Quando l’antifascismo è strumentalizzazione mediatica e propaganda elettorale nelle mani della gauche caviar
Tutto comincia (mediaticamente) a Como, il 28 novembre 2017. Un gruppo di militanti di Veneto Fronte Skinheads (Vfs) entra nella sede dell’associazione Como senza frontiere e, nel silenzio immobile dei volontari, legge un volantino anti-migranti, fa dietrofront e scompare. Il quotidiano Repubblica, in un articolo a firma Paolo Berizzi, titola: “Migranti, così ritorna il fascismo: blitz dei naziskin contro i volontari di Como. E attaccano Repubblica” (1).
Il giornale di Scalfari descrive l’accaduto come “un’irruzione in pieno stile squadrista, ma con una pacatezza inquietante. Fermi, in piedi. Il cranio rasato, i bomber scuri. E un volantino. Letto a mo’ di ‘proclama’ per dire ‘basta invasione’, stop ai migranti e a chi li accoglie”. L’attacco a Repubblica sarebbe il commento, pubblicato su Facebook, di Giordano Caracino, presidente di Vfs, che recita: “Siete in grado di trasformare in violenza la lettura di un comunicato… antifascisti. Passi lo scontro che sappiamo rifiutate sempre, ma se proprio non reggete neanche più il confronto democratico basato sull’avere delle idee discordanti, se i vostri timpani sono talmente fragili che si lacerano all’ascolto della verità, smettetela di fare politica, fate altro, origami o ricamo per esempio!”
Effettivamente, la reazione sembra sproporzionata rispetto all’accaduto, ma Repubblica si sente toccata in quello che, a quanto pare, è uno dei suoi valori fondanti: l’antifascismo. E, per ribadirlo, pubblica contestualmente uno speciale, sempre a firma di Paolo Berizzi, intitolato “L’avanzata della Galassia Nera”, con sommario: “Il blitz di Como nella sede dei volontari pro-migranti, ultima intimidazione dei gruppi di estrema destra. Viaggio tra i volti di una realtà in continua ebollizione. Per lo storico Gentile sono tutti segnali di una fase di forte crisi della democrazia in Italia e in tutto l’Occidente”. (2).
In realtà lo storico Gentile ridimensiona molto la portata del gesto (“Non lo vedo come una novità, piuttosto mi domando perché questa destra estrema abbia successo”), e descrive il background culturale degli skinhead come “mitologie nordiche” e “simbologie prive di senso, che non hanno niente a che vedere con la storia concreta dei regimi di Mussolini e Hitler”. Invece, invita a considerare preoccupante la “crescente debolezza dei nostri assetti democratici”, parla di “democrazia recitativa”, ossia di una finta rappresentazione di democrazia dove il popolo non decide mai, e conclude: “Oggi le minacce alla democrazia non arrivano dai naziskin, che sono gruppi minoritari, ma dalle stesse istituzioni democratiche che sembrano incapaci di mostrare una superiorità rispetto a ogni forma di prevaricazione”.
La vicenda tuttavia rimbalza rapidamente da un media all’altro, e il venticello si trasforma in una tempesta, tanto che la Digos di Como si sente obbligata ad aprire un’indagine per “violenza privata” contro gli autori del gesto, e il caso finisce addirittura sulla scrivania del ministro dell’Interno Marco Minniti (3). La Cgil, il Comitato Comasco per la Pace, la segreteria del Pd, e i consiglieri di Svolta Civica esprimono solidarietà ai volontari di Como senza frontiere e il vicesegretario del Pd Maurizio Martina propone per sabato 9 dicembre a Como una grande manifestazione contro ogni intolleranza (il questore Giuseppe de Angelis vieterà invece la contromanifestazione organizzata per lo stesso giorno da Forza nuova).
Gli animi non si sono ancora placati che un nuovo gesto di sfida torna a esacerbare il confronto: il 6 dicembre un gruppetto di militanti mascherati, con una bandiera di Forza nuova e un cartello con la scritta “Boicotta Repubblica e L’Espresso”, accende alcuni fumogeni sotto la sede del giornale e legge un proclama di accuse alla redazione. Il leader di Fn Roberto Fiore definisce l’accaduto come il “primo atto di una guerra politica al Gruppo Espresso e al Pd”. Apriti cielo.
Il presidente della Repubblica Mattarella (Pd) invia parole di solidarietà, il premier Gentiloni (Pd) chiama il direttore Calabresi, e il ministro dell’Interno Minniti (Pd) si precipita addirittura in redazione, dichiarando: “Antifascismo e libertà di stampa sono i capisaldi della democrazia” (4). Renzi (Pd), affida a twitter il suo messaggio rassicurante, “Quel passato non tornerà”, mentre il ministro della Giustizia Orlando (Pd) considera “smentiti quanti hanno minimizzato l’allarme estremismo”.
I comitati di redazione di Repubblica e L’Espresso diffondono comunicati per denunciare come “il dilagare di intolleranza, odio, xenofobia e fascismo che Repubblica sta puntualmente documentando con grande attenzione da settimane” abbia raggiunto “una soglia di grande preoccupazione”. Ma, rassicurano, “il nostro giornale non si fa intimidire da queste minacce, fatte utilizzando un linguaggio fascista e paramafioso, e non smetterà di informare i lettori su Forza nuova, così come su ogni altro partito politico italiano”.
Il neofascismo, secondo l’enciclopedia Treccani, è l’insieme dei movimenti politici, nati dopo la Seconda guerra mondiale, che si ispirano all’ideologia del fascismo. Il termine fu usato per la prima volta nel 1945 per designare i gruppi tendenti a ricostituire il partito fascista, spesso formati da reduci della Repubblica sociale italiana: “Il neofascismo ‘parlamentare’ ebbe il suo punto di forza nel Movimento sociale italiano, scioltosi nel 1995 in seguito alla confluenza dei suoi militanti e dirigenti in Alleanza nazionale, e la cui eredità è stata raccolta dal Movimento sociale-Fiamma tricolore”. Forza Nuova è un movimento politico e un partito italiano nazionalista, definito di estrema destra o neofascista, fondato nel 1997 da Roberto Fiore e Massimo Morsello.
Sebbene in Italia l’apologia del fascismo sia vietata dalla XII disposizione transitoria della Costituzione e dalla legge 645 del 2 giugno 1952, il fascismo, ormai endemico in certe fasce della popolazione, non se n’è mai veramente andato né dai banchi parlamentari, né, cosa ancora più grave, dagli apparati dello Stato. Giustiziare i gerarchi è stato semplice, ma estirpare il fascismo da tutti quei settori del Paese che, in un modo o nell’altro, avevano beneficiato della dittatura (e avrebbero volentieri fatto a meno della democrazia, soprattutto se ciò avesse implicato una vittoria comunista alle elezioni), è risultata un’impresa impossibile, e in realtà nessuno ci ha mai davvero provato (a partire da Togliatti che, in nome della pacificazione post bellica, promulgò un’amnistia per i reati comuni e politici, compreso il collaborazionismo con il nemico e reati annessi).
Di conseguenza nella pubblica amministrazione, nell’esercito, nella polizia, nei servizi segreti, nel mondo imprenditoriale e associativo italiano (come ben documentato nel libro I padroni del vapore di Ernesto Rossi), e nella società tutta, le frange di ‘nostalgici’ hanno continuato tranquillamente a riprodursi e a prosperare. In effetti, in Italia gli apparati ‘deviati’ dello Stato hanno fatto ben di peggio che leggere un comunicato in bomber e testa rasata.
Quella che è passata alla storia come ‘strategia della tensione’ è stata una strategia eversiva basata principalmente su una serie preordinata e ben congegnata di atti terroristici (di destra), volti a creare in Italia uno stato di tensione e una paura diffusa nella popolazione, tali da giustificare o addirittura auspicare svolte di tipo autoritario. Restiamo alla Treccani, fonte che potremmo definire istituzionale: “L’espressione fu coniata dal settimanale inglese The Observer,
nel dicembre 1969, all’indomani della strage di piazza Fontana […] sebbene alcuni studiosi ne retrodatino l’inizio alla strage di Portella della Ginestra (1947) o al cosiddetto Piano Solo del generale De Lorenzo (1964).
“La bomba di piazza Fontana costituì la risposta di parte delle forze più reazionarie della società italiana, di gruppi neofascisti, ma probabilmente anche di settori deviati degli apparati di sicurezza dello Stato, non privi di complicità e legami internazionali, alla forte ondata di lotte sociali del 1968-69 e all’avanzata anche elettorale del Partito comunista italiano. L’arma stragista fu usata ancora nel 1970 (strage di Gioia Tauro), nel 1973 (strage della questura di Milano), nel 1974, all’indomani della vittoria progressista nel referendum sul divorzio (strage dell’Italicus, strage di piazza della Loggia), e ancora nel 1980 (strage di Bologna), ma non fu l’unica espressione della strategia della tensione, la quale passò anche attraverso l’organizzazione di strutture segrete, in alcuni casi paramilitari e comunque eversive (Rosa dei Venti, Nuclei di difesa dello Stato, loggia P2 ecc.), i collegamenti internazionali (le strutture Gladio o Stay-behind), la progettazione e la minaccia di colpi di Stato (il Piano Solo del 1964, il tentato golpe Borghese del 1970), e infine la sistematica infiltrazione nei movimenti di massa e nelle organizzazioni extraparlamentari, comprese quelle di sinistra, al fine di innalzare il livello dello scontro”.
Eppure, nessuno si è mai stracciato le vesti: anzi, l’Italia ha avuto addirittura un presidente della Repubblica (Cossiga), che si è sempre dichiarato fiero di aver fatto parte di una struttura segreta come Gladio, un’organizzazione paramilitare clandestina, promossa dalla Nato e organizzata dalla Cia con la collaborazione dei servizi segreti e di altre strutture, dichiaratamente a favore di un golpe militare in caso di svolta comunista.
Certo, c’erano ancora l’Urss, la guerra fredda, il Muro di Berlino, golpe militari che fioccavano nei Paesi dell’America latina e anche in Europa, tempi storici diversi, insomma, ma se paragonati alle vicende dell’epoca i recenti fatti di cronaca appaiono davvero risibili. Ma allora, perché ricevono tutta questa attenzione mediatica?
A dare una risposta convincente è qualcuno che di terrorismo e stragismo si è occupato parecchio, ed è forse uno dei maggiori esperti in Italia, il giudice Guido Salvini. Salvini ha condotto indagini in materia di lotta armata di sinistra (colonna milanese delle Brigate rosse, Prima linea, Autonomia operaia) e terrorismo di destra (Nuclei armati rivoluzionari) nel periodo di applicazione delle leggi sui pentiti e sui dissociati e, alla fine degli anni Ottanta, dopo la scoperta di Gladio, ha riaperto il fascicolo sulla Strage di piazza Fontana. L’indagine, che ha toccato un ampio arco di episodi precedenti e successivi la strage, ha potuto ricostruire in modo chiaro e coerente il periodo della strategia della tensione, permettendo di acquisire nuovi elementi di conoscenza su numerosi eventi dell’epoca.
Ebbene, Salvini, in un’intervista rilasciata il 12 dicembre scorso a tiscali.it (5) dichiara senza mezzi termini che a suo parere l’allarme sul fascismo è infondato: “Non scherziamo proprio. Questo non è fascismo. L’occupazione a Como della sede di una associazione che si occupa di migranti è un gesto politico di cattivo gusto, forse di prepotenza che non raggiunge, in ogni caso, forme di violenza vera e propria”. L’enfasi posta da alcuni settori politici e mezzi di informazione su vicende di questo tipo dipenderebbe dal fatto che ci troviamo ormai in piena campagna elettorale: “La riscoperta dell’antifascismo (speriamo non militante) rappresenta un collante nel tentativo disperato di tenere unito un vasto schieramento oggi in difficoltà, in funzione delle prossime elezioni politiche di primavera”. E tuttavia, “quello di molte forze di sinistra è un atteggiamento molto poco liberale e alla fine anche politicamente perdente. Tra l’altro dare altissima visibilità a piccoli episodi rischia di spingere altri giovani a ripeterli e ad amplificarli”.
Questo dunque è il senso della chiamata a raccolta degli antifascisti: dare un ruolo e una visibilità a un centrosinistra ormai indistinguibile, negli obiettivi come nei metodi, dal centrodestra – rispetto al quale, però, ha molto meno appeal a fini elettorali. Torna alla mente Aprile di Nanni Moretti e il suo disperato: “D’Alema, di’ qualcosa di sinistra!”. E l’antifascismo è, per l’appunto, qualcosa di sinistra. I sondaggi per il Pd sono a dir poco sconfortanti, urge una strategia, ed ecco che – puntualmente – il blocco amico dell’editoria si assume l’onere di compattare le anime belle contro l’avanzata della “galassia nera”.
Un’operazione che tuttavia non ha avuto il successo sperato, a causa di una banale svista editoriale. Repubblica, infatti, ha inaugurato il 2018 ri-pubblicando un’intervista concessa al francese Le Figaro da Tom Wolfe, tra gli inventori del new journalism e uno dei più grandi scrittori viventi, dal titolo “I radical chic hanno tradito il popolo” (6).
L’espressione radical chic è stata coniata proprio dallo scrittore americano: era il 1970, e sul New York Magazine Tom Wolfe raccontava la raccolta fondi organizzata dal compositore Leonard Bernstein (nel suo appartamento di tredici stanze con terrazzo) per le Black Panther, una storica organizzazione rivoluzionaria afroamericana. Per non urtare la sensibilità degli ospiti d’onore, Bernstein aveva dato la serata libera ai suoi domestici di colore e aveva assunto dei camerieri bianchi, inaugurando un uso insolito del ‘politicamente corretto’.
Il politicamente corretto, dice Wolfe “è nato dall’idea marxista che tutto quello che separa socialmente gli esseri umani deve essere bandito per evitare il predominio di un gruppo sociale su un altro. In seguito, ironicamente, il politicamente corretto è diventato uno strumento delle ‘classi dominanti’, l’idea di un comportamento appropriato per mascherare meglio il loro ‘predominio sociale’ e mettersi la coscienza a posto. A poco a poco, il politicamente corretto è perfino diventato un marcatore di questo ‘predominio’ e uno strumento di controllo sociale, un modo di distinguersi dai ‘bifolchi’ e di censurarli, di delegittimare la loro visione del mondo in nome della morale. Ormai la gente deve fare attenzione a quello che dice. E va di male in peggio, specialmente nelle università. […] Attraverso Radical Chic descrivevo l’emergere di quella che oggi chiameremmo la ‘gauche caviar’ o il ‘progressismo da limousine’, vale a dire una sinistra che si è ampiamente liberata di qualsiasi empatia per la classe operaia americana. Una sinistra che adora l’arte contemporanea, si identifica in cause esotiche e nella sofferenza delle minoranze ma disprezza i rednecks dell’Ohio […] In pratica quella parte operaia della popolazione che, storicamente, ha sempre costituito il midollo del partito Democratico. Durante queste elezioni l’aristocrazia democratica ha deciso di favorire una coalizione di minoranze e di escludere dalle sue preoccupazioni la classe operaia bianca. E a Donald Trump è bastato chinarsi a raccogliere tutti quegli elettori e convogliarli sulla sua candidatura”.
La stampa che si posiziona politicamente a destra fiuta subito il colpaccio: da chi sono rappresentati, in Italia, i radical chic wolfiani? Chi è la nostra ‘gauche caviar’? Ma il Pd, ovviamente, e gli intellettuali di sinistra che lo sostengono! Per usare la classica metafora del volley, Repubblica ha alzato una palla perfetta, e Il Giornale ha schiacciato.
Il 3 gennaio esce l’articolo di Michele Porro dal titolo “Tom Wolfe ‘stronca’ Repubblica su Repubblica. L’autorete del quotidiano: pubblicata un’intervista allo scrittore che boccia la sinistra del politicamente corretto”. Il pezzo esordisce così: “Ieri Tom Wolfe ha rilasciato a La Repubblica una bella intervista in cui spiega perché il pensiero di Repubblica è morto”. Lasciando da parte le inesattezze (l’intervista era stata pubblicata due giorni prima, il primo gennaio, e non era stata rilasciata a Repubblica), la sostanza non fa una piega: “Il mondo che sfila per l’accoglienza a Milano, non rendendosi conto di come vivano gli italiani; gli intellettuali che considerano razzisti coloro che sono contro lo ius soli; gli indignati contro il fascismo, l’orda nera della politica europea, ritenuto una seria minaccia e non più banalmente la risposta trumpiana, appunto, all’incapacità delle attuali classi dirigenti di dare una risposta a una società e a un mercato che stanno cambiando rapidamente. Insomma Wolfe ce l’ha con il pensiero di Repubblica e con i suoi intellò di riferimento che sono evidentemente talmente abituati a mascherarsi di fronte ai propri lettori che lo fanno anche di fronte a se stessi. Altrimenti, perbacco, dalle parti di Repubblica si dovrebbero fare un bel esamino di coscienza” (7). Oltre al danno, dunque, anche la beffa.
Sarebbe stato il caso di soprassedere: ormai la frittata era fatta, meglio lasciar cadere il faux pas nel dimenticatoio. Invece, contro ogni logica, Repubblica si lancia in una strenua (quanto impossibile) difesa dei radical chic, e con una delle sue firme di punta. Michele Serra scrive un pezzo intitolato: “Caro Tom Wolfe, ma quali radical chic?”, nel quale leggiamo che “nella vulgata di destra è diventato ‘radical chic’ tutto ciò che odora di solidarismo (è per lavarsi la coscienza!) o di amore per la cultura (è per umiliare la gente semplice!) e ovviamente di critica del populismo (è disprezzo per il popolo!) […] Ma ammesso e concesso che i liberal, per i bifolchi dell’Ohio, abbiano fatto poco e male, che cosa fa, per i bifolchi dell’Ohio, Tom Wolfe? Ho la presunzione di conoscere la risposta: non fa assolutamente niente […] Lui, a differenza di Bernstein, non è gravato dai sensi di colpa del ricco di sinistra: perché, fortunato lui, è un ricco di destra”. (8). Come insegnava Schopenhauer, per ottenere ragione quando non hai la verità dalla tua parte, attacca l’avversario ad personam, ed è ciò che fa Michele Serra ridicolizzando Tom Wolfe.
È ovvio che un occhio sulla crescita di realtà come CasaPound (9), così come su certe esternazioni sulla “razza” di esponenti della Lega Nord, bisogna tenerlo. Seriamente, però, che significa interrogarsi sulle cause e non in funzione di propaganda elettorale. Perché diciamocelo: Leonard Bernstein sosteneva le Pantere nere. Non era facile nella New York degli anni Settanta raccogliere fondi per un’organizzazione che sollecitava l’uso della forza (anche se per autodifesa), e che inquadrava la discriminazione della popolazione di colore in un’ottica marxista-leninista di lotta di classe, cioè in opposizione alla struttura capitalistica della società statunitense. I radical chic nostrani si limitano a gridare al lupo fascista, tenendosi ben alla larga da qualunque riflessione – figuriamoci organizzazione – anti-capitalista. E se dev’essere un cardinale conservatore come Bagnasco (10) a dichiarare che il problema più serio in Italia non è il fascismo ma il lavoro (quello vero, che ti permette di progettare il futuro), allora siamo davvero nei guai.
1) P. Berizzi, Migranti, così ritorna il fascismo: blitz dei naziskin contro i volontari di Como. E attaccano Repubblica, Repubblica, 29 novembre 2017
2) P. Berizzi, L’avanzata della galassia nera, Repubblica, 29 novembre 2017
3) R. Canali, Blitz antimigranti degli Skinhead a Como: il caso finisce sulla scrivania di Minniti, Il Giorno, 1 dicembre 2017
4) Blitz fascista sotto Repubblica. Militanti di Forza Nuova a volto coperto lanciano fumogeni. “Solo il primo attacco”. Minniti nella sede del giornale, Repubblica, 6 dicembre 201
5) G. Ruotolo, “L’allarme sul fascismo è infondato. È solo l’ultimo collante del centrosinistra”, Tnews, 12 dicembre 2017
6) A. Devecchio, Tom Wolfe: “I radical chic hanno tradito il popolo”, Repubblica, 1 gennaio 2018
7) N. Porro, Tom Wolfe “stronca” Repubblica su Repubblica, Il Giornale, 3 gennaio 2018
8) M. Serra, Caro Tom Wolfe, ma quali radical chic?, Repubblica, 4 gennaio 2018
9) Cfr. Matteo Luca Andriola, CasaPound: le radici politico-culturali e le ragioni dell’ascesa, Paginauno n. 56/2018
10) Fascismo, il cardinale Bagnasco: “Stare attenti a non enfatizzare, il problema più importante è il lavoro”, Genova24.it, 19 gennaio 2018