Dal Pci al Pd, il discorso al Lingotto di Veltroni
Pci, Pds, Ds, Pd. È questo l’assunto da cui si parte per analizzare la proposta politica del nuovo Partito democratico. È un assunto errato: il Pd non è l’ultima, in termini temporali, evoluzione del Pci. Evolversi significa progredire; la definizione contiene implicita l’idea di un miglioramento, che non può esservi senza il riconoscimento della propria storia, nei meriti e negli errori – senza passato si è privi d’identità – e soprattutto, evolversi non significa rinnegare il proprio futuro, i valori su cui sempre si è fondata la visione politica della società che si vuole costruire; se accade questo, non vi è evoluzione ma trasformazione, mutamento di natura, trasformismo, cambio di casacca. Questa è l’operazione messa in piedi con la nascita del Pd.
Per comprenderlo non è necessario aspettare il nuovo soggetto politico al varco del governo, perché già le parole del discorso pronunciato al Lingotto dall’allora candidato segretario Walter Veltroni – confermato nella carica dopo la farsa delle primarie del 14 ottobre – fugavano ogni dubbio. E la stessa certezza, già allora, che la costruzione di una corsa democratica al posto di segretario fosse un ben ridicolo teatrino, aveva reso centrale, programmatico e degno di attenta analisi il discorso da lui pronunciato a Torino.
“Fare un’Italia nuova” esordisce Veltroni il 27 giugno, “è questa la ragione, la missione, il senso del Partito democratico”. Per chi si sia affannato a spulciare il fiume di parole pronunciate al Lingotto, cercando nel progetto di quella “Italia nuova” principi che si rifacciano, se non al comunismo, almeno alla socialdemocrazia, non vi è altra conclusione che non è certo su valori di sinistra che poggia il programma del Pd.
D’altronde Veltroni non pecca di ipocrisia, è addirittura cristallino: parla “non da uomo di partito e neanche da uomo di parte”, ma da “italiano”; si candida segretario di un partito la cui “politica è sincera, pragmatica, ancorata ai suoi valori, non ideologica”. Quali valori?, viene da chiedersi, e che cosa significa quel pronome possessivo, ‘suoi’, come se la politica potesse essere autoreferenziale e creare valori per sé; quali valori se, come è evidente, quella del Pci è una storia troppo ingombrante e scomoda per il nascente Partito democratico? Nessun accenno, infatti, nel lungo discorso, alla storia del comunismo italiano, una storia da cui sembra necessario purificarsi nel fonte battesimale di un nuovo soggetto politico.
A chi si rivolge dunque la politica del Pd, e di quale classe sociale intende difendere i diritti – perché, checché se ne dica, le classi sociali esistono ancora, eccome! – un partito che ha così fame di liberarsi del passato da costringere Fassino a pronunciare, nella Mozione politica che porta il suo nome per il 4° Congresso dei Democratici di Sinistra, la parola “nuovo” ben sessantaquattro volte e Veltroni, nel suo discorso al Lingotto, quarantacinque volte?
Innanzitutto, il Partito democratico parla ai “nuovi italiani”. In merito a questo nebuloso concetto qualcosa chiarisce Fassino nella sua mozione, che afferma essere il Pd “un partito per chi nel 2010 avrà vent’anni”: nati nel 1990, dunque. Uomini e donne che non avranno scomode memorie come l’esistenza del Pci, il crollo del Muro, tangentopoli, vissuta alla tenera età di due anni. Uomini e donne che conosceranno però il nome di Craxi, inserito nel pantheon tra quanti hanno contribuito a un “apporto di quella grande storia politica che ha rappresentato un filone culturale e politico essenziale della sinistra riformista italiana” (1) grande storia politica a cui, sempre secondo la mozione Fassino, Enrico Berlinguer ha contribuito unicamente con “quella alta lezione morale che ci ha lasciato in eredità” e Antonio Gramsci – cui si devono le tesi della piattaforma che portò alla nascita del Partito comunista italiano il 21 gennaio 1921 – semplicemente con la definizione che “il problema italiano è quello di una riforma intellettuale e morale”.
Ma non solo; quel ‘nuovi’ non è unicamente una connotazione anagrafica.
“Superiamo gli odi, i rancori e le divisioni […]. La ripresa economica non è né di destra né di sinistra” afferma Veltroni. Eppure, nel lungo discorso, pronuncia la parola ‘mercato’ dieci volte, la parola ‘impresa’ undici, la parola ‘equità’ una volta, la parola ‘uguaglianza’ due volte, le parole ‘giustizia sociale’ quattro volte. Già questa contabilità di base è un buon indizio per comprendere la visione veltroniana della società futura, a cui si può aggiungere un altro numero: la parola ‘opportunità’ appare dodici volte. “Vogliamo rendere uguali il figlio del professionista e il figlio dell’operaio, […] sì, vogliamo che siano uguali”. Bene!, viene da esclamare, era ora. “Uguali non nel punto di arrivo. Ma in quello di partenza”. Difficile trattenere un’espressione stupefatta e non chiedersi se si è compreso male. Ma Veltroni spiega subito dopo, liberandoci da ogni dubbio: “Vogliamo che il figlio dell’operaio abbia tutte le opportunità di cui ha diritto. Vogliamo che siano le sue capacità, i suoi sacrifici, la sua intelligenza a dire dove arriverà, e non che il suo posto nella società di domani sia stabilito a priori dal salario che suo padre porta a casa dopo una giornata passata davanti alla pressa. Vogliamo che il figlio del professionista non debba trovare più comodo o più realistico seguire il sentiero già tracciato, che possa scommettere su se stesso e seguire ciò che lo affascina, e diventare un ricercatore, uno scienziato, se è questo che desidera.”
Quindi: le capacità, i sacrifici, l’intelligenza, del figlio dell’operaio, diranno dove arriverà, saltando da un lavoro precario a un altro (per il padre, vecchio italiano, probabilmente pure politicizzato e che non potrà mai comprendere che la ripresa economica non è né di destra né di sinistra, non c’è nulla che il sogno veltroniano possa fare; continuerà ad alienarsi davanti alla pressa per una giornata lavorativa anche più lunga di otto ore – vista la proposta di defiscalizzare gli straordinari – finché non raggiungerà l’agognato scalino della pensione); per il figlio del professionista, invece, non sono indispensabili né capacità né sacrifici né intelligenza, bensì il desiderio di seguire ciò che lo affascina, e come nei migliori sogni di bambino, diventare, perché no?, ricercatore, scienziato… Che dolcezza. Quasi tenero. Peccato che la rincorsa alla Luna faccia ormai parte di un immaginario d’altri tempi, relegando al passato il sogno di diventare astronauta. Ci si commuove sempre, davanti ai sogni di bambino realizzati.
Veltroni parla alle imprese, piccole e medie soprattutto, “il cuore dell’Italia che produce, a cominciare dal Nord” che “vanno sostenute, vanno aiutate a diventare grandi”; promuove le liberalizzazioni, “un vero federalismo in campo infrastrutturale”, chiama “i capitali privati a concorrere a migliorare la dotazione infrastrutturale del Paese” e si dice convinto che “almeno al Nord, i soldi si potrebbero trovare sul mercato finanziario”. Quanto possano così lievitare le tariffe dei servizi pubblici – energia, acqua, trasporti, comunicazioni, beni comuni che lo Stato ha il dovere di fornire ai propri cittadini in quanto ontologica sua ragione d’essere – divenuti privati e quindi rispondenti alle ragioni del profitto d’impresa (2), non è questione che riguardi il Partito democratico.
Veltroni parla di pressione fiscale: “Non è con gli odi di classe che si sconfigge l’evasione” afferma, e continua: “Io penso a un Partito democratico che in tema di lotta all’evasione fiscale bandisca dalla sua cultura politica ogni pregiudizio classista, considerando altrettanto esecrabili quell’imprenditore che evade, quel pubblico dipendente che percepisce lo stipendio e non fa quello che dovrebbe e chi offre lavoro in nero”. La medesima condanna morale, dunque, per chi ruba una gallina e per chi rapina un milione di euro; tutti sullo stesso piano, lo sfruttatore che costringe a un lavoro in nero privo di qualsiasi tutela, sicurezza compresa (1302 casi di infortuni mortali sul lavoro in Italia nel 2006, un dato in crescita rispetto ai 1274 casi del 2005, secondo il rapporto annuale Inail; quante le morti bianche di lavoratori irregolari non denunciate? Impossibile saperlo) o l’evasore fiscale che addossa il costo dello Stato pubblico e sociale sulle spalle della collettività di coloro che, al contrario, le imposte le pagano, e il tanto in auge ‘fannullone’, nemico dichiarato di Pietro Ichino.
Più che lotta al “pregiudizio classista” sa tanto di sparata nel mucchio, e si sa che nel mucchio ci sono i soldati semplici e non gli ufficiali, questi ultimi ben saldi in groppa ai propri cavalli a osservare la battaglia dall’alto della collina. E difatti, per sconfiggere l’evasione fiscale Veltroni propone un “profondo ripensamento di tutto questo, per entrare in una spirale virtuosa: man mano che lo Stato abbassa le aliquote e semplifica gli adempimenti, i contribuenti accrescono il livello di fedeltà delle loro dichiarazioni e la loro recuperata fiducia nello Stato crea quel clima di condanna sociale dell’evasione che oggi manca”. La proposta si commenta da sola: è un messaggio agli ufficiali. Tranquilli, dice loro Veltroni, il futuro governo a guida Pd non vi verrà a stanare; siete esecrabili, ma è l’eccessiva pressione fiscale ad avervi reso tali; il Partito democratico aspetterà che una “spirale virtuosa” sostituisca in voi la cupidigia di plusvalore con i valori di giustizia sociale equità e uguaglianza (!).
Veltroni vuole anche “bandire ogni equivoco: un ben funzionante mercato finanziario è una delle condizioni dello sviluppo. E il mercato finanziario funziona bene se è aperto”. Migliaia di risparmiatori rimasti senza un soldo per i crolli di Cirio e Parmalat – solo per citare i casi italiani – avrebbero da obiettare su ciò, affermando probabilmente che sarebbe il controllo – inesistente – e non l’apertura, a far funzionare bene il mercato finanziario; ma tutto sta a intenderci su chi siano coloro per i quali debba funzionare bene: le multinazionali le banche gli industriali gli speculatori, o i piccoli risparmiatori.
Veltroni non dimentica i lavoratori: ai precari offre non una stabilità lavorativa – in una società neoliberista che sta rispondendo a una crisi di accumulo del capitale e alla conseguente diminuzione di plusvalore con la riduzione massiccia del costo del lavoro – ma una “società che si prenda carico”, un compassionevole sistema di ammortizzatori sociali, un social-liberismo che andrà a ingrossare il numero dei disoccupati, di breve e di lunga durata, in quell’ingranaggio funzionale – ai detentori del capitale – per cui maggiore è la mano d’opera disponibile sul mercato, maggiore è il decremento dei salari. Non solo: la visione veltroniana di lotta alla precarietà poggia su un “patto generazionale” che non è possibile “senza spostare le ingenti risorse oggi impegnate per far fronte agli squilibri del sistema pensionistico verso i giovani e la loro inclusione”. Veltroni finge di non sapere – d’altronde il fatto non è funzionale al suo progetto di “Italia nuova” – che la gestione previdenziale dell’Inps è in attivo, dato ormai divenuto di dominio pubblico grazie all’insistenza di alcuni esponenti politici che ostinatamente hanno continuato a ripeterlo citando numeri e bilanci fino a quando l’informazione ha bucato il muro di conveniente omertà dell’oligarchia politica ed economica; in passivo è il ramo assistenziale – cassa integrazione straordinaria, mobilità, prepensionamenti – che da sempre foraggia le ristrutturazioni industriali del sistema capitalistico addossandole all’intera collettività anziché al capitale stesso.
“C’è poi un capitolo” continua, “del patto fra le generazioni, che dobbiamo avere il coraggio di non dimenticare. A carico di noi tutti, ormai da vent’anni, pesa un ingente debito pubblico, conseguenza dei conflitti sociali degli anni Settanta e dell’irresponsabilità degli anni Ottanta”. Ora: la seconda causa, è nota: ha portato a Tangentopoli nel 1992 (che, tra l’altro, né Veltroni né Fassino osano evocare con il proprio nome, sia mai che come il diavolo, nel momento in cui ne parli spunti la coda; Fassino, nella sua mozione, la chiama “la crisi della Dc”, dimenticando addirittura di includervi il Psi ma, diversamente, come inserire nel pantheon il suo segretario plurindagato e fuggito all’estero Bettino Craxi?); qualche dubbio sul fatto che la corruzione, la concussione e l’arricchirsi alle spalle della collettività siano da far risalire solo agli anni Ottanta e non anche al regime democristiano dal dopoguerra in avanti, ma soprattutto viene da chiedersi in che modo i conflitti sociali degli anni Settanta possano essere citati come causa dell’ingente debito pubblico attuale; forse portiamo ancora sulle spalle il peso economico degli straordinari pagati ai servizi segreti (deviati e non, per chi crede che possano esistere due branche di servizi segreti)? Dei finanziamenti ai gruppi fascisti affinché eseguissero le stragi di Stato? Portiamo ancora il peso economico della nascita e del mantenimento di Gladio?
A ogni modo, per far fronte all’ingente debito pubblico è necessaria “una politica finanziaria rigorosa, non figlia dell’ideologia ma della necessità”. E difatti, ancora non si prospetta l’adeguamento del prelievo fiscale sulle rendite finanziarie, in Italia il più basso rispetto alla media europea. Veltroni al Lingotto si dichiara favorevole all’armonizzazione delle aliquote, salvo poi affermare, nelle interviste successive e prossime alla Finanziaria di fine anno, che ancora non è tempo; bisogna abbassare le tasse, non alzarle. La “spirale virtuosa” di cristiana ispirazione.
Infine, il candidato in pectore del nuovo Partito democratico ci parla del ruolo della politica, del “carattere necessariamente lieve e ambizioso che la politica moderna deve assumere”. Lieve e ambizioso; due aggettivi che solo l’ideologia economica neoliberista poteva immaginare di porre accanto alla parola ‘politica’. La leggerezza (e quindi l’evanescenza) e l’ambizione, sono dunque quei valori a cui Veltroni accenna nella prima parte del suo discorso, quei valori autoreferenziali cui la politica deve ispirarsi. Principi che il segretario del Pd affianca alla retorica dei buoni sentimenti, di cui è maestro e fa largo uso – fumo negli occhi per gli elettori confusi o distratti: la politica deve saper “condividere: la vita dei cittadini, la quotidianità di persone che iniziano la loro giornata senza leggere gli editoriali dei giornali né domandandosi a quale dei vecchi partiti italiani si sentono legati. No, non fanno e non si chiedono questo, l’anziana che fatica a pagare l’ultima bolletta del mese con quello che resta della sua pensione, l’operaio che deve mettere insieme un lavoro che non lo soddisfa e il dovere di mandare avanti una famiglia, l’imprenditore che sbatte la testa contro la burocrazia o l’artigiano e il commerciante che ha il dovere di pagare le tasse ma ha anche il diritto di avere uno Stato che gli renda semplice la vita”. Ancora una volta, la visione veltroniana della società futura contempla il diritto di un imprenditore o di un artigiano o di un commerciante ad avere uno Stato che “gli renda semplice la vita” mentre, per l’anziana che vive sulla soglia della povertà e per l’operaio, che la vita resti complicata; per loro una sentita empatia, ché ‘condividere’, in assenza di progetti reali, significa provare empatia, né più né meno.
Altro che politica né di destra né di sinistra, la migliore società possibile progettata dal Pd non mette al centro l’uomo, ma il capitale; questa è una scelta ideologica di classe. Il Partito democratico ha stretto e consolidato l’alleanza con i proprietari dei mezzi di produzione buttando a mare i lavoratori. Di qui la necessità di liberarsi anche del proprio passato – della storia di quel Pci che era nato come il rappresentante politico delle classi subalterne – per apparire credibile al Paese che conta: grandi industriali – che controllano anche gli organi d’informazione e quindi manipolano la pubblica opinione – piccoli e medi imprenditori, liberi professionisti. Per convincerli che una volta al governo il Pd non stringerà alleanze con le forze della sinistra – Prc, Pdci, Verdi, Sd – ma si lancerà in “scenari più avanzati” (Piero Fassino), in un “centrosinistra di nuovo conio” (Francesco Rutelli), in un “orizzonte che va oltre le classiche alleanze tra centrosinistra e sinistra radicale” (Walter Veltroni).
Al Paese che non conta – coloro che hanno da vendere solo se stessi e la propria forza lavoro – il Pd offre una pubblica carità fatta di ammortizzatori sociali che sempre più incatenerà la massa dei cittadini a un ruolo subalterno e alla dipendenza. E offre un nemico su cui sfogare la propria frustrazione: non il padrone, ma l’immigrato, che ruba il lavoro e quel poco di sussistenza sociale. Veltroni non dimentica infatti, nel suo discorso, la ‘sicurezza’, fomentando la diffidenza e l’odio – sempre figlio della paura – verso il diverso, e pensa a “un modo nuovo di assicurare e aumentare la presenza dello Stato sul territorio”. Una deriva securitaria che alcuni sindaci diessini (futuri… come chiamarli? Pidiisti? Perché chiamarli democratici è dura…) hanno immediatamente cavalcato, andando addirittura oltre: non solo un palpabile aumento della presenza di divise nelle strade, ma il tentativo di creare nuove figure di delinquenti: il lavavetri e il mendicante molesto.
Nulla di nuovo, nel progetto del Pd, in fondo si può dire. Precarietà del lavoro, agevolazioni fiscali e aiuti al capitale (tramite leggi che ne istituzionalizzano le richieste), smantellamento di uno stato sociale di diritto: tutti cambiamenti già messi in atto che appartengono al presente. È vero. Perché c’è un altro aspetto, che caratterizza l’identità del Partito democratico; un aspetto che ricorda il personaggio di Fomà Fomìc.
“Fomà Fomìc! Chi era costui?”. La domanda esplode in Candido ovvero Un sogno fatto in Sicilia di Leonardo Sciascia, a parodia del famoso incipit di un capitolo dei Promessi sposi – “Carneade! Chi era costui?” – e da quell’interrogativo, nel romanzo dello scrittore siciliano ha inizio una grottesca ricerca all’identità del misterioso personaggio.
Fomà Fomìc è il protagonista de Il villaggio di Stepàncikovo e i suoi abitanti, di Fjòdor Dostoevskij. È un prizivàlscik, un parassita, una figura tipica dei tempi dell’impero russo del XIX secolo – il romanzo è del 1859 – un uomo di nobili origini ma decaduto che viveva presso le ricche famiglie aristocratiche mangiando pane a ufo e facendo la parte del buffone. “Di dove fosse sbucato, è avvolto nelle tenebre del mistero”. Dopo la morte del generale che Fomà trastullava imitando diversi animali e rappresentando quadri viventi, “in modo affatto inatteso diventò d’un tratto un importante e straordinario personaggio”; “la generalessa nutriva per lui una specie di mistico rispetto, per che cosa? È ignoto”.
Pieno di sé, abile oratore, nasconde i propri fini – rimanere in quella casa da padrone indiscusso, vivere nell’agio, servito e riverito, senza preoccuparsi della propria sussistenza – dietro una dialettica pregna di retorica, buoni principi, alti valori morali e sociali, riuscendo ad assoggettare in breve tempo alla sua “influenza inconcepibile e inumanamente dispotica” anche il figlio della generalessa, il colonnello Jegòr Iljìc Rostanjòv, e tutta la corte di altezzose dame di compagnia e leziosi nobili decaduti ospiti nella dimora del militare in congedo, nel villaggio di Stepàncikovo. “Egli affermò sul serio allo zio (il colonnello Rostanjiòv, n.d.a.), lo so, che lui, Fomà, aveva da compiere una grandissima impresa, impresa per cui era stato chiamato al mondo e al cui compimento lo spingeva un cert’uomo con le ali, che gli appariva la notte, o alcunché di simile. Precisamente: scrivere un’opera profondissima di genere edificante, che avrebbe prodotto un terremoto universale e fatto scricchiolare tutta la Russia. E quando tutta la Russia avesse scricchiolato, egli, Fomà, sprezzando la gloria, sarebbe andato in un monastero e avrebbe pregato giorno e notte nelle caverne di Kiev per la felicità della patria. Tutto ciò sedusse lo zio”.
Difficile non trovarvi analogie – uomo con le ali a parte, o almeno si spera (Montezemolo non è provvisto di ali, oppure sì?) – con le parole dell’intervista rilasciata da Veltroni al Corsera il 28 agosto, in cui il segretario del Pd, alla domanda del giornalista: non ha ripensamenti? È stato davvero opportuno candidarsi?, risponde: “non era conveniente; era giusto. […] Mi sono guardato allo specchio, e mi sono risposto che non avevo scelta, l’occasione è storica, non per me né per la nostra parte politica; per il Paese”. La sua Africa dovrà attendere. Il dispotismo di Fomà, che intende sottomettere ogni persona alla propria visione del mondo – cui sembra a volte credere lui stesso, tanto la propugna con sentimento e passione – non è differente dalla “vocazione maggioritaria” esplicitamente dichiarata dal Partito democratico: come il nuovo soggetto politico, Fomà non vuole solo comandare, vuole convincere, vuole riconoscimento; parla per il bene comune, pretende di elevare spiritualmente, di istruire; vuole moralizzare secondo la propria morale, renderla universale e universalmente accettata. Il villaggio di Stepàncikovo è il suo regno.
Da una parte gli ospiti del colonnello – la classe agiata – dall’altra i contadini e gli artigiani, nient’altro che ‘anime’ di proprietà del ricco di turno, che può riceverle in eredità – come un qualsiasi bene – regalarle, venderle. “[…] questo contadino magari carico di famiglia e coi capelli grigi, in un’izba soffocante, magari anche affamato, ma contento, che non mormora, ma benedice la sua povertà ed è indifferente all’oro del ricco. Che il ricco stesso, intenerito, finisca per portargli il suo oro! Che anzi in tale occasione le virtù del contadino si uniscano alle virtù del suo padrone e, magari, anche del potente. Il villico e il potente, così lontani sulla scala sociale, che si uniscono infine nelle virtù: questo è un alto pensiero!”. L’Italia nuova di Veltroni. La pusillanime aristocrazia e la sua corte interessata hanno un solo scopo nella vita: essere contenti e felici. Questo ricercano, quasi ossessivamente. Solo su un punto, i desideri del colonnello contrastano con quelli di Fomà: innamorato di una governante anela a sposarla – pur non avendolo mai confessato ad alcuno, nemmeno a se stesso – incurante del fatto che la ragazza sia povera in canna e dunque priva di dote. Non è infatti la differenza sociale il problema, ma il denaro.
Fomà, intuiti i sentimenti di Jegòr Iljic, decide che egli dovrà al contrario unirsi a una ricca e “stranissima ragazza, più che matura e quasi completamente scema, con una certa insolita biografia e poco meno di mezzo milione di dote”. Il colonnello sembra sottomettersi al volere di Fomà. Ma improvvisamente, stanco dei soprusi e delle umiliazioni e per difendere l’onore dell’amata – terribilmente perseguitata – il mite Jegòr Iljic si ribella: caccia a calci dalla sua casa il prizivàlscik divenuto un tiranno, il quale si ritrova senza un soldo, senza un tetto e una destinazione, sotto i tuoni e i fulmini di un temporale appena esploso; spodestato dal trono. Che fare? Dopo meno di un quarto d’ora, grazie ai pianti, agli svenimenti e alla disperazione della generalessa, Fomà viene riaccolto in casa. Quel breve tempo all’addiaccio nel mondo reale – “[…] era stato preso da una paura ignominosa, s’era voltato verso Stepàncikovo e aveva corso dietro Gavrìla” – è sufficiente al prizivàlscik per riaversi dalla sorpresa e comprendere il proprio errore: la realtà è mutata? Il colonnello, dall’indole remissiva e da sempre sottomesso alla generalessa, desidera sposare quella governante al punto da contraddire la madre e buttare lui fuori di casa? E sia. Che il matrimonio si faccia, allora. Governare l’esistente, andare incontro alle richieste di chi ha i mezzi per disarcionarti, è il segreto per restare in sella al potere. Fomà Fomìc dà la propria benedizione al matrimonio e crea la felicità generale. Da quella casa non sarà più cacciato, “intronizzato per sempre la sua tirannia non avrebbe più avuto fine”.
Governare l’esistente, è quello che si appresta a fare il Partito democratico; il suo progetto politico è la resa incondizionata a un sistema neoliberista divenuto dogma, che in Italia ha generato una società in cui il 10% delle famiglie più ricche possiede il 43% dell’ammontare della ricchezza netta totale; una società in cui, secondo l’indagine Istat “La povertà relativa in Italia nel 2006”, le famiglie in condizione di povertà relativa sono 2 milioni 623mila, pari all’11,1% delle famiglie residenti, complessivamente 7 milioni 537mila individui poveri, il 12,9% dell’intera popolazione.
Il progetto politico del Partito democratico è l’evidente rinuncia a mettere in discussione la realtà di una società sempre più diseguale, alla quale anzi il Pd si adegua preparandosi a sostenerla, con in più la pretesa che la propria politica venga universalmente riconosciuta di sinistra e accettata come l’unica politica oggi possibile e attuabile; una pretesa che è dispotica “vocazione maggioritaria”, aspirazione a una società da pensiero unico.
Il Pd si appresta a essere la protesi politica di un capitalismo arrogante ormai al collasso per sovrabbondanza di merci, e ciò che rende drammatico questo tradimento – ché di tradimento si tratta, per quanto già il Pds e il partito dei Ds non fossero di certo più il Pci e lo stesso Partito comunista italiano non si sia mai prefisso, in realtà, di sovvertire l’ordine dello Stato borghese – è il vuoto politico che si lascia alle spalle; il vuoto ideologico, il consapevole revisionismo storico, il rovesciamento di valori che colpevolmente vuole ingenerare – e ci riuscirà – nella testa della massa di cittadini che fino a oggi ha sostenuto e votato il Pci, poi il Pds e infine i Ds; la gran parte voterà il Pd, convinta che il nuovo partito sia l’evoluzione naturale e logica di un pensiero comunista divenuto ormai anacronistico. Cittadini anch’essi arresi all’ideologia neoliberista ormai interiorizzata al punto da essere incapaci d’immaginare un mondo altro; figuriamoci i ‘nuovi italiani’, coloro che nel 2010 avranno vent’anni.
E così finisce la storia del partito comunista in Italia, nel dopoguerra il terzo, per importanza e consensi, partito comunista del mondo; una messa da requiem nell’anno che celebra il settantesimo anniversario della morte di Antonio Gramsci.
(1) La storia sono loro di Walter G. Pozzi, PaginaUno n. 4/2007
(2) Acqua, fra diritto e mercato di Erika Gramaglia, PaginaUno n. 4/2007