La resa dei conti di una sinistra miope
Si fa un gran parlare, nei salotti a sinistra del Pd, di un vento nuovo che soffia in Europa: Syriza in Grecia e Podemos in Spagna. L’entusiasmo con cui se ne discute ha un che di infantile. Certo la novità è positiva, e ai due partiti va il merito di voler portare al centro del dibattito europeo un pensiero politico alternativo al neoliberismo dominante, ma ciò di cui la sinistra pare non rendersi conto è la conseguenza che questo avrà sulla sua visione politica, la resa dei conti che l’aspetta; da qui, dal non capirlo, l’infantilismo.
Syriza e Podemos costringeranno l’Unione a togliersi il velo, a mostrare la sua radice ontologica di istituzione nata al servizio del grande capitale finanziario e manifatturiero – in una parola, la sua natura classista – e questo obbligherà la sinistra a confrontarsi con la miopia che la caratterizza da quando ha abbandonato gli strumenti di analisi della propria cultura, primi fra tutti quelli economici. E a trarne le conseguenze politiche: sinistra e Unione europea sono incompatibili.
Né Syriza né Podemos parlano di uscita dall’euro, al contrario, vogliono restarci. Entrambi sono unanimemente definiti, dalla politica e dai media, ‘sinistra radicale’, e già questo dovrebbe indurre a una prima riflessione. I programmi dei due partiti non vanno oltre un’impostazione socialdemocratica, e ciò significa che per la Ue la socialdemocrazia – che ha le sue radici proprio in Europa – è oggi considerata una politica ‘radicale’; e questo non sorprende. Disarma invece che anche la sinistra la consideri tale, e abbia fatto propria, rimettendola in circolo a sua volta, la definizione imposta dall’ideologia neoliberista – e le parole sono importanti, eccome! Un atteggiamento che rivela quanto il pensiero unico dominante, in un tempo relativamente breve, abbia colonizzato ogni spazio, modificato cultura, storia politica e punti di riferimento della stessa sinistra. In fondo, anche l’idea che l’Unione possa essere modificata dall’interno è un tassello del medesimo pensiero dominante, della propaganda che rappresenta la Ue come una realtà politica democratica, un’istituzione nata per il benessere dei cittadini europei.
Il partito greco ha vinto le ultime elezioni nazionali, e probabilmente l’attuale situazione economica giocherà a suo favore: dopo la recessione puntuale è arrivata la deflazione e la Bce, in linea con il proprio mandato di mantenere l’inflazione intorno al 2%, ha varato il Quantitative Easing (QE), che inietterà liquidità nel sistema attraverso l’acquisto di titoli pubblici e privati sul mercato secondario, dando fiato agli investimenti produttivi (o a un’altra bolla finanziaria, si vedrà). Syriza quindi si troverà davanti un’Unione disposta ad allentare la stretta monetaria, pena la sua implosione economica.
In aggiunta, la critica all’austerity è sempre più condivisa – in politica, dai media e dal capitalismo manifatturiero, che da tempo chiede soldi pubblici a gran voce – e questo porterà qualche lieve vantaggio al partito ellenico nelle sue trattative con l’Unione. All’iniziale terrorismo politico dei governi europei nei confronti della probabile vittoria di Tsipras si è infatti sostituita, nelle due settimane precedenti il voto greco, una presa di posizione più conciliante: perfino nelle colonne del Corsera, così come nelle fila del Pd, Syriza non era più rappresentato come un pericoloso ‘partito comunista’, ma come un soggetto giustamente critico verso l’eccesso di austerità.
Il cosiddetto “Programma di Salonicco” annunciato da Syriza nel settembre 2014 è più pragmatico delle proposte di Podemos. Al momento della sua stesura, il partito greco era consapevole della possibilità del voto a breve termine, a causa dello snodo dell’elezione del presidente ellenico a gennaio e le conseguenti, probabili, dimissioni del governo. Podemos, al contrario, ha ancora davanti diversi mesi prima di doversi confrontare con l’attuazione di un programma – le elezioni spagnole sono previste a novembre – e può ancora cullarsi nell’utopia.
I due partiti sono innanzitutto costretti a fare i conti con la mancanza di sovranità monetaria; devono dunque assumere il punto di vista neoliberista della Ue, che fa del debito pubblico questione centrale, e affrontarlo come primo scoglio. Entrambi propongono una rinegoziazione, da attuare non unilateralmente ma accordandosi con gli altri Stati europei, i quali dovrebbero quindi accettare di vedere stralciato una parte del credito detenuto dalle loro banche private; dovrebbero poi acconsentire a un abbassamento dei tassi di interesse sul debito rimasto, e a un allungamento dei tempi di restituzione. Probabile che, dati i tempi di politiche monetarie espansive, verrà trovato un accordo sul secondo punto – già al forum di Davos, a gennaio, la Finlandia, Paese ‘falco’ delle politiche rigoriste europee, dichiarava attraverso il suo premier Alexander Stubb di essere disponibile a una modifica delle condizioni di rientro del debito greco – ma è impensabile l’accordo sulla cancellazione, seppur parziale: creerebbe un precedente non gestibile per l’Unione.
L’allentamento del rigore monetario non significa tuttavia la rinuncia alle politiche neoliberiste. Unanimi infatti Bce e Commissione continuano a ribadire che le ‘riforme strutturali’ devono essere attuate: privatizzazioni, precarizzazione del mercato del lavoro, detassazione per le imprese, cancellazione del welfare. Syriza e Podemos pensano invece che una volta arrivati al governo dei rispettivi Paesi potranno decidere le politiche fiscali, economiche e sociali interne, dandogli un’impronta socialdemocratica. I loro programmi sono ricchi di buone intenzioni.
In sostituzione del Memorandum della troika, il partito greco propone un “Piano di ricostruzione nazionale” (costo stimato 12 miliardi) che prevede diversi sussidi sociali (elettricità gratuita e buoni pasto per 300.000 famiglie e garanzia abitativa per 30.000, assistenza medica e farmaceutica gratuita e trasporti pubblici gratuiti per i disoccupati), politiche fiscali redistributive (abolizione della tassa sulla prima casa, a eccezione delle abitazioni di lusso, introduzione di una imposta sulle grandi proprietà, esenzione tributaria per i redditi fino a 12.000 euro annui, restituzione della tredicesima alle pensioni sotto i 700 euro), forme di giustizia sociale (sospensione dei pignoramenti della prima casa, cancellazione parziale del debito privato per le persone sotto la soglia di povertà), politiche sul lavoro (ripristino del salario minino a 751 euro e della normativa relativa ai diritti del lavoro, con la reintroduzione dei contratti collettivi e l’abolizione delle leggi che consentono licenziamenti ingiustificati di massa e l’affitto dei lavoratori), blocco delle privatizzazioni.
Il dato con cui Tsipras evita di fare i conti è che senza la sovranità monetaria un Paese non può decidere la propria politica economica. Se parliamo di contentini, lo spazio c’è, ma l’Europa non accetterà mai un cambiamento di ideologia politica, dal neoliberismo alla socialdemocrazia; potrà cedere sulle misure di emergenza sociale, ma il vero nodo sono il mercato del lavoro e le privatizzazioni, e lì non c’è trattativa possibile. La Grecia si troverà quindi di fronte al fatto di non avere i soldi per sostenere un simile programma di governo, e di non poterli stampare; in un circolo vizioso, con un simile programma di governo non potrà nemmeno trovarli sul mercato finanziario privato (dal paradigma neoliberista e speculativo) senza dover pagare interessi da usura che la porterebbero all’insolvibilità. Il Paese è quindi nelle mani della Bce, e il Quantitative Easing potrà essere una risposta, ma (ovviamente) non è a costo zero.
L’operazione è legata a doppio filo alla quota di partecipazione di ogni Paese nel capitale della Bce stessa: significa che dei 1.140 miliardi previsti fino a settembre 2016, sarà destinato alla Grecia appena il 2% (22,8 miliardi). Potrebbero essere sufficienti. Per riceverli, tuttavia, la Grecia dovrà rimanere all’interno del ‘piano di salvataggio’ della troika. Progettando un mirabile cappio al collo infatti, la Bce ha stabilito che sono acquistabili solo titoli con rating superiore a BB, ammettendo l’eccezione per Grecia, Portogallo e Cipro, che registrano rating inferiori, a patto che i tre Paesi rispettino il piano; se quindi Syriza porterà avanti il progetto di cancellazione parziale del debito, si collocherà automaticamente fuori dal programma di salvataggio, e quindi fuori dal QE; ed è probabile che se non rispetterà il Memorandum della troika, attuando politiche interne socialdemocratiche, si posizionerà altrettanto automaticamente fuori dal piano di salvataggio e dal QE. Dei 22,8 miliardi poi, potrà essere destinato all’acquisto di titoli pubblici un importo non superiore al 33% del debito di ogni Stato (quello della Grecia è pari a 315 miliardi: in teoria quindi, il suo intero QE potrà essere usato per l’acquisto di titoli pubblici, ma ancora non è chiaro); di questa quota la Bce acquisterà direttamente, facendosene quindi garante in caso di insolvenza, solo l’8%: il rimanente 92% sarà in capo alla Banca centrale greca.
Siamo di fronte a un paradosso: l’Unione europea, più realista del re, sembra prepararsi a una fuoriuscita dall’euro della Grecia, tutelandosi dall’eventuale contraccolpo finanziario, mentre Syriza pare Alice nel paese delle meraviglie.
Ancora più illusorio, abbiamo detto, è il programma di Podemos. Accanto a misure simili per pensiero politico a quelle indicate dal partito greco, e differenti per la diversa situazione dei due Paesi (riduzione della settimana lavorativa a 35 ore, cancellazione delle leggi che precarizzano il lavoro, aumento del salario minimo, pensione pubblica non contributiva, tassa patrimoniale ecc.), Podemos attacca il capitale finanziario e la speculazione, proponendo maggiori imposte, la regolamentazione del mercato, la separazione tra banche di investimento e banche commerciali, e il controllo pubblico su settori come telecomunicazioni, energia, trasporti, sanità. Ma ciò che più lascia esterrefatti è la proposta di trasformare la Bce in una istituzione ‘democratica’ sotto il controllo del Parlamento (immaginiamo europeo, non è specificato), subordinata alle scelte politiche.
Ora: la proprietà della Bce è in mano alle banche centrali dei diversi Paesi europei: la Bundesbank ne possiede il 18%, il Banque de France il 14%, la Banca d’Italia il 12%; il Banco de Espana il 9% e la Bank of Greece, come abbiamo visto, appena il 2%. È chiaro che solo una decisione politica può rivedere la natura e l’impostazione delle diverse istituzioni europee, Bce compresa: governi nazionali presenti in Commissione e Consiglio, e rappresentanti dei partiti che siedono in Parlamento. Occorre quindi domandarsi che forza potrebbero esprimere in Europa Syriza e Podemos per imporre una trasformazione.
Il vero potere è in mano alla Commissione. Ipotizzando una vittoria di Podemos alle prossime elezioni nazionali, e quindi la creazione di un fronte socialdemocratico europeo, Grecia e Spagna porterebbero in Commissione un rappresentante a testa su 28: ininfluenti per cambiare le cose. Un po’ di potere ce l’hanno anche il Consiglio – e anche lì i due Paesi esprimerebbero insieme due delegati su 28 – e il Parlamento (in realtà molto meno di quanto abbia sulla carta). Le prossime elezioni europee si terranno nel 2019. In un esercizio di ottimismo, immaginiamo una vittoria schiacciante dei due partiti e, ragionando per eccesso, attribuiamo a Syriza e Podemos tutti i seggi relativi ai due Paesi (cosa difficile, vista la natura proporzionale delle diverse leggi elettorali europee): arriverebbero a contare 75 parlamentari (54 la Spagna e 21 la Grecia) su 751. Non uno di più, perché i seggi sono ripartiti tra gli Stati membri in base alla popolazione di ciascun Paese in rapporto a quella complessiva dell’Unione. La Germania, da sola, ne conta 96.
In questi anni di crisi economica non è stata nemmeno ampliata la missione della Bce, aggiungendo al controllo dell’inflazione lo scopo della piena occupazione – come è per la Fed statunitense. Pensare che la Banca centrale europea possa addirittura diventare ‘democratica’, è una ingenuità politica non giustificabile. Nei primi tre Paesi, Germania, Francia e Italia, che da soli detengono il 44% del capitale della Bce, una sinistra modello Podemos, se anche esistesse strutturata come partito e si presentasse alle elezioni, non avrebbe alcuna possibilità di arrivare al governo; credere diversamente significa non avere il polso della realtà. Solo la Francia vedrà forse all’Eliseo una forza politica che contesta, non solo sulla carta, l’approccio neoliberista della Ue, ma è un partito di destra, il Front national di Marine Le Pen, che dall’Unione dichiara di voler uscire, non imprimerle un’altra direzione politica. In Italia, se è chiara la via intrapresa della Lega Nord di Salvini, anch’essa di destra ed euroscettica, non si è ancora capito dove intenda andare il Movimento 5 stelle (o quel che ne resta).
Una realtà, quella europea, che Tsipras ben conosce, al pari di Pablo Iglesias, leader di Podemos, e attualmente parlamentare a Bruxelles. Eppure entrambi non ne traggono le conseguenze politiche. Non hanno il coraggio di portare fino in fondo l’analisi: l’Unione europea non può essere cambiata dall’interno. Solo quando questo sarà finalmente chiaro, potremmo iniziare a parlare di un programma di sinistra davvero ‘radicale’.