di formazione dei prezzi al PSV”. Quindi paghiamo gli errori degli investimenti degli anni passati che si sono basati sui contratti Take or pay. Per questo, con i contratti oil indexed (direttamente legati al prezzo del petrolio) e contratti a lungo termine con clausole take-or-pay (per cui gli operatori sono obbligati ad acquistare un volume minimo contrattuale di gas indipendentemente dalle condizioni della domanda), si formano prezzi non competitivi e non rappresentativi delle logiche di mercato con forti ricadute anche nelle bollette energetiche.
Una situazione che ha comportato anche grandi squilibri nel mercato, come la stessa SEN ammette: “D’altra parte i contratti longterm non sono di per sé sufficienti a garantire la disponibilità dei flussi di importazione e la stabilità dei prezzi al PSV: infatti nei primi mesi del 2017 la volatilità dei flussi dall’Algeria, in concomitanza con condizioni climatiche particolari, ha spinto a incrementare significativamente le importazioni da Passo Gries, fino a saturare la capacità di import e creare un momentaneo distacco del mercato italiano dai mercati nord europei, con conseguente innalzamento del prezzo PSV (fino a40 €/MWh, circa 2 volte la media del periodo) e dello spread rispetto a TTF (salito a 20 €/MWh rispetto ai 2 €/MWh medi nel resto del periodo)”.
Per far fronte al problema dei prezzi si punterà al cosiddetto “Corridoio di Liquidità”. Il governo parte dalla considerazione che le fonti dal nord Europa, approvvigionabili attraverso il Corridoio di Liquidità, sono in genere marginali e pertanto i relativi volumi sono price-maker; favorire dunque l’accesso alla capacità di import dai mercati del nord Europa (in particolare quella del gasdotto Transitgas), attraverso l’introduzione del Corridoio di Liquidità, dovrebbe contribuire ad allineare il prezzo in Italia (PSV) al prezzo dei mercati liquidi del nord Europa (TTF) (al netto dei soli costi variabili di trasporto).
In pratica importeremo gas dai Paesi del nord. Altro che hub del gas sud europeo! Resta però l’estremo rischio di un costo netto per i consumatori di qualche centinaio di milioni di euro, come già fatto notare da alcune società di studio del mercato energetico; il progetto ha già inoltre ricevuto forti critiche dal parte della Commissione energia Ue, dopo uno studio commissionato a Ernst & Young e Rekk (Regional centre for energy policy research).
Oltre al corridoio si punta all’introduzione della figura del Market Maker sul mercato del gas. “La presenza di un mercato liquido del gas costituisce un presupposto fondamentale per lo sviluppo del settore del gas naturale nazionale, in quanto favorisce la possibilità per gli operatori di bilanciare le proprie posizioni e garantisce la formazione di un prezzo di riferimento trasparente, anche per le negoziazioni a termine, riducendo il rischio di manipolazioni”. Si vuole dunque introdurre un operatore o un’istituzione finanziaria capace di influenzare il mercato attraverso l’acquisto o la vendita di un numero considerevole di pacchetti di gas, che significa speculare nel mercato dell’energia, con i relativi rischi per i cittadini.
Una strategia insomma che non vuole per nulla abbandonare il fossile, come mostra anche una delle proposte più concrete introdotte, per la quale sono già partiti i progetti di valutazione di impatto ambientale, e che riguarda la metanizzazione della Sardegna. Un progetto che prenderebbe forma attraverso la costruzione di nuove condutture e diversi impianti di rigassificazione di piccola portata nei vari porti sardi. In pratica il metano approderebbe via nave, con impatti del tutto da calcolare: la Sardegna potrebbe essere sventrata da nord a sud per far passare le nuove linee. Una regione talmente ricca di vento e sole che potrebbe azzerare la prospettiva del gas metano, ma il governo non ne vuole sapere e le lobby metanifere, in primis la Snam, stanno già facendo pressione. Senza considerare che servirebbe un piano di efficienza energetica per le abitazioni, e che la Sardegna è ricca di sughero, ottima materia prima isolante per l’edilizia.
Le energie rinnovabili
Gran parte della SEN analizza il ruolo delle rinnovabili nel processo di de-carbonizzazione e nel calo del petrolio e del nucleare in Paesi europei. In coerenza con gli impegni presi a Kyoto e in anticipo rispetto alla COP 21 di Parigi, ma anche con l’obiettivo di garantire competitività e crescita economica durante la transizione energetica, i leader della Ue hanno preso atto nel 2011 della comunicazione della Commissione europea sulla roadmap di de-carbonizzazione per ridurre le emissioni di gas serra di almeno l’80% entro il 2050 rispetto ai livelli del 1990. Entro il 2030 è prevista la riduzione delle emissioni al 40%, e per farlo si punta alle rinnovabili al 27% rispetto al consumo totale. La SEN vanta i risultati dell’Italia nel raggiungimento degli obiettivi, evidenziando che già nel 2016 la quota di rinnovabili incideva per il 17,5%, quando l’obiettivo del 17% era previsto entro il 2020 a livello europeo.
Occorre però approfondire questo dato per capire di quali rinnovabili stiamo parlando; solo in questo modo potremo fare un serio ragionamento rispetto alle proposte del governo. Nel 2015 nel settore elettrico il contributo alla produzione di energia è stato del 33,5% (Figura 2).
Un buon dato, visto che la maggior parte viene da idroelettrico e fotovoltaico, e dipendente anche dalla particolarità geografica del nostro Paese rispetto ad altri Stati europei. Da un punto di vista di costi di generazione, gli impianti di grande dimensione di eolico e fotovoltaico hanno portato alla cosiddetta market parity: l’idroelettrico di grande scala resta conveniente, mentre le biomasse come il biogas e l’idroelettrico piccolo non lo sono. In particolar modo le biomasse hanno costi largamente imputabili all’acquisto del combustibile poco comprimibile anche se autoprodotto, come già denunciavano i vari comitati contro biomasse e biogas, sostenendo la non economicità di questi impianti. E ora per la prima volta la SEN ammette anche che sono inquinanti, soprattutto per le emissioni di polveri sottili.
Sempre nel 2015 nel settore del riscaldamento e raffrescamento le rinnovabili coprivano il 19,5%, di cui la quasi totalità (il 73%) è rappresentato dalle biomasse, altamente impattanti sull’ambiente. Stiamo parlando principalmente delle stufe a pellet, e il dato trova ragione nei bassi costi dello stesso pellet. Per quanto riguarda i trasporti, la penetrazione del rinnovabile rappresenta appena il 6,4%, di cui il 76% è dato dai biocarburanti di prima e seconda generazione, e soprattutto quelli di prima hanno un impatto ambientale non trascurabile.
Particolare attenzione, per analizzare le rinnovabili, deve essere data al consumo nazionale per settore (Figura 3). I trasporti, i servizi e il residenziale incidono sul 75% del fabbisogno totale di energia: i trasporti consumano in gran parte petrolio, il residenziale consuma gas. Partendo da questi dati si deve riflettere sull’utilizzo delle rinnovabili. La sostituzione nei trasporti dei prodotti petroliferi con i biocarburanti avrebbe comunque un impatto, soprattutto sul consumo di suolo per le coltivazioni, oltre che per le emissioni. Anche nel residenziale la sostituzione del gas metano con biomasse (pellet) non risolverebbe il problema ambientale per le emissioni.
La SEN propone dunque aumenti delle rinnovabili, ma di quali aumenti si parla? L’obiettivo del 27% minimo di rinnovabili entro il 2030 è declinato in un 48%-50% di rinnovabili elettriche, 28-30% di rinnovabili per riscaldamento e raffrescamento e 17-19% di rinnovabili per trasporti. “Per i nuovi impianti a bionergie di media e grande taglia, come detto caratterizzati da costi di generazione elevati, da costi variabili elevati e connessi ai prezzi delle materie prime per l’intera vita tecnica, nonché per i significativi problemi di emissioni inquinanti, si ritiene che non debbano più essere previste forme di sostegno tariffario”: almeno biogas e biomasse resteranno senza incentivi.
“Per quanto riguarda le bio-energie già esistenti, è opportuno segnalare come queste fonti rappresentino una singolarità nel panorama delle rinnovabili. Come già più volte rimarcato, a differenza delle altre, le bio-energie sono caratterizzate da alti costi variabili, imputabili soprattutto ai costi della materia prima, da cui deriva la richiesta di mantenimento di generosi incentivi anche dopo l’ammortamento (argomento oggetto di una recente legge e di una imminente notifica alla Commissione europea). Il settore dunque esprime una richiesta di incentivo pubblico costante e apparentemente non riducibile, nemmeno nei casi in cui la materia prima dovrebbe provenire da un’autoproduzione agricola. In ogni caso, al fine di ridurre il peso degli oneri di sistema in bolletta e di stimolare soluzioni che a tendere possano raggiungere la market parity, è necessario ridimensionare le forme di incentivazione per le bio-energie esistenti, poiché il costo variabile della materia prima non dà segnali di riduzione nel tempo, e anzi, probabilmente, si mantiene alto proprio a causa degli incentivi”.
La SEN tende dunque a valutare le potenzialità del biometano, che sembra essere un’alternativa efficiente per convertire biogas in energia. Già oggi il biometano può contare su un potenziale di circa 2,5 miliardi di metri cubi, con un potenziale massimo teorico di crescita stimato al 2030 pari a 8 miliardi di metri cubi. “Lo sviluppo del biometano consentirà di destinare almeno una parte del biogas usato per la produzione elettrica soprattutto ai trasporti, nel quale potrà sostituire biocarburanti di importazione senza oneri aggiuntivi per i consumatori. Anche l’immissione del biometano nella rete gas per la generazione di energia elettrica all’interno di impianti CCGT può portare una serie di vantaggi al sistema elettrico italiano rispetto al semplice utilizzo di biogas in turbine tradizionali”.
Quindi la produzione di biogas verrà trasformata in biometano. Ma i problemi rimarranno, infatti i costi di produzione restano alti e non comprimibili e la combustione del biometano, sia nei trasporti che in turbine, avrà impatti negativi sull’ambiente. Il bioetano è infatti da mettere al pari del metano. In conclusione, nel settore riscaldamento e raffreddamento le rinnovabili, pur aumentando, non vedranno grandi novità, lasciando un grande punto interrogativo, mentre in quello dei trasporti l’incremento arriverà dai biocarburanti e dal biometano, con effetti sull’ambiente già evidenziati. Il settore biocarburanti viaggerà anche attraverso la riconversione del settore della raffinazione italiana; la truffa del biometano dunque si sta per compiere, attraverso incentivi che avranno ricadute in bolletta.
Di fatto il governo sta quindi avanzando proposte di rinnovabili con forti impatti ambientali, mentre il lavoro da fare dovrebbe andare nella direzione di un incremento delle rinnovabili a impatti ridotti, come il fotovoltaico e soprattutto l’efficienza energetica.
I trasporti
La questione dell’auto elettrica è appena citata nella SEN: “Atteso al 2030 un importante contributo anche dai veicoli elettrici e PHEV, che appaiono essere la migliore soluzione per la mobilità urbana privata. Ci si aspetta una particolare efficacia degli investimenti in questa tipologia di veicoli tra 5-7 anni, con una diffusione complessiva di quasi 5 milioni di veicoli al 2030”. Un Ministero dello Sviluppo economico non può risolvere la questione auto elettriche in questo modo, visto che proprio l’auto elettrica potrebbe essere una delle principali soluzioni all’abbattimento del fossile nel settore con più consumo di energia. È ovvio che una simile discussione non può che incrociarsi con il settore produttivo automobilistico, ma nessun ragionamento viene fatto in merito a investimenti seri e mirati, per sostenere una ricerca che generi prodotti competitivi sul mercato.
Un altro tema è l’incentivo del trasporto pubblico per abbattere quello su gomma. L’Italia è terza in Europa nella graduatoria dei Paesi con la maggiore quota di trasporto merci su strada, dopo Spagna e Gran Bretagna. L’86% delle merci viaggia su gomma; su rotaia viaggia appena il 6%. Nelle grandi città italiane il mezzo di trasporto privato è il preferito, come confermano gli ultimi dati: la quota degli spostamenti in auto è passata dall’8,1% del 2014 al’8,3% del 2015, mentre è diminuita quella effettuata con mezzi pubblici, dal 14,6% (2014) all’11,7% (2015) (Fonte Cdp, Asstra). Dunque anche per il settore del trasporto pubblico servirebbe un serio ragionamento, sul suo tornare a essere davvero un comparto pubblico – gestito dalle varie comunità – e oggetto di forti investimenti strutturali: oggi spesso dietro la scelta dell’auto privata c’è l’impossibilità ad avere un’alternativa.
La questione abitativa
Il 77,4% delle famiglie italiane è proprietaria della casa in cui vive: si tratta di quasi 20 milioni di nuclei familiari. Solo l’8,8% dello stock abitativo è dato in locazione. È la fotografia del patrimonio immobiliare italiano al 31 dicembre 2014, scattata dall’Agenzia delle Entrate e dal Dipartimento delle Finanze del Ministero dell’Economia.
Secondo quanto pubblicato dall’Istat nel “Rapporto Bes 2016: il benessere equo e sostenibile in Italia”, nel 2015 “circa il 9,6% della popolazione lamenta condizioni abitative difficili”. Percentuale molto più alta rispetto alla media Ue: fanno peggio solo i Paesi dell’Est (Polonia, Bulgaria, Lettonia, Ungheria e Romania), meglio di noi anche Grecia, Portogallo e Spagna. Aumenta il fenomeno del sovraffollamento (dal 27,2% del 2014 al 27,8% del 2015). Stando alle definizioni Eurostat, per sovraffollamento si intende la situazione in cui non ci sono abbastanza locali per tutti (per rispettare gli standard minimi ci deve essere una stanza per la coppia, una ogni due bambini e una per ogni adulto).
Il 24,1% lamenta problemi strutturali di infiltrazioni, umidità da soffitto o infissi. Il rapporto “Report urbano 2015” del Fiaip (Federazione italiana agenti immobiliari professionali) mostra che il mercato rimane dominato da edifici di qualità energetica scadente, con un peso di quelli di classe G che varia dal 72% per i monolocali al 57% per le villette. Questi numeri pongono un problema serio per l’efficientamento, soprattutto quando lo si abbina alla questione della Povertà energetica: la ristrutturazione degli edifici dovrebbe quindi essere sostenuta con forti investimenti pubblici.
Energia bene comune
La questione energia è strettamente legata a molti settori che impattano sulla vita sociale ed economica. Per questo sia la produzione che l’uso non possono che partire da un’attenta riflessione intorno al concetto di bene comune. L’odierno modello energetico basato su una struttura centralizzata e una gestione monopolistica o oligopolistica è il paradigma dell’attuale sistema economico globale, che si sta rivelando insostenibile ambientalmente, economicamente e socialmente. Il processo di liberalizzazione messo in atto negli anni passati ha di fatto mercificato e privatizzato l’energia, ma l’energia non può essere considerata una merce con cui fare profitti perché è un bene comune; e da questo semplice concetto non possono che ripartire i vari movimenti di lotta. L’energia deve essere sviluppata su un modello decentrato e comunitario, dove ogni comunità non sia più solo un soggetto consumatore ma diventi anche produttore e utilizzatore; in tal modo l’uso energetico non risponderà più a criteri speculativi o di mercato ma a un bisogno razionale, evitando una dissipazione dannosa tanto per l’ambiente che sul piano economico.
Le aziende energetiche dovrebbero tornare a essere pubbliche e la loro gestione data in mano alle comunità, che in modo consiliare dovrebbero decidere produzione e utilizzo. Per farlo è necessario riconsiderare anche la proprietà (pubblica) e il ruolo della Cassa Depositi e Prestiti, che potrebbe sostenere finanziariamente il progetto energia bene comune.
Proposte di cui si è parlato il 15, 16, 17 settembre scorso a Melendugno, Lecce, all’interno di una partecipata iniziativa contro le grandi opere energetiche: partita dal movimento No Tap, ha coinvolto decine di comitati e movimenti nazionali che lottano per la difesa dei propri territori. Divisi per tavoli tematici, non solo si è discusso e fatto sintesi delle battaglie e delle esperienze di lotta, ma si è rilanciata una base comune, un programma alternativo a quello del governo, delle multinazionali energetiche e delle banche. Al centro della discussione la questione di un modello di sviluppo differente in chiave anticapitalista, e l’importanza dell’unità delle lotte a livello nazionale e internazionale per la difesa dei territori; si è parlato di modelli alternativi decentrati e comunitari e di diritto alla resistenza e all’autodeterminazione. Un importante punto di partenza che porterà a mobilitazioni nazionali al grido di Né qui Né altrove.
1) Cfr. Enrico Duranti, L’Italia Hub del gas: disastrose scelte di politica energetica, Paginauno n. 51/2017
2) Cfr. Enrico Duranti, Sismicità indotta: un rischio concreto, Paginauno n. 53/2017