Felice Bonalumi
Fiducia, sentimento alla base delle relazioni sociali
La fiducia è innanzitutto oggetto della filosofia morale, eppure probabilmente nessun sentimento ha una applicazione in così svariati settori, tanto che se ne sono occupati e se ne occupano la sociologia ma anche l’economia, la psicologia ma anche l’etologia, la teologia ma anche il diritto. Il governo ricorre al voto di fiducia e, a sua volta, il Parlamento dà la fiducia alle linee guida di un governo; la disposizione testamentaria fiduciaria stabilisce che chi riceve un bene in base a un testamento è il beneficiario apparente, in quanto ha l’obbligo di passare quel bene a un terzo. Ogni manuale di addestramento di animali, cane, cavallo o pappagallo, tanto per fare degli esempi, insiste sul rapporto di fiducia che si deve instaurare tra l’animale e l’uomo. Gli indici per valutare la fiducia dei consumatori ci vengono propinati mensilmente e più in generale siamo subissati dagli indici di fiducia economica. La fiducia in Dio è ciò che caratterizza ogni credente, e ogni rapporto di coppia o ogni gruppo si cementa e cresce in base alla fiducia reciproca. Se poi si va nella storia, l’araldo, dal franco hari-wald, era un funzionario dell’esercito, un uomo di fiducia del re, un pubblico ufficiale che prestava uno speciale giuramento ed era inviolabile.
Insomma, gli esempi non mancano e, d’altra parte, l’aver fede, dal latino fidere = fidare, confidare, è una caratteristica dell’animo umano e, dunque, non può sorprendere l’ampiezza del suo uso. Anche a livello di cultura popolare, i proverbi hanno percorso in lungo e in largo lo spettro delle possibilità: dal più che famoso “Di chi mi fido mi guardi Dio, di chi non mi fido mi guardo io”, che forse indica anche i limiti delle capacità umane, a “Non si crede al santo finché non ha fatto il miracolo”, che ci dà un aspetto pratico, concreto della fiducia. Credo, ma lascio cadere subito il discorso, che proprio la ricerca dei limiti dell’atto del fidarsi da parte di un soggetto, e quindi il suo cercare di non essere soccombente, sia la predominante di quanto ci ha lasciato il mondo dei proverbi. Non saprei come altrimenti interpretare il “Fidarsi è bene, non fidarsi è meglio” o il più che categorico “Chi si fida è ingannato”.
Qualunque vocabolario, come conferma di quanto appena scritto, fornisce una serie di significati che non lasciano dubbi sull’ampiezza dell’uso della parola. La voce corrispondente del Grande Dizionario della Lingua Italiana di Salvatore Battaglia dà: “Condizione e atteggiamento di chi si fida; sentimento di sicurezza e di tranquillità, che procede dall’assegnamento che si può fare sulla sincerità, sulla lealtà, sulla benevolenza di qualcuno (o del prossimo in genere), sulle sue capacità, sul suo valore, dalla speranza riposta nel favore della sorte, dalla previsione del felice esito di determinati eventi; aspettazione, certezza, sicura convinzione, ottimismo”.
Da qui derivano per così dire, gli estremi: dall’abbandono totale alla provvidenza divina al tradire la fiducia o al rifiutare la fiducia di qualcuno.
Tutto questo patrimonio ci fornisce una indicazione: l’atto di fiducia nasce da una situazione di incertezza, da una aspettativa che si spera accada, o in base al decorso normale degli eventi o in base al comportamento messo in fieri da un individuo, da un gruppo o da una istituzione. Quindi la prima condizione perché si metta in moto un comportamento fiduciario è la non possibilità di prevedere e/o di tenere sotto controllo il futuro.
Davanti a questa incertezza inserisco qualcosa che mi dà una sensazione di sicurezza, che nasce dal raffrontare la situazione presente ad altre analoghe del passato, da una stima che faccio dello sviluppo possibile della situazione presente o, al limite, da una semplice speranza a cui credo fermamente. Per questo la fiducia può essere limitata o illimitata, ma certamente se ne parla davanti a una valutazione ragionevolmente realistica della situazione. I termini, lo si capisce, sono imprecisi (e imprecisabili), rimandano a una valutazione del soggetto, individuale o collettivo, tuttavia servono per distinguere colui che ha fiducia, dall’ottimista e dal pessimista.
Il primo giudica favorevolmente il futuro, sempre, la sua visione è positiva indipendentemente dalla situazione presente. Poco importa ai fini di queste righe che l’attitudine ottimistica sia oggi valutata socialmente in modo favorevole e, naturalmente, ciò vale anche per il pessimista, del quale si devono dire le stesse cosa ma in negativo. Ottimista e pessimista decidono prima di una valutazione della realtà futura, e l’esempio patologico per eccellenza può essere il giocatore d’azzardo che sa, ha la certezza di vincere nonostante tutte le prove contrarie e, a dire il vero, anche la teoria delle probabilità. All’opposto la depressione indica la situazione del pessimista.
Da quanto fin qui detto è evidente che l’atto di fiducia presuppone una valutazione, per quanto veloce e parziale, della situazione reale. La riflessione viene prima della decisione di accordare fiducia: in questo senso posso dare (o togliere) la fiducia a qualcuno, posso cercare di meritare la fiducia di qualcuno e così via. Ma prima ancora, prima che l’azione scaturita dalla fiducia si metta in moto, c’è da parte del soggetto un atto di volizione: io ho la volontà di avere fiducia e, dopo la valutazione che ho definito ragionevolmente realistica, attuo quanto questa valutazione
mi ha portato a decidere. Non credo si possa indagare ulteriormente questo atto di volizione: le sue caratteristiche, anzi la sua stessa esistenza è connaturata, è parte del patrimonio genetico dell’uomo che, se quanto scrivo è corretto, è in tutti i sensi un animale sociale, un animale di gruppo. Controprova: esiste l’eremita, il solitario perché esiste il gruppo. L’eremita e il solitario sono coloro che si sono staccati, che hanno deciso di staccarsi dal gruppo e non certo viceversa.
Oggi si parla in genere di tre tipi di fiducia:
- fiducia istituzionale o sistemica, cioè la fiducia posta dagli attori sociali nei confronti di una organizzazione. Quest’ultima può essere naturale, un ecosistema, o sociale, la famiglia ma anche lo Stato. La sociologia ha naturalmente indagato questa tipologia;
- fiducia interpersonale, cioè la fiducia riposta da attori sociali ad altri attori sociali. L’Ego si fida di Alter ed è ciò che succede quotidianamente: mi fido che il libraio mi farà arrivare il libro che ho prenotato, che gli amici verranno a cena e via dicendo;
- fiducia autoreferenziale, cioè la fiducia in se stessi. Il campo privilegiato di questo tipo di fiducia è ovviamente la psicologia, ma le sue ricadute in campo sociale non sono da sottovalutare. Per esempio, se ho fiducia in me stesso sono fermamente convinto che supererò quell’esame, quel concorso, che porterò a buon fine quell’azione, ma soprattutto ho fiducia che gli altri percepiranno questa mia situazione di benessere e ne rimarranno favorevolmente colpiti, agendo anche loro di conseguenza nel gruppo.
Al di là della classificazione, pur importante, è evidente che la fiducia è innanzitutto un sentimento che regola il mondo delle nostre relazioni sociali, dei nostri legami. A cominciare dal primo legame, la fiducia che il bambino ha in chi l’ha generato, l’ha gettato nel mondo: sarebbe inutile e fuorviante ripetere qui l’importanza del legame madrefiglio. Sta di fatto che il primo atto, inconscio quanto si vuole, ma altrettanto indispensabile, è un atto di fiducia. Ricambiato? In condizioni normali certamente, ma proprio questo esempio dice che la fiducia è una comunicazione a due vie: da Ego ad Alter, ma l’atto di fiducia deve poi tornare indietro, e coinvolgendo entrambi gli attori si caratterizza e si sviluppa; in caso contrario il legame è necessariamente destinato a spezzarsi. Questo vale anche per i legami sociali, per i patti sociali, senza fiducia non ci sarebbe società umana.
In questo senso non si può ridurre la fiducia a un teoretico atteggiamento mentale: la fiducia appartiene al campo della ragion pratica, se così posso esprimermi, perché quella specifica, particolare fiducia ha bisogno della visibilità sociale dei comportamenti e/o delle istituzioni o è nulla. In fondo per questo aspetto aveva ragione Thomas Hobbes con il suo homo homini lupus (1): lo Stato è il garante supremo della sopravvivenza degli individui in società, senza di esso rimarrebbe la lotta come unica dimensione dell’esistenza. Per altro, se nella visione di Hobbes il punto di partenza è la massima sfiducia reciproca, la comunità, il gruppo sono di fatto qualcosa di rassicurante. Semmai è bene sottolineare che per Hobbes lo Stato è necessariamente coercitivo e, dunque, la fiducia che vi si ripone è essa stessa incanalata, chiusa nella coercitività e tale situazione non è certo definita e definibile nei termini della fiducia, al più di autorità, Stato oppressivo fino, al limite, a Stato dittatoriale.
Voglio portare l’attenzione sui due attori implicati nel rapporto di fiducia: chi dà, ma forse è meglio dire, chi cerca, e chi ottiene, richiesta o meno, la fiducia. La caratteristica del rapporto di fiducia, certamente la sua peculiarità, è di essere un rapporto equilibrato in cui i due attori, per così dire, mescolano i loro ruoli. Mi spiego. Ogni rapporto, quindi non solo quello di fiducia, fino al momento immediatamente precedente la sua costituzione, implica una separazione, un abisso che, appunto, si vuole colmare: vado verso un ignoto che è colui sul quale porto la mia richiesta di fiducia e, nello stesso tempo, anche l’altro attore accetta un ignoto, perché a sua volta deve fidarsi di chi si fida di lui.
Un rapporto, altra caratteristica, che cerca costantemente un proprio equilibrio in quanto la fiducia non è data una volta per sempre, ma si costruisce e si rinnova davanti ai cambiamenti e agli imprevisti che il mondo come realtà esterna presenta ai due attori, essi stessi parte del mondo. La fiducia ha cioè un riscontro immediato, è immediatamente giudicabile e giudicata perché si avvale di una serie di atti, di azioni e ogni atto, ogni azione è giudicato separatamente: costituisce un mondo a sé che può confermare il legame o ricreare l’abisso di partenza.
Equilibrio vuole dire un rapporto di reciproca e, appunto, equilibrata dipendenza. Mi fido di un altro perché è esperto in quel settore, di quel problema o quant’altro e ha dato prove positive in precedenza. Se manca l’equilibrio la situazione non è di fiducia e, al limite, è una situazione patologica. Immagino che qualche lettore possa porre una obiezione: e il bambino dell’esempio precedente, appena nato, non è dipendente totalmente dalla madre? Sì, materialmente dipendente, non c’è dubbio, ma se la mamma è cattiva (prendo la parola da Donald Winnicott) il bambino metterà in atto una serie di strategie psicologiche e comportamentali per sopravvivere. Paradossalmente, si potrebbe dire che è il bambino che cerca di raddrizzare, di risanare il legame.
Credo che quanto Salvatore Natoli scrive a proposito della felicità valga anche per il rapporto di fiducia: “Starsi accanto vuol dire esperire l’inesauribilità della differenza – l’altro non potrà mai essere me stesso – nella certezza della corrispondenza” (2). Una sano legame di reciproca dipendenza, in cui nessuno dei due attori si annulla, allarga le nostre possibilità, ma tutto ciò significa anche che il fidarsi implica il dubbio.
Di avere valutato in modo errato la persona di cui mi fido, di averla sopravvalutata o, al limite, sottovalutata, di avere valutato male la situazione: non importa, tutto ciò fa parte del gioco perché è l’instabilità della realtà, il suo continuo modificarsi che mi porta al dubbio come parte integrante e imprescindibile dell’atto di fiducia e, più in generale, del mio stare nel mondo.
Ma il dubbio, altrettanto necessariamente, deve risolversi in certezza, anche in questo caso, non una certezza astratta, ma una certezza che si costruisce atto dopo atto. Decido dopo una ragionevole valutazione, come scritto poche righe sopra, e in questa valutazione è insito il dubbio, ma poi decido di fidarmi, di affidarmi a qualcuno per qualcosa e dunque gli do implicitamente anche la mia certezza. Insomma, davanti alla frammentarietà della realtà cerco un punto di riferimento che non mi annienti, innanzitutto, che mi permetta all’opposto di allargare la parte di realtà che posso conoscere, tenere sotto controllo, giudicare e via di seguito e, quindi, c’è un punto di partenza che è imprescindibile e che rientra nella sfera della psicologia: mi fido di qualcuno perché ho innanzitutto fiducia in me stesso.
Se il ragionamento è corretto si può concludere in questo modo: ogni società si basa sulla fiducia, ma se una società non è in grado di creare persone che stimano se stesse, ebbene quella società è destinata a soccombere.
1) Detto di passaggio: il concetto universalmente noto attraverso il filosofo inglese, in realtà ha una lunghissima storia. Per esempio, nell’Asinaria di Plauto si incontra l’espressione lupus est homo homini, e negli Adagia di Erasmo da Rotterdam: homo homini aut deus, aut lupus. Una storia che continua anche dopo Hobbes e si può dire che, in una formula più o meno simile, si ritrova in tutti i pensatori che sottolineano come centrale l’egoismo umano
2) Salvatore Natoli, La felicità di questa vita, Mondadori, 2000, p. 95