intervista di Giuseppe Ciarallo |
Il blues, inteso come genere musicale ma soprattutto come vero e proprio stile di vita, nelle parole di Fabio Treves, musicista milanese, leader della prima blues band italiana
Probabilmente una delle domande che ti è stata rivolta più frequentemente è: quando ti sei accorto per la prima volta che il blues doveva diventare qualcosa di più della ‘tua’ musica, e cioè una parte imprescindibile di te, un autentico modo di essere? Anche a me questo interessa, ma solo se messo in relazione con l’ambiente esterno. Mi spiego… quando hai avuto la folgorazione, com’era Milano? Qual era il clima che si respirava? Cosa ascoltavano, cosa leggevano, che film guardavano i giovani metropolitani, allora?
Nella mia famiglia c’era un grande intenditore di musica che era mio padre, quindi sin da piccolo sono stato abituato a sentire per casa la voce di Billy Holiday, la cornetta di Satchmo e il blues rurale di Leadbelly. Quando poi da adolescente ho cominciato a divorare il rock, ho capito da dove proveniva buona parte di quella musica che affascinava i giovani di tutto il mondo. Per me era come tornare bambino, a quei suoni magici che appartenevano alla storia di casa mia. A questo aggiungo che mio padre era un lettore instancabile e un appassionato di cinema tanto da partecipare, nel 1956, a Lascia o raddoppia, uno dei momenti più importanti dell’intera storia della televisione italiana, presentandosi proprio come esperto di Storia del cinema. Il connubio immagini e suoni è quindi una cosa che mi porto dentro, in pratica, da ben 59 anni! All’epoca i miei coetanei leggevano poco e i film preferiti nei primi anni Sessanta erano i classici 007 o di fantascienza, ma il cinema indipendente cominciava a farsi strada e, cosa che aumentava l’interesse dei giovani, spesso utilizzava come colonna sonora la musica ‘alternativa’. A proposito di mio padre, persona idealista e avida di sapere, ricordo ancora la sua enorme biblioteca fitta di volumi di ogni genere e mi torna in mente, con una punta di nostalgia, la valigia, sì parlo proprio di una valigia di quelle da viaggio, piena di libri e dischi appena acquistati, con la quale di tanto in tanto tornava a casa quasi di soppiatto per non destare l’attenzione di mia madre, al contrario donna con i piedi sempre ben piantati per terra. Quella valigia era il solo motivo di battibecco tra i miei genitori che io rammenti.
Una parte importante della musica blues è costituita dalle work songs, filone questo nel quale ha giganteggiato un personaggio straordinario come Woody Guthrie, che pur senza essere un bluesman in senso stretto, ha scritto e cantato più di un talking blues. A proposito di Woody Guthrie, sulla sua chitarra il musicista aveva inciso una frase molto impegnativa: This machine kills fascists. Come a dire, metaforicamente, che il modo più efficace per sconfiggere il fascismo è l’uso della cultura. Mi sembra una tematica molto attuale, questa, in un momento storico in cui la cultura è sotto attacco e sembrano risultare vincenti il disimpegno e l’ignoranza. Che cosa pensi in merito? Secondo te, l’arte in generale e la musica in particolare hanno questo enorme potere?
Sono d’accordo sul fatto che questa nostra epoca storico-sociale-politica sia scandita, con sempre maggiore aggressività, dalla barbarie e dalla discarica sottoculturale creata dai finti valori proposti dalla tv, di Stato o privata oramai poco cambia. Così, anche quei pochi artisti che cercano di ‘dire’ qualcosa attraverso i propri testi o la propria musica, devono poi ricorrere, per avere un minimo di visibilità, alle tv sopracitate, finendo per dover sottostare a compromessi di ogni genere, mercificando in questo modo l’opera e svilendone il valore artistico. Sono profondamente convinto, inoltre, che certa sottocultura razzista, becera e neonazista affondi le radici nell’ignoranza, nell’accezione più ampia del termine. Forse oggi persino un grande artista e un uomo straordinario come Woody Guthrie sarebbe considerato ‘fuori tempo’, anche se le sue canzoni sono, ahimè, di un’attualità disarmante soprattutto per la situazione americana. Sul potere intrinseco dell’arte e della musica in particolare, poi, credo che siano entità riconosciute pericolose dal potere, proprio per l’energia che riescono a sprigionare aprendo la mente, i cuori e le coscienze della gente. Non a caso nei paesi totalitari gli artisti sono da sempre perseguitati con un odio e una ferocia indicibili.
Tra i tanti personaggi che hai avuto la fortuna di incontrare, un posto di primissimo rilievo lo riservi, e questo per me è un invito a nozze, senza alcun dubbio a Frank Zappa. Qualche anno fa ho incontrato a Parigi Tanino Liberatore, che per Zappa ha disegnato la copertina del disco The man from Utopia, il quale nel corso di una piacevolissima serata mi ha raccontato alcuni divertenti aneddoti del Genio di Baltimora. Com’è il tuo Zappa? Che cosa ha voluto dire per te, come persona e come artista, calcare la stessa pedana del Maestro?
A tanti anni dal primo incontro con l’amico Frank e dopo il suo viaggio verso la libertà assoluta, non riesco ancora a esternare tutto quello che ho provato e vissuto nell’intensa amicizia che mi ha legato a lui. Sono orgoglioso di essere stato accettato da
lui come persona, come amico ancor prima che come semplice e modesto suonatore di armonica a bocca. Credo che la dote che ha saputo fin da subito riconoscere in me sia l’umiltà. Sono sicuro che mai Frank Zappa avrebbe chiamato sul palco una persona piena di sé, esibizionista e, in ultima analisi, antipatica. Quando dopo un’ora di attesa, fuori dal camerino del Palasport di Monaco di Baviera, i nostri sguardi si incrociarono, lui inquadrò subito il sottoscritto. Di Frank Zappa ricordo il faremagnetico, la capacità, da gran affabulatore, di conquistare l’attenzione dei presenti; spaziava da discorsi di economia globale alla musica dodecafonica, da aneddoti ‘hard’ a dissertazioni filosofiche. Dei suoi discorsi io perdevo a volte il senso o il doppio senso, perché aveva creato un vero e proprio linguaggio convenzionale, immancabilmente usato, per esempio, per comunicare sul palco coi suoi musicisti. Anche in questo, oltre che nella sua musica, Frank era un genio. Ricordo sempre con piacere, durante l’incontro con la stampa che precedette il suo concerto milanese del 1988, la risposta caustica che diede a una delle più famose ‘penne musicali’ in Italia, il quale ebbe la malaugurata idea di chiedergli: «Mr. Zappa, che cosa farà da vecchio quando avrà perso la voglia e gli stimoli musicali?» E lui, senza far trascorrere nemmeno un nanosecondo: «Sicuramente il critico musicale». Questo era Zappa! E quando a distanza ormai di 20 anni riascolto il cd in cui la sua voce annuncia “Fabio Treves” con un particolare accento sulla ‘e’… beh, non nascondo che mi viene ancora la pelle d’oca.
A proposito di critici musicali, Frank Zappa non era molto tenero con loro. Ci sono due sue frasi celebri, estremamente taglienti, nei confronti della categoria. La prima è: “Buona parte del giornalismo rock è fatta da gente che non sa scrivere che intervista gente che non sa parlare per gente che non sa leggere”. E la seconda, forse ancor più definitiva della prima è: “Parlare di musica è come ballare di architettura”. Com’è il tuo rapporto con la critica, in un paese in cui lo spazio per i circuiti alternativi e indipendenti è alquanto limitato?
Tranne rari casi di giornalisti musicali che svolgono la loro professione con il necessario amore e la voglia di ascoltare le parole dell’artista più di quelle della loro domanda, non ho un gran bel feeling con loro. E questo sin dai tempi in cui ‘l’innominato imbecille’ di un quotidiano di Milano definì la musica della Treves blues band “contenutisticamente di destra”, o come quando il filologo critico musicale del Quotidiano dei lavoratori, giornale del gruppo politico Avanguardia operaia, nel 1978 scrisse che dovevo ringraziare di suonare e vivere qui, perché a Chicago sarei stato preso a calci nel sedere dai veri bluesman, adducendo il pretestuoso motivo che un bianco non poteva e non doveva suonare la musica dei neri per non svilire le radici e la carica di ribellione in essa contenuta, saltando a piè pari l’apporto che nel blues e nel jazz molti musicisti bianchi avevano dato. Anche il maestro Polillo non fu tenero con la Treves Blues Band, che definì un gruppo di rocchettoni che niente aveva a che fare con la musica vera. Per fortuna nella mia vita ho avuto anche molte attestazioni di stima da parte di veri amici come per esempio Renzino Arbore, il quale ha sempre apprezzato la mia cocciutaggine e l’impegno nel portare avanti quella che per me è una vera e propria missione. Detto questo, oggi non mi interessa poi così tanto che qualche ‘cameriere dei padroni’, nell’ambiente musicale parli dei miei cd o della mia attività concertistica. Ormai la mia storia è questa e il mio nome, che piaccia o meno a certi personaggi, è nelle enciclopedie della musica italiana, e dico questo senza presunzione ma, con una punta di soddisfazione, in risposta ai casi di cui ti ho accennato.
Frank Zappa nella sua autobiografia ti ha definito “un anarchico”. Bene, un anarchico non crede nelle gerarchie, nell’esercizio del potere, nei meccanismi preordinati, in quanto per sua stessa natura rincorre l’utopia. Qual è la tua utopia? Qual è la tua ricetta utopica per liberare l’uomo da questa cappa asfittica di becera ignoranza? Scommetto che ha a che fare con il blues…
Il fatto che Frank Zappa, nello scrivere la sua autobiografia, si sia ricordato di me, definendomi ‘anarchico’, è una delle cose che maggiormente mi commuove e della quale più vado fiero, soprattutto quando penso a tanti colleghi che magari fanno fatica a salutare quando li incroci. La mia ricetta utopica… penso che senza passione, sudore, fatica e lacrime, non possa esserci soddisfazione, non ci sia vita. Non è stacanovismo il mio, o peggio autoflaggelazione. Credo che ognuno di noi dovrebbe quotidianamente rivolgere un pensiero a quanto sia importante avere e conservare la libertà, e magari sentirsi grati a chi questa libertà ha reso possibile, pagando con la propria vita. Una libertà spesso usata male, intesa come possibilità di dire e fare anche le cose più assurde. A quelle persone che credono che la libertà sia qualcosa calata dall’alto e per la conservazione della quale non sia necessario un impegno costante, io suggerirei la lettura delle lettere dal carcere di scrittori e intellettuali che hanno conosciuto sulla propria pelle il peso di una dittatura. Vorrei che i giovani sapessero che non più di trent’anni fa, a Milano, c’era da aver paura a passare in piazza San Babila con un libro della Feltrinelli in mano, con un giornale di sinistra nella tasca dei jeans o semplicemente con i capelli lunghi sulle spalle. Mi piacerebbe che si portasse nelle scuole questa conoscenza e questo amore per far capire ai ragazzi che anche il rincoglionirsi davanti alla tv spazzatura è, paradossalmente, frutto di una conquista di libertà, quella libertà che ancor oggi è negata ai loro coetanei in molte parti del mondo. Vorrei poter tornare indietro nel tempo, al periodo degli sceneggiati in bianco e nero perché quella era una tv intelligente. Attraverso gli sceneggiati di quegli anni, la gente ha avuto un approccio con la grande letteratura. Stevenson, Cronin, Dostoevskij, Tolstoj. Adesso se chiedi a un adolescente chi era Cronin, Tennessee Williams o Dickens ti risponde “boh?” mentre conosce alla perfezione l’intera formazione dell’Isola dei famosi.
Immagino che in ogni intervista ti venga chiesto qual è il disco che ti ha cambiato la vita. Va bene, te lo chiedo anche io, però subito dopo, visto che siamo ospiti di una rivista che si occupa di letteratura, ti chiedo se c’è stato un libro altrettanto importante per te, anzi, mettiamola giù così: se dovessi pensare a un concept album ispirato a un’opera letteraria, su quale libro ricadrebbe la scelta e perché?
Alla prima domanda proprio non saprei cosa rispondere. Forse il primo vinile di blues che ho avuto tra le mani: Sonny Terry & Brownie Mc Ghee, nel lontano 1959. Per il libro, forse perché racconta uno spaccato di vita americana che ritengo profondamente blues, è Furore di John Steinbeck. Opera, questa, quanto mai attuale con una crisi economica in atto, che qualcuno ha paragonato senza mezzi termini a quella del 1929. La storia di quella famiglia alla ricerca di un raggio di libertà e di riscatto mi sembra qualcosa di alto, di grande, di spirituale oltre che, come già detto, di attuale. Mi piacerebbe trasporre in blues gli stati d’animo di quei meravigliosi personaggi. A me poi piace un sacco il blues acustico e quel libro mi risuona blues dalla prima all’ultima pagina.
La Treves Blues Band è la più antica band di blues italiano in quanto ci stiamo avvicinando alle trentacinque candeline. Nel sentirti parlare della tua musica, affiorano una passione, un entusiasmo e una freschezza sorprendenti per un musicista navigato come tu sei. Sembra che il blues agisca su di te come una specie di sostanza rigeneratrice, o sbaglio?
No, non sbagli. Credo comunque che la mia energia, intesa come entusiasmo e passione, sia parte di quell’Energia con la ‘E’ maiuscola, di quella forza vitale che mi invade ogni giorno, che mi dà come una sorta di vertigine e di pienezza paragonabile quasi a una sensazione di soffocamento. È l’affetto di persone che ho visto magari una sola volta, o quello dei miei ex compagni di scuola o di militanza politica che vedono in me quasi un ‘santone’, un’icona, perché ho tenuto duro con il blues, perché non ho mai voluto prendere la tessera di un partito, perché dico sempre quello che penso, perché sono capace di dar retta ai giovani e porto ancora i capelli lunghi come ai tempi dell’Isola di Wight, perché non ho mai rinnegato niente del mio passato, perché rispondo personalmente alle mail che arrivano all’indirizzo della band, occupazione che ai più potrà sembrare noiosa ma che so essere necessaria per guadagnare sempre più proseliti al blues. È il benessere che deriva dal pensiero libero, dal mangiare sano e, ringraziando il cielo, dalla salute che ancora c’è, dal leggere un buon libro e dal buttare fuori, soffiando nel ‘ferro’, le tossine che si accumulano.
E per concludere, spiegaci la storia del “Puma di Lambrate” e raccontaci i tuoi progetti per il futuro, ossia: che cosa vuoi fare da grande?
Molti anni fa in occasione di un concerto di John Mayall, un giornalista scrisse: “Tra poco si esibirà a Milano Mayall, il Leone di Manchester, ma anche noi qui a Milano possiamo vantarci di avere Fabio Treves, il Puma di Lambrate!” Da allora questo curioso nomignolo mi ha accompagnato in radio, ai concerti e tra i fan. Da grande vorrei continuare a lavorare per diffondere il blues, fino alla vittoria finale.
BLUES ALLE MASSE! LE MASSE AL BLUES!