Il ‘sistema farmaco’, dalla ricerca ai brevetti, dai farmaci generici al criterio di fissazione dei prezzi, dal mercato delle pandemie alle industrie farmaceutiche: truffe, lauti profitti e corruzione
I fatti
Torino, 24 maggio 2008. I pm Raffaele Guariniello, Sara Panelli e Gianfranco Colace emettono otto ordini di custodia cautelare per corruzione e disastro colposo causato dalla commercializzazione di medicinali non perfetti. Tra le figure il cui operato è al vaglio dei magistrati spicca il nome di Nello Martini, direttore generale dell’Aifa (Agenzia italiana per il farmaco). I prodotti incriminati sono una trentina: si tratta di antibiotici, psicofarmaci, diuretici, antipertensivi, antinfiammatori e antiasmatici a base di principi attivi non più protetti da brevetto (i cosiddetti farmaci generici) che sono risultati poco efficaci rispetto ai prodotti originali e in qualche caso addirittura inutili o nocivi. L’inchiesta è iniziata nel 2006 dopo la scoperta della falsità di uno studio di bioequivalenza su tre generici (terafluss, prostatil e terazosina) per cui finirono sotto accusa Mario Eandi, direttore della cattedra di Farmacologia dell’università di Torino; Carlo Della Pepa, ricercatore e sindaco della città di Ivrea (per uno strano caso, lavora anche lui alla cattedra di Farmacologia dell’università di Torino); e Giuseppe Irianni, committente dello studio per conto delle società farmaceutiche (Epifarma, Ipso Pharma e IG Farmaceutici). Dalle indagini su quello che sembrava un circoscritto caso di malcostume sono venute alla luce numerose vicende di corruzione: i tecnici dell’Aifa, foraggiati dai lobbisti delle industrie farmaceutiche, non solo erano disposti a chiudere un occhio sulla reale efficacia dei prodotti che autorizzavano, ma addirittura a lasciare sul mercato medicinali la cui tossicità è stata più volte dimostrata.
Il ministero della Salute, interpellato, getta subito acqua sul fuoco: il sottosegretario Ferruccio Fazio fa sapere in una nota che “fino a oggi e allo stato delle informazioni ricevute dalla procura di Torino il ministero non ha riscontrato pericoli per la salute dei cittadini”, ma la Federconsumatori fa sapere che è pronta a costituirsi parte civile e chiede, senza risultato, che siano resi noti i nomi dei farmaci. A luglio l’inchiesta ha già azzerato i vertici dell’Aifa, e il governo affida la sfortunata agenzia (era nata dalle ceneri dello scandalo che travolse Duilio Poggiolini ai tempi di Tangentopoli) nelle mani del Prof. Guido Rasi, medico e ricercatore di fama, il quale promette di riorganizzarla in linea con gli standard qualitativi europei. E sulla vicenda cala (mediaticamente) il sipario.
Generici: efficaci o no?
Per capire come sia possibile che nel nostro Paese vengano distribuiti medicinali la cui efficacia non è stata accertata, e più in generale per capire come funziona il ‘sistema farmaco’, ci siamo rivolti a una fonte autorevole che per ovvie ragioni ci ha chiesto di rimanere nell’anonimato.
«Il farmaco è un prodotto particolare, la cui promessa è guarire una data patologia. Tutti si sentono emotivamente coinvolti quando se ne parla, anche se la nostra comprensione delle dinamiche farmacologiche è estremamente limitata: quando siamo ammalati non siamo in grado di prescriverci da soli i medicinali adatti, e non sappiamo né come né perché funzionino. Questa condizione di fragilità, data dal bisogno di essere curati e dalla mancanza di conoscenze specifiche, si presta molto facilmente a essere strumentalizzata con intenti demagogici, e il tema dei farmaci generici ne è un esempio perfetto».
In Italia il prezzo dei medicinali non è il risultato delle dinamiche di mercato come avviene in altri Paesi, ma è imposto dallo Stato nel tentativo di stabilizzare la spesa sanitaria contenendo la spesa farmaceutica. I farmaci generici, molto meno costosi dei loro equivalenti griffati, si prestano ottimamente allo scopo.
«Al termine del suo ciclo di vita, e quindi del periodo coperto da brevetto, un farmaco ha per le società che lo producono margini vicini al 90%, dal momento che i costi sostenuti sono stati quasi completamente ammortizzati. Viceversa i produttori di farmaci generici, visto il prezzo risicato che viene loro imposto, si trovano a fare i conti con marginalità bassissime, e devono risparmiare il più possibile. Così le società produttrici acquistano i principi attivi in India, in Cina o in un altro dei Paesi emergenti, dove costano molto meno, ma dove non viene garantito un ottimale livello qualitativo, che è il fattore cruciale per l’efficacia di un medicinale». Per questo la legge impone che il farmaco generico dimostri la sua bioequivalenza rispetto a quello brevettato.
«Per i farmaci che si assumono per via orale la qualità del principio attivo è importantissima, perché ne condiziona la possibilità di assorbimento e quindi la concentrazione nel sangue, a livello plasmatico. Una minore concentrazione determina un ridotto effetto terapeutico, e una concentrazione troppo elevata l’aumento dei possibili effetti collaterali, con la conseguente necessità di ricalibrare i dosaggi. Il concetto di bioequivalenza italiano, tuttavia, è piuttosto ampio, per cui nei test viene considerato accettabile uno spread del 20% (in più o in meno) rispetto al prodotto originale. Inoltre, se il processo di produzione del farmaco non è standardizzato (come capita spesso nelle produzioni a basso costo), c’è sempre il rischio che il lotto testato per la bioequivalenza risulti diverso da quello commercializzato». Sull’onda dell’esigenza di registrare generici per abbassare la spesa sanitaria, molti farmaci sono stati autorizzati senza le necessarie verifiche (distrazione o dolo?), o con controlli solo approssimativi dei dati contenuti negli studi clinici presentati.
«Un caso eclatante emerso dalle indagini di Guariniello è quello di un farmaco generico da assumersi per via orale il cui livello di assorbimento era pari a zero». La molecola incriminata è la diosmina, un flavonoidecoadiuvante nel trattamento di varici e fragilità capillare. Sul tavolo dell’Aifa erano a suo tempo arrivate 13 domande di registrazione, una il clone dell’altra (il dossier allegato era identico in tutti i casi), e il farmaco aveva ottenuto la registrazione. «Se non che una società che non era riuscita ad arrivare in tempo utile ha deciso di rovinare il gioco a tutti, denunciando la truffa alla procura. Nessuno ha messo in guardia i cittadini dai possibili rischi a cui vanno incontro assumendo i farmaci generici ». Così nelle sale di attesa degli studi medici e sui banconi delle farmacie continuano a far bella mostra gli opuscoli del ministero che invitano i medici a prescrivere i generici e i cittadini ad acquistarli. Con buona pace della tutela della salute.
La ricerca: usi e abusi
Per verificare l’eticità del ‘sistema farmaco’ analizziamo innanzitutto quali sono le fasi che una molecola attraversa prima di essere disponibile per la commercializzazione.
«Il punto essenziale da chiarire è che la ricerca farmacologica non ha niente a che vedere con slanci ideali. Produrre medicinali è un business, e il costo dello sviluppo di un nuovo medicinale si aggira intorno al miliardo di dollari, a volte anche di più».
Il primo passo consiste nel selezionare la molecola adatta fra un migliaio di potenziali candidate: «In questa fase è protagonista il ricercatore, che si muove a tentoni, come un minatore nel sottosuolo, e a volte riesce a individuare un filone interessante. All’interno del filone, cerca e scarta finché non individua il materiale più promettente e lo qualifica nella sua forma farmacologica (molecole biologiche, di sintesi, eccetera). Il ricercatore non ha nessun controllo sul processo nel suo insieme, non sa a quali risultati porteranno le sue ricerche e tanto meno come questi risultati verranno utilizzati, e lavora – quasi sempre in buona fede – su aspetti molto specifici». È nella stessa situazione di un ingegnere informatico che sviluppa un nuovo microchip: non sa se sarà utilizzato su un satellite o sulla testata di un missile, e non sarà invitato a partecipare al processo decisionale.
«Successivamente la molecola viene testata prima su cavie da laboratorio e poi su volontari sani, negli Usa per la stragrande maggioranza carcerati o indigenti che per qualche centinaio di dollari sono disposti a prestare il proprio corpo alle sperimentazioni. È un momento molto delicato dal punto di vista etico ed è regolamentato molto blandamente. Fino a che punto è giusto spingersi? È morale, per fare un esempio, indurre una patologia, seppure lieve, per verificare l’efficacia di un principio attivo? Domande a cui, da un punto di vista degli interessi economici soggiacenti, non conviene dare risposta». Se la molecola conferma la sua appetibilità, si passa alla fase due, i test sui pazienti, con l’obiettivo di mettere a punto il dosaggio minimo efficace, e in seguito alla fase tre, che porterà alla formulazione definitiva del farmaco.
«Gli investimenti maggiori riguardano le fasi più mature dello sviluppo, soprattutto la fase tre, per la quale vengono utilizzate le cosiddette società di sviluppo clinico (Cdo, Clinical research organisation). Le Cdo sono cresciute a dismisura negli ultimi vent’anni, hanno un respiro globale e arrivano a competere per fatturato con le stesse aziende farmaceutiche». Il loro ruolo è equivalente a quello delle società di revisione nel settore finanziario, e si muovono con la stessa disinvoltura di una Merryl Lynch all’interno di una immensa area grigia. «Devono produrre studi consistenti dal punto di vista statistico, cioè determinare se l’azione del farmaco è significativa verso quella del placebo su un numero molto elevato di pazienti. La necessità di ottenere risultati in tempi brevi determina tuttavia un allentamento del rigore, per cui molte di queste ricerche non vengono condotte nei Paesi occidentali, ma in quelli dell’est o del terzo mondo, dove esiste una casistica amplissima ed è facile trovare candidati a basso prezzo».
Un paziente costa mediamente alla casa farmaceutica dai 10 ai 15mila dollari (che vengono intascati da chi gestisce gli studi), e, per dimostrare che un nuovo farmaco dà risultati migliori dal punto di vista statistico rispetto a quelli già commercializzati, c’è bisogno di un campione amplissimo, da 40.000 a 50.000 casi, per una spesa totale fra i 400 ei 750 milioni di dollari. «Investimenti di questa entità non vengono effettuati per migliorare il benessere della popolazione. Stiamo parlando di grandi società quotate in borsa, che devono produrre utili. Di conseguenza la ricerca non viene orientata verso le malattie rare o poco diffuse, ma su molecole con un ampio mercato, che rendano dal punto di vista economico». Come i farmaci oncologici, di cui è facile ottenere l’approvazione, o quelli che riducono colesterolo e pressione sanguigna.
«Questi ultimi sono farmaci i cui benefici sono molto aleatori, innanzitutto perché il colesterolo e la pressione alta non sono vere e proprie patologie, ma fattori di rischio; e secondariamente perché il loro livello è influenzato da svariate condizioni, come lo stress, lo stile di vita, l’alimentazione… Tuttavia prescrivere un farmaco di questo tipo è molto comodo per il medico curante, perché gli evita di responsabilizzarsi fino in fondo con il paziente: una pillola e via, insomma. E se poi l’infarto sopraggiunge comunque, si potrà dare la colpa al fumo o al viagra…». Un’altra categoria di farmaci molto remunerativa è quella del well being, dei prodotti cioè che curano i disturbi della parte alta del sistema gastroenterico, come i bruciori di stomaco o le gastriti, e che sono fra i più prescritti. «Con questi è molto facile ottenere un vantaggio farmaco-economico ‘stirando’ i risultati degli studi: si amplia la gamma delle patologie che li richiedono e si allarga il loro posizionamento. Un esempio è dato dai farmaci inibitori della pompa protonica per la cura di ulcera e gastrite, i cui principiattivi sono importantissimi (prima della loro scoperta di ulcera si poteva morire), ma che hanno significativi effetti collaterali e un prezzo elevato. Oggi questi farmaci vengono prescritti anche per patologie lievi, come il riflusso gastroesofageo, per il quale basterebbe consigliare un semplice antiacido o uno stile di vita più sano».
Successivamente le nuove molecole vengono ‘date in pasto’ agli opinion leader, gli esponenti più autorevoli (dal punto di vista mediatico) della classe medica, affinché testino i farmaci e ne diano un sigillo di validazione prestigioso. «Gli opinion leader sono centinaia e costituiscono una vera e propria casta. In genere sono accademici di alto livello e frequentatori abituali di riviste specializzate e salotti televisivi, che non si espongono mai fino in fondo (per non correre il rischio di smentite discreditanti); usano spesso il condizionale quando elogiano i nuovi farmaci; e soprattutto non si tradiscono l’uno con l’altro. In cambio ricevono fondi per i loro istituti, borse di studio per i ricercatori dei loro dipartimenti, e qualche volta sono prezzolati direttamente con mazzette. Partecipano a simposi e congressi, utili strumenti per la creazione di un valore che niente ha a che vedere con la salute pubblica, incensando a beneficio dell’intera classe medica i principi attivi di ultima formulazione». Il costo della promozione si avvicina talvolta alla metà del totale degli investimenti, ma la pratica ha dimostrato che sottovalutando questa fase si rischia di vanificare l’intero processo: «Senza l’intervento dei baroni della medicina non si riesce a sfondare sul mercato. Ci sono esempi di molecole interessanti che sono rimaste prive di utilizzo clinico perché non erano state battezzate dai luminari del settore».
In conclusione il sistema farmaco non è impostato su un processo rigoroso fondato sulla genialità e sul talento di chi fa ricerca: «Quando i ricercatori si lamentano di essere sottopagati, hanno ragione e torto allo stesso tempo. Ragione, perché le loro scoperte costituiscono la base sfruttabile della farmaco-economia, e torto perché le loro competenze non bastano per fare affari. Come è dimostrato dall’allocazione delle risorse lungo l’intero processo, gli anelli importanti della catena, quelli che è necessario oliare, sono altri, che si collocano fuori dalla logica ideale di un processo di innovazione». Il tutto, sfruttando lo stato di pressione in cui il paziente (o meglio il consumatore) versa al momento del consulto medico. Altro che consenso informato.
H1N1: come ti invento un mercato
Dal momento che è un tema troppo tecnico per essere compreso dai cittadini, quello delle malattie – e di conseguenza dei farmaci – si presta a essere facilmente strumentalizzato. Come nel caso dei vaccini contro l’influenza H1N1. Un articolo di Repubblica del 14 dicembre 2009 titola: E se il virus fosse solo un raffreddore? Il tasso di mortalità del virus-killer è infatti di gran lunga inferiore al previsto (lo 0,018%, meno dell’influenza stagionale), i ricoveri calano significativamente negli Stati Uniti e in Europa (eccetto la Francia), proprio nei giorni in cui si temeva il picco della malattia, e dopo le tante polemiche sulle vaccinazioni – in Italia si è immunizzato solo il 14% degli operatori sanitari – scoppia quella sul ruolo svolto dai colossi farmaceutici e dalle autorità di controllo all’interno del mondo dell’informazione. Sorge il dubbio che il panico da pandemia sia stato creato ad arte.
Fatto sta che l’H1N1 ha comportato – finora – poche vittime e molti affari: la Virus spa, un sapiente mix di vaccini e di indotto figlio dell’ansia ‘preventiva’, ha già iniziato a macinare miliardi: «I primi beneficiari di questo inatteso Eldorado sono, come ovvio, i professionisti della pandemia: i produttori di vaccini. Fino a pochi anni fa parevano una specie sull’orlo dell’estinzione: le malattie virali più gravi erano state sradicate dai Paesi ricchi; le nazioni più povere, dove queste patologie trovano ancora terreno fertile, non avevano i soldi necessari per acquistare i loro vaccini. Oggi è cambiato tutto: l’aviaria e la minaccia di bioterrorismo hanno fatto ripartire alla grande gli investimenti. E l’influenza A è stata la ciliegina sulla torta, una miniera d’oro che finora ha garantito ai big del settore un bonus da 12 miliardi. A settembre 2009 – con l’allarme H1N1 all’apice – la domanda di dosi era doppia rispetto alla capacità produttiva mondiale.
E i governi (Italia compresa) hanno firmato contratti in bianco, pagando in anticipo vaccini non ancora approvati pur di farne scorta adeguata. L’inglese Gsk ha piazzato in pochi giorni 440 milioni di dosi (al prezzo di 5 sterline l’una) di Pandemrix a 22 Paesi differenti con un incasso ‘straordinario’ di quasi 3 miliardi di euro. Non solo: le vendite del suo Relenza, un anti-virale efficace in fase preventiva, sono decollate a 600 milioni di euro nei primi nove mesi del 2009. Il Tamiflu della Roche, un altro anti-virale già sul mercato, ha decuplicato le vendite a 2 miliardi nel 2009. La Novartis prevede di ricavare dal suo vaccino Focetria un miliardo in sei mesi. Più o meno quanto incasserà grazie ai suoi nuovi prodotti la francese Sanofi. Centinaia di milioni entreranno pure nella casse dell’americana Baxter (titolare del vaccino Celvapan) e dell’inglese Astra Zeneca. Contratti una-tantum, d’accordo, ma in grado di generare a fine pandemia, secondo l’Oms, ricavi extra vicini ai 20 miliardi».
Big Pharma dunque, malgrado la mitezza del virus, meno mortifero dell’influenza stagionale, ha incassato in sei mesi un jackpot da 20 miliardi di euro di entrate straordinarie e l’Organizzazione mondiale della sanità, sospettata da alcuni di eccesso di allarmismo (dati alla mano, è impossibile non convenirne), è stata costretta ad aprire un’inchiesta interna per verificare i possibili conflitti di interessi dei suoi consulenti scientifici, accusati di essere a libro paga dell’industria.
Il prezzo dei farmaci
Come già sottolineato, in Italia il prezzo dei farmaci è imposto dallo Stato attraverso l’Aifa e le sue commissioni, in particolare il Ctf (Comitato tecnico-scientifico). «Fino a Tangentopoli, il prezzo di un medicinale era stabilito in funzione dell’entità delle bustarelle che venivano fatte girare. La corruzione era la vera base del sistema di pricing, tanto che le grandi multinazionali americane, quasi tutte vincolate a un codice di comportamento etico (per conservare l’immagine di facciata che gli stakeholder – finanziatori e azionisti – amano tanto), in Italia si trovavano di fronte a un vero e proprio dilemma: gareggiare secondo le regole e non ottenere prezzi in linea con le proprie aspettative, oppure associarsi a società disposte a sporcarsi le mani con l’obiettivo di ottenere la registrazione del farmaco e un prezzo adeguato». È il cosiddetto co-marketing, che ha costituito una miniera d’oro per Menarini, Sigma Tau e altre importanti aziende farmaceutiche italiane cresciute negli anni Ottanta.
«Il co-marketing è la ragione per cui in Italia la stessa molecola viene commercializzata con due o tre nomi diversi, a seconda del numero delle società coinvolte nel processo di autorizzazione: basta aprire un prontuario farmaceutico per rendersi conto della diffusione del fenomeno» che ha permesso alle aziende di casa nostra di prosperare a prescindere dalla ricerca. I criteri di pricing adottati oggi non sono chiari, fanno apparentemente riferimento ai costi sostenuti per lo sviluppo, al grado di innovazione del prodotto e ad altre valutazioni qualitative che permettono un ampio spazio di manovra, ma «sotto la superficie, come dimostrano gli scandali recenti, le cose non sono cambiate: i membri dell’Aifa chiedono solo di avere le motivazioni giuste, e la giusta remunerazione, per fissare i prezzi che le industrie farmaceutiche desiderano».
Con l’avvento della Comunità europea, che impone la libera circolazione delle merci e la possibilità di fissare prezzi diversi per prodotti analoghi, potrebbero poi verificarsi fenomeni di arbitraggio di cui non beneficiano certo i pazienti: «Se, per fare un esempio, il prezzo di un medicinale nel Regno Unito è significativamente superiore a quello dello stesso medicinale in Grecia, i distributori inglesi lo acquisteranno in Grecia a costi inferiori per rivenderlo nel loro Paese al prezzo maggiorato, intascando la differenza. Questi fenomeni aumentano la capacità di pressione della lobby del farmaco, in grado di premere sugli organismi di controllo affinché i prezzi non si discostino troppo dalla media europea».
Lo strano caso dell’Aulin
Una delle molecole coinvolte nell’inchiesta della procura di Torino è la nimesulide, meglio nota con il nome del farmaco che per primo ha utilizzato questo principio attivo, e cioè l’Aulin.
«La nimesulide appartiene alla categoria degli antinfiammatori non steroidei, i cosiddetti FANS. È stata scoperta negli anni Ottanta da una casa farmaceutica americana, che non ne ha completato il processo di sviluppo a causa del suo elevato livello di tossicità – a parità di risultati terapeutici – e l’ha abbandonata a favore di altre molecole. Ma anche nel mondo dei farmaci esistono i becchini, società che acquistano molecole-scarto e ne tentano la registrazione, e questa è stata la sorte della nimesulide, che è passata di mano in mano per arrivare infine alla Roche, che ne ha ottenuto la registrazione col nome di Aulin».
L’Aulin non è mai stato autorizzato negli Usa, in Giappone, in Germania e in Gran Bretagna, i mercati più importanti per i prodotti farmaceutici. È stato invece registrato in Italia, dove consegue circa l’80% del suo fatturato globale, in Francia, Spagna, Irlanda e Finlandia. Il foglietto illustrativo del farmaco è chilometrico, e fra gli effetti collaterali ritroviamo reazioni epatiche gravi, inclusi alcuni rarissimi casi di decesso; lesioni epatiche, reversibili nella maggior parte dei casi, dopo un’esposizione anche breve al farmaco; emorragie, ulcere o perforazioni gastrointestinali. La nimesulide è sconsigliata ai pazienti con insufficienza renale o cardiaca, perché può danneggiare la funzionalità renale; e può ridurre la fertilità, per cui non è consigliato alle donne che cercano una gravidanza, alle donne che hanno difficoltà a concepire, e a quelle che vengono sottoposte ad accertamenti per infertilità.
«La microtossicità della nimesulide è risultata chiara fin da subito, e questa è la ragione per cui la società che l’aveva scoperto non ha giudicato interessante completarne lo sviluppo, tanto più che l’efficacia del principio attivo è inferiore a quella di molecole concorrenti, come l’ibuprofene o il paracetamolo». Nel 2002 i prodotti a base di nimesulide sono stati ritirati dal commercio in Finlandia e in Spagna (109 casi di reazioni avverse, due trapianti di fegatoe un decesso), e dal 15 maggio 2007 anche l’agenzia del farmaco irlandese ne ha sospeso la vendita, a seguito della segnalazione di sei casi di insufficienza epatica grave che hanno reso necessari altrettanti trapianti di fegato. Eppure, nel nostro Paese e per molto tempo, l’Aulin è stato addirittura considerato un farmaco Otc (Over the counter), cioè vendibile senza necessità di ricetta medica. Giovanni Mathieu, presidente della Associazione dei medici internisti, lancia l’allarme: “Per molto tempo la nimesulide ha goduto della fama di un farmaco non molto rischioso, ma ogni anno noi medici internisti osserviamo un numero abbastanza preoccupante di pazienti che subiscono danni epatici e dell’apparato gastroenterico causati proprio da questa molecola”.
L’Aifa replica prontamente: dopo un processo di revisione dei dati esistenti durato due anni, il Comitato scientifico (CHMP) dell’Emea (Agenzia europea del farmaco) ha stabilito che il profilo beneficio/rischio della nimesulide è positivo e in linea con quello degli altri farmaci della stessa classe e ha confermato il mantenimento della registrazione del prodotto in tutti gli Stati membri, pur restringendone le indicazioni terapeutiche e aggiungendo altre controindicazioni nel riassunto delle caratteristiche del prodotto. Di verifiche e studi per appurarne la reale pericolosità non se ne parla, solo un attento monitoraggio. Come mai? La risposta è in un filmato di due minuti girato da un regista con le stellette e finito sui tavoli della procura di Torino, in cui un mediatore passa una mazzetta a Pasqualino Rossi, vicedirettore dell’Aifa e – guarda caso – rappresentante italiano all’Emea CHMP, per lasciare tranquillo l’Aulin. «Ai tempi d’oro, il fatturato dell’Aulin arrivava a 40 milioni di euro, il che significa circa 35 milioni di margine in tasca alla Roche, perché i costi di produzione sono bassi e la ricerca è stata fatta da altri». Cosa tutela dunque l’Aifa: la salute pubblica o il giro d’affari privato?
Aifa e Farmindustria: tutto cambia e nulla cambia
«L’Aifa risponde alle esigenze dei politici e delle farmaceutiche, ed entrambi non hanno alcun interesse affinché vengano effettuati controlli sui suoi membri, altrimenti le possibilità di influenza, cioè di far affari, diminuirebbero drasticamente».
Nonostante la baraonda causata a suo tempo dagli scandali che travolsero il ministro della Sanità Francesco De Lorenzo e Duilio Poggiolini, direttore generale del Sevizio farmaceutico nazionale, il sistema non è mai cambiato. Nell’inchiesta di Torino è coinvolta fra gli altri la Segena, una società di consulenza legale che nel ’92 finì nei guai per aver oliato con una tangente da 300 milioni le pratiche di una molecola, il Muscoril, e che oggi è accusata di tre diversi episodi di corruzione di tre dirigenti dell’Aifa.
Il titolare della Segena che è finito agli arresti, Matteo Mantovani, è figlio d’arte: fu suo padre Azio, condannato a due anni, a rivelare nel corso del processo a De Lorenzo e Poggiolini i meccanismi delle tangenti, e ora tocca a lui raccontare a quali nuovi eccessi si è giunti pur di far approvare un farmaco. Di padre in figlio e da governo a governo, nessuno ha davvero intenzione di cambiare le cose: «Le nomine all’Aifa vengono stabilite dai potenti di turno, che scelgono fra i propri candidati: pur essendo tecnici e non politici, i membri vengono scelti in quota a questo o a quel partito, e a questo o a quel partito rispondono col loro operato». Poggiolini prima, Nello Martini poi: sono passati più di quindici anni e i reati sono identici, segno che le cattive abitudini sono dure a morire: «Ma se continui ad affidare le chiavi della cassaforte ai ladri i casi sono due: o non sai scegliere i tuoi collaboratori oppure c’è il caso che i furti non ti infastidiscano».
Nel sistema italiano del farmaco la corruzione infatti è strutturale: solo da noi è considerata necessaria una figura, quella del procuratore, inesistente negli altri Paesi. «I procuratori sono individui dal dubbio contenuto professionale che bazzicano i palazzi romani, sfruttando e tessendo relazioni con chi si occupa della valutazione dei dossier, ed elargendo tutti i favori necessari affinché le case farmaceutiche ottengano la registrazione dei loro principi attivi, i prezzi migliori per i loro medicinali, e così via».
Nell’inchiesta di Guariniello di queste figure ne sono finite diverse, come il già citato Mantovani; Giliola Sironi – presidente della costituente lombarda del Pd – che annovera fra i propri clienti Named e Molteni; Sante Di Renzo – chimico, editore e procuratore – che descrive candidamente la sua attività dalle pagine del sito internet: “Siamo la longa manus delle imprese farmaceutiche a Roma”.
Aggiunge la nostra fonte: «L’azienda farmaceutica italiana vive da 40 anni su questo sistema e non sono bastati gli scandali a cambiare le cose. Da noi le società del settore, di dimensioni a volte rilevantissime, sono ancora oggi padronali e con una vocazione alla ricerca pressoché nulla. La Carlo Erba era l’unica azienda farmaceutica in grado di competere con i colossi americani quotati in borsa, ed è stata venduta. È stato deciso, a livello strategico, di lasciare il campo aperto ai predoni, a scapito di innovazione e competitività, con il risultato che le molecole italiane registrate nel mondo sono solo 4: per dare un’idea delle proporzioni, quelle francesi sono circa 500 e quelle americane intorno a 3.000».
I fatturati delle aziende nostrane, oltre che sul co-marketing, sono costruiti sull’ampliamento della gamma commerciale, giocando, per esempio, sul ciclo di vita dei prodotti e sulle line extention (alle gocce si aggiungono le capsule, e alle capsule le compresse), oppure differenziando i dosaggi per spuntare prezzi migliori. Ma questa situazione è insostenibile nel lungo periodo, e infatti l’industria farmaceutica italiana sta morendo.