Intervista di Massimo Vaggi
Fabrizio Lorusso e Romina Vinci sono stati sull’isola di Haiti in due momenti diversi. Il primo nel febbraio del 2010, immediatamente dopo il terremoto disastroso che ha fatto oltre 250 mila morti, la seconda nell’ottobre del 2011, nell’emergenza di una ricostruzione mai iniziata. Da quei viaggi è nato il libro Le macerie di Haiti (L’Erudita, 2012), che ha l’enorme pregio di cercare di evitare di spegnere i riflettori su un Paese in cui, come scrive un’autrice contemporanea haitiana, Yanick Lahens, “la disgrazia ha logorato le anime”, e dove a uccidere sono state la povertà e le condizioni di degrado, anche urbanistico, ancor prima del sisma. Il 10% della popolazione detiene l’85% della (relativa) ricchezza nazionale, il 90% è senza acqua potabile, il 60% senza alcuna assistenza sanitaria, un terzo non dispone in casa di servizi igienici, il 95% delle abitazioni utilizzano legna o carbone; solo il 20% dei giovani frequenta la scuola primaria e il salario giornaliero minimo per legge, e massimo di fatto, è di circa 200 gourde – tre euro – quando un operaio ne spende in media almeno 120 al giorno per il trasporto e il vitto. Un Paese dove la società civile organizzata – che siano sindacati o aggregazioni politiche – trova unicamente risposte repressive.
Il libro è stato scritto a due mani e in due periodi diversi. L’intenzione era anche quella di offrire una rappresentazione di quanto, in un anno e mezzo, è stato fatto e di quanto non è stato fatto per la ricostruzione?
Anche se inizialmente non c’è stata una ‘pianificazione’ o un’intenzione ben definita al riguardo, dato che l’idea del libro è nata solo alcuni mesi dopo che io e Romina eravamo tornati in Messico e in Italia rispettivamente, direi che uno dei pregi del reportage è proprio quello di evidenziare come nel 2010 e poi ancora alla fine del 2011 la situazione drammatica del Paese e della sua stremata capitale fosse quasi la stessa. Col 5% delle macerie sgomberate e ancora 500 o 700 mila persone nei campi di sfollati o per strada a seconda delle stime, con oltre mezzo milione di contagiati dal colera e oltre 7.000 morti, con davvero pochi progetti d’investimento finanziati e realizzati, ancora oggi, dagli aiuti internazionali, possiamo affermare che la ricostruzione è una chimera. L’aspettativa di ‘rinascita’ e rifondazione del Paese che c’era nel 2010 è svanita nelle promesse, nei ritardi e nella concorrenza delle multinazionali straniere per accaparrarsi gli appalti della ricostruzione e i progetti produttivi.
Questa gara continua rallenta o blocca molte opere oppure le subordina a interessi non propriamente ‘nazionali’; a crearla è stata la massa enorme di aiuti che arrivarono dopo il sisma, circa 11 miliardi di dollari, che promettevano miracoli. La solidarietà, pur nel dolore, che si percepiva per le strade nel febbraio 2010 aveva spazzato via il pericolo dei furti, della violenza e della delinquenza che, dopo quella fase è tornato invece a farsi sentire. Lo shock nazionale aveva creato un ambiente quasi propizio alla ricostruzione, al lavoro comune e a una specie di stato d’eccezione simile, e perdonami il paragone azzardato, a quando è finita la seconda guerra mondiale in Europa, almeno questa era la mia impressione, basata sui racconti e la storia di quel periodo, ma poi per molti motivi la trasformazione sperata non c’è stata. E lo constatiamo entrambi, io e Romina Vinci, con occhi e in momenti diversi.
Quali sono le macerie di Haiti? I cumuli mai rimossi di quanto resta delle case in mattoni o una popolazione senza risorse materiali, allo stremo delle possibilità e alla disperata ricerca di nuove potenzialità umane e politiche e di una rivalutazione delle proprie notevoli tradizioni culturali?
Le macerie sono tante, di cemento e sassi, ma anche di speranze e idee frantumate. Di vite interrotte, come la scuola, la salute, lo Stato e la normalità che mai è esistita ad Haiti. Le macerie stavano già lì, c’erano anche prima del terremoto del 12 gennaio 2010, prima di quella scossa di 7,3 gradi durata 40 secondi che ha spinto un Paese povero e semicoloniale nel baratro dell’ingovernabilità totale, nel circolo vizioso della sua stessa storia. Sono quindi i cumuli del paternalismo delle potenze che da secoli si spartiscono i destini e le risorse dell’isola: Francia, Canada, Stati Uniti. Non amo il discorso tipico antimperialista, cioè quello che attribuisce tutti i mali di un popolo e di un Paese solo agli stranieri, ai fattori esterni e alla storia sfortunata dell’America latina, però ammetto che Haiti è il Paese che più si avvicina, tra quelli che conosco, a una colonia nel senso classico della parola. E vedere questo oggi, vederlo dopo anni di catastrofi naturali e spoliazioni, pesa molto di più e va sicuramente denunciato.
Il personaggio non dichiarato del libro è Evel Fanfan, una persona che certamente non ha bisogno di nuove certezze per immaginare un futuro, per quanto difficilissimo. Ci dici qualcosa di lui e della sua associazione, Aumohd?
Sì, io sono arrivato a lui grazie a un amico giornalista e latino-americanista, Martin Iglesias, che in passato aveva collaborato con Evel quando quest’ultimo si occupava di aiutare la popolazione dopo la stagione degli uragani del 2008. Gli avvocati della Aumohd, un’associazione per la difesa
dei diritti umani ad Haiti di cui Evel è presidente, avevano fondato una cucina comunitaria di quartiere e un piccolo presidio medico. E sono iniziative che anche dopo il terremoto Evel ha cercato di portare avanti, ma le risorse erano sempre meno e il danno inflitto dalle forze della natura tremendamente più grande, quindi era quasi impossibile.
Evel è un gran negoziatore, un mediatore culturale tra Haiti e il resto dell’America latina e dell’Europa, tra ‘l’Occidente’ e il suo popolo che, sempre più spesso, sono in balia di incomprensioni e malintesi nefasti per il Paese e la sua gente. Il contatto continuo di Evel con altri popoli, altri interlocutori, è un fattore importante che, insieme ai suoi viaggi e alla sua indole da iperattivo cronico, spiega un po’ come mai lui riesca a costruire una visione di futuro in mezzo alla disgrazia: cerca in fondo di prendere il meglio delle varie esperienze con cui entra in contatto e sa ascoltare, sebbene sembri sempre impegnato in tremila cose che lo distraggono.
L’Aumohd era nata per difendere i diritti dei condannati nelle carceri haitiane, poi il gruppo si è occupato anche di lavori socialmente utili e aiuto alla popolazione dello slum peggiore della capitale, ben descritto da Romina nel libro, che si chiama Cité Soleil, la città del sole. Infine, ed è una notizia di pochi giorni fa, pare che siano riusciti a portare il caso delle stragi di Grand Ravine di fronte alla Corte interamericana dei diritti umani.
Nel periodo 2004-2006, dopo il golpe contro il presidente Aristide o, come sostengono alcuni, dopo la sua ‘fuga’ forzata dagli americani, ci fu un periodo di ‘interregno’ nel quale le violazioni ai diritti umani e la repressione della polizia aumentarono vertiginosamente. In seguito anche le azioni militari della missione Onu, la Minustah, mostrarono il lato più crudele dei caschi blu nei quartieri poveri di Porto Principe, specialmente a Cité Soleil.
In tutto questo l’Aumohd entra come operatore in difesa dei più deboli e riesce a far incarcerare per qualche settimana i poliziotti responsabili di alcune stragi storiche, come appunto quella di Grand Ravine del 2005.
La storia di Haiti è quella di un luogo segnato dal paradosso. Nel momento stesso in cui nasce, era il 1804, riscatta la libertà appena conquistata di nazione di schiavi affrancati con un debito enorme che contrae nei confronti di Bonaparte. Una volta Evel mi ha detto: è stato nella storia l’unico Paese vincitore ad aver pagato un enorme debito alla nazione sconfitta. Esiste una linea rossa, che a me sembra molto poco ‘sottile’, che unisce quel bizzarro esordio nel panorama delle nazioni indipendenti con i fatti che precipitano insieme al palazzo presidenziale, l’11 gennaio del 2010?
Esattamente. Ancora all’inizio del nuovo millennio molti governanti haitiani, Aristide in primis fino al 2004, chiedevano alla Francia un rimborso per le guerre coloniali e per quel debito illegittimo che venne lentamente ripagato. L’abolizione della schiavitù veniva pagata cara, sembrava quasi che né l’Europa né l’America potessero accettare tanta precocità e tanta sfrontatezza da parte di un popolo di colore in ribellione. Quindi la loro vittoria morale è stata pagata con un contrappasso indecente favorito dall’attitudine sprezzante della Francia prima e degli Usa poi, nel corso del XX secolo quando la potenza americana cominciò a vedere nei Caraibi il proprio cortile di casa.
Tra occupazioni militari, vere e proprie guerre, colpi di Stato e influenze di ogni tipo, gli Stati Uniti hanno tenuto quest’area sempre in scacco, subordinandola ai propri interessi economici e strategici. Perciò Haiti non è mai riuscita a rendersi indipendente del tutto, oggi ancora dipende da diecimila ong operanti sul suo territorio e dai fondi ‘concessi’, ma pur sempre condizionati, dalle multinazionali della solidarietà, dall’Onu e dai governi stranieri in lotta per accaparrarsi il business della ricostruzione attraverso le grandi imprese presenti ad Haiti (o in arrivo prossimamente…). Perciò anche gli haitiani sembrano vivere un mix di situazioni e sensazioni per cui hanno bisogno dello straniero, ma allo stesso tempo dovrebbero e cercherebbero di farne a meno per recuperare sovranità e autonomia, per riavere indietro il proprio destino per cui lottarono nel 1804 diventando la prima nazione indipendente del Latinoamerica.
Ricordi nelle tue pagine la visita del presidente francese Sarkozy il 17 febbraio 2010. Scrivi del suo impegno solenne a inviare aiuti umanitari, ma del silenzio assordante sulla richiesta di restituire almeno in parte il debito di guerra che Haiti ha pagato per 144 anni alla Francia. Scrivi delle numerosissime ong internazionali che fanno vita ‘separata’. Qualcuno ha affermato che hanno creato più danno che altro, perché le migliori risorse del Paese sono andate a lavorare per loro, svuotando gli uffici dei ministeri. L’Italia ha inviato una portaerei con una sala di degenza per trenta persone, che è arrivata dopo un mese e una sosta in Brasile per vendere tecnologia militare. La parodia ipocrita dell’aiuto internazionale. Eppure nel Paese si è raccolto anche il meglio della solidarietà: dal quartiere popolare creato all’interno di Cité Soleil da una suora italiana ‘da combattimento’ a Msf, ad alcune ong locali e internazionali che propongono interventi assistiti da una solida visione strategica anche se da pochissimi soldi. Quali riflessioni proponi?
Le ong sono diventate un male necessario, così come gli eserciti stranieri e la missione Onu. Sono presenze massicce che sostituiscono lo Stato e le sue funzioni in modo frammentato e secondo interessi scoordinati, individuali, che non possono fornire un vero welfare ma restano lì, si mantengono coi fondi che abilmente riescono ad accumulare dalle donazioni e dai governi o altri enti all’estero e via, riproducono il sistema della Repubblica delle ong senza responsabilizzare le forze e le persone in loco con un piano o una visione di sviluppo complessiva. Forse si dovrebbe provare gradualmente a ridurre questi ‘mali necessari’ che fanno di Haiti una colonia, restituendo alla società civile la capacità di organizzarsi e a uno Stato ‘riformato’ e ‘rieducato’ alcune delle sue funzioni. Ma faccio più enfasi sulla società, sulla gente, sull’educazione e sull’auto-organizzazione perché lo Stato, ma soprattutto le élite nazionali, hanno dimostrato i loro fallimenti tante di quelle volte che c’è poco da sperare se non si ricostruisce dal basso.
Questo non esclude che le forze esterne, il ‘meglio della solidarietà’, al pari dei gruppi sociali locali, possano contribuire se dotati, appunto, di una visione strategica e di un coordinamento generale, il che conta più dei soldi. Ho apprezzato il buon lavoro di Medici senza frontiere, per esempio, mentre Romina è stata a contatto con preti di frontiera e ong specializzate da anni sul territorio. Quello che manca spesso è un piano, la costruzione dell’autonomia e la presa di coscienza delle organizzazioni locali.
“Capita che il racconto dei fatti, senza la miccia di sensazionalismo che l’accende, sia reputato troppo ordinario, cioè poco interessante per poter essere diffuso, specialmente in Italia sui media maistream”. È questa la ragione per cui la mezza-isola è tornata a essere quello che è stata per secoli, cioè un segno sulle carte geografiche e nulla più? È l’etero-direzione dei sentimenti di massa da parte dell’informazione che svia l’attenzione dai fatti che non sono di stretta e televisiva attualità, o c’è un vuoto profondo e spaventoso della politica e del sentire comune, incapaci di creare internazionalismo anche solo nelle forme della solidarietà umana?
Entrambe le cose. Gli esteri sono poco importati nei media in Italia. Siamo un Paese abbastanza provinciale e quasi solo rinchiuso nel Mediterraneo. Leggiamo e scriviamo seriamente di Europa, Usa, Medioriente e il resto rimane alla mercé di visioni folcloriche, semicoloniali o sensazionaliste.
Passa poco e passa male. Non è così negli altri Paesi dove l’attenzione viene rivolta prioritariamente verso il resto del mondo, basta paragonare il numero e la densità delle pagine della sezione ‘mondo’ nei principali quotidiani europei e latinoamericani con la situazione in quelli italiani. Questa attitudine dei media, sommata alla frammentazione sociale, alle insicurezze e all’individualismo cosmico della società post-moderna e post-fordista in cui è cresciuta la mia generazione, sicuramente scava in profondità nel vuoto, toglie valore ai nessi comunitari e al solidarismo internazionale. L’internazionalismo, di classe o di nicchia, di intenti e di motivi, di lotte e di disagi, sembra essere sparito dai media ufficiali per rinascere, però, nelle esperienze d’informazione e di socializzazione alternative che, per fortuna, hanno ri-significato e ri-creato quelle connessioni. Ed è uno degli effetti positivi della globalizzazione.
Molte pagine del tuo reportage sono dedicate alla Minustah, la forza multinazionale che dal 2004 interviene nel Paese e a volte accompagna la presenza di reparti degli eserciti stranieri, statunitense in particolare. Una lunga storia, quella della militarizzazione di Haiti.
Sì, abbastanza. Quindi rimando a un paio di articoli sulla militarizzazione di Haiti e sulla Minustah che si trovano facilmente su CarmillaOnLine, in italiano, e sulla Jornada Semanal, in spagnolo. Sono rielaborati e inseriti anche nel libro e utilizzano varie fonti, racconti e documenti. Uno di quei pezzi è stato anche ripreso da TeleSur in Venezuela per denunciare la presenza di gruppi armati paramilitari sull’isola e le contraddizioni delle missioni straniere sul territorio. Creano dipendenza, una falsa sicurezza, ma bloccano una parte dello sviluppo autonomo del Paese. Un altro ‘male necessario’ che si dovrebbe provare a eliminare progressivamente.
Cité Soleil. La Città del sole, un posto che era impensabile già prima del terremoto e che ora è un inferno sommerso dalle immondizie. Roccaforte dei seguaci dell’ex presidente Aristide e di bande criminali che rendono impossibile entrarci se non accompagnati da qualcuno. Eppure, lì dentro, il fermento è tale da far pensare che prima o poi qualcosa succederà. Ma cosa?
Romina col suo racconto all’interno del libro e grazie al suo vissuto conosce meglio di me la situazione di quella zona inaccessibile della città.
Come le favelas delle megalopoli brasiliane, parlo di quelle di Rio che ho potuto vedere, e i cerros o colline di Città del Messico, le logiche dell’esistenza e della sopravvivenza lì cambiano. La violenza esiste, ma spesso si creano tessuti sociali e nessi comunitari importanti e interessanti. Solo che possono sfociare nell’autodifesa e nell’autogoverno, a volte fuori controllo, e in un fermento, appunto, piuttosto fuori dal comune. L’autonomia e la ribellione possono essere canalizzate positivamente, ma spesso prendono pieghe che lo Stato non tollera e reprime duramente e anche illegalmente come effettivamente è successo a più riprese nella Città del sole. Ora che Aristide è tornato in patria forse da lì potrebbe ripartire un movimento di riscatto, sperando non degeneri nella violenza politica e nella strumentalizzazione.
Haiti ci ha provato, prima del 2004. Ho come l’impressione che l’esperienza del presidente Aristide non sia finita però con la sua deportazione, ma nel momento in cui, dopo aver avuto il coraggio di sciogliere l’esercito, si è trovato secondo alcune voci addirittura a militarizzare le bande di Tonton macoutes dell’ex dittatore Duvalier nel tentativo di difendere la sua presidenza. La figura di Aristide, che comunque sia ha rappresentato una speranza per tutta la popolazione, è una delle più controverse e discusse. A lui dedichi molte pagine, con una certa cautela.
In generale sia i paramilitari Tonton che la loro ‘evoluzione’, i Fraph, sobillati e finanziati dal Ned (emanazione del partito Repubblicano statunitense) si sono occupati negli anni Novanta e ancora nel 2004 di destabilizzare i governi democratici di Aristide. I miei contatti haitiani, giornalisti e attivisti, l’amico cooperante Tom Luce, esperto di Haiti e da anni sul campo, così come il giornalista Kevin Pina, che ha svolto per anni un lavoro rischioso e importante, riconoscono la responsabilità degli Usa nell’opera di destabilizzazione e il fatto che i colpi di Stato e le ‘partenze’ forzate di Aristide nel 1991 e nel 2004 sono state provocate da scontri innescati dagli stessi paramilitari al soldo della Cia e del Ned, ma non ho dati sulla strategia di difesa del presidente a livello militare o di polizia.
Meno sulla presunta costituzione di paramilitari pro-Aristide, che è un’accusa rivoltagli all’epoca da alcuni mezzi di comunicazione, per quel che conosco. So solo che spesso i media occidentali hanno presentato Aristide come un populista, e in parte ci può stare anche se il discorso è molto
complesso, ma penso che un’analisi attenta della situazione di quegli anni non porterebbe a inquadrarlo come un ‘dittatore’ o un creatore di bande paramilitari. Come dici tu, la cautela è d’obbligo e le fonti andrebbero ampliate.
La tua prima impressione, una volta raggiunta Port-au-Prince dopo il terremoto, è dedicata agli sguardi delle persone. Scrivi una cosa interessante, che “si accorgono subito che non possiamo salvare nessuno, anzi sanno che cerchiamo di salvarci dal rumore, dal dolore, dall’ansia”. Una sensazione che anch’io ho conosciuto, in quella città come in pochi altri luoghi, e che per questo riconosco perfettamente, ma alla quale non ho saputo dare una spiegazione. È l’emergere di un senso di colpa del bianco che alla fine di una bizzarra vacanza torna all’agevole quotidianità? È un senso di profonda impotenza nei confronti di una tragedia – non solo quella del terremoto, parlo della storia dell’isola – di dimensioni irraggiungibili per la nostra capacità di comprendere? È solo un dato di fatto, che non impedisce l’azione?
Non saprei spiegare bene quella sensazione. Forse si tratta di un senso di estraniamento e impotenza che però non blocca l’azione definitivamente, anzi. Credo che la sostenga e la impulsi, almeno dopo un po’, quando ci si acclimata e si cominciano a capire i meccanismi di Porto Principe, della gente e della sua mentalità. Anche se io e Diego, l’amico che era con me ad Haiti, venivamo dal Messico, dall’America latina, Haiti ci sembrava diversa, difficile, incomprensibile. Ma abbiamo avuto un mese di tempo e abbiamo conosciuto tantissime persone che ci hanno aiutato a capire e a lavorare nella direzione corretta, nel nostro piccolo.
La gente all’Aumohd, i diplomatici, gli stranieri, i funzionari delle ong, e soprattutto la gente per la strada, nei campi, e un po’ tutte le persone che stanno nel libro e nella nostra memoria, ecco tutti loro ci hanno reso partecipi della loro vita, non fatta solo di tragedie, ma anche di quotidianità, spiritualità, credenze e simpatie, e ci hanno aperto uno spiraglio per comprenderli e, perché no, osservare criticamente la realtà. Quello che resta dopo è la voglia di raccontare, che è un po’ il senso del libro, degli articoli, della lenta e costante metabolizzazione dell’esperienza che si concretizza in azioni, in testi e in parole. È forse l’unico strumento che ci resta, insieme al tentativo di continuare a comprendere e alle piccole e grandi azioni quotidiane, per scavare e rimuovere le macerie di Haiti, per trasformale in costruzione e futuro.
In questo senso vorrei ringraziare tutti quelli che a partire dal reportage mio e di Romina Vinci, ma anche prima, quando il libro era solamente un nucleo di articoli e fotografie sparse nel web, si sono interessati ad Haiti e alla sua gente e hanno collaborato con l’Aumohd e con le altre realtà con cui li abbiamo messi in contatto.
Fabrizio Lorusso vive in Messico da 11 anni. È giornalista, scrittore e accademico, dottorando in Studi latinoamericani alla Universidad Nacional Autónoma de México, si dedica all’insegnamento della lingua e cultura italiane e alla traduzione. Ha collaborato con il quotidiano L’Unità, Linkiesta.it, Il Fatto Quotidiano, il giornale messicano La Jornada, il portale Desinformémonos e altri media sia italiani che latinoamericani, ed è uno dei redattori della web zine Carmilla. Ha pubblicato in spagnolo il poemario Memorias del Mañana (Memorie del Domani, Editorial Quinto Sol, 2009), la collettanea di racconti Sorci verdi. Storie di ordinario leghismo (Alegre, 2011), Le macerie di Haiti (L’Erudita, 2012) con Romina Vinci, e Santa Muerte. Patrona dell’umanità (Stampa Alternativa, 2013). Il suo blog è lamericalatina.net