di Federica Zoia
Giovedì 29 gennaio 2009
Intervista a Radio Saut El Shaab
(Intervista del 27 gennaio, Gaza City)
«All’inizio non capivamo che cosa stesse succedendo, dalle finestre della redazione vedevamo in tutte le direzioni aerei, fuoco, esplosioni» racconta Bassem Abu Oun, direttore di Radio Voce del Popolo (Radio Saut El Shaab), emittente di riferimento del Fronte popolare per la liberazione della Palestina. «Ma indipendente, con un palinsesto che si rivolge a tutti gli abitanti della Striscia» precisa Abu Oun. Radio Voce del Popolo rappresenta l’unica alternativa alle radio di Hamas (Al Aqsa) e Jihad (Al Quds).
Colti di sorpresa dall’intensità dell’operazione israeliana Piombo fuso, i redattori di Radio Saut El Shaab hanno messo a punto un piano per coprire tutto il territorio, «con giornalisti presenti nella sede centrale 24 ore su 24, a turni, e altri in giro per la Striscia» racconta il direttore. «Non è stato facile, alcuni dei miei ragazzi dormivano in redazione».
In realtà, Radio Voce del Popolo non nasce con una vocazione ‘all news’, ma come un’emittente al servizio della comunità, «con un palinsesto vario, fatto di sport, cultura, sociale, e programmi mirati per donne e giovani, cosa che le altre radio non hanno mai fatto». Questo era il progetto iniziale, ormai due anni e mezzo fa, e così è stato fino all’inizio dell’offensiva israeliana. «In tempi di guerra – commenta Oun – quando non ci sono altri punti di riferimento, una radio può e deve diventare il solo punto di riferimento per i civili e per i combattenti».
Tutto intorno alla sede dell’emittente, gli aerei militari F16 colpivano altri palazzi sedi di organi di stampa (5 distrutti e 2 danneggiati gravemente, secondo il rapporto del 22 gennaio pubblicato dal Centro palestinese per i diritti umani, Pchr). «A volte abbiamo pensato che i bombardamenti fossero per noi, dalle finestre sono entrate schegge pericolose quanto proiettili. Certe esplosioni sono avvenute a qualche centinaio di metri da qui».
Durante i 22 giorni di guerra, Radio Saut El Shaab ha dato informazioni su quanto accadeva nelle diverse zone della Striscia, ha lanciato appelli per gli aiuti, ha segnalato i casi più gravi, ha contribuito a rafforzare i legami fra le diverse anime della società gazawi. «Grazie a un generatore di corrente abbiamo rappresentato per i nostri ascoltatori una voce amica e affidabile». Per tutti, senza distinzioni politiche.
Fino a ora l’emittente si è finanziata attraverso introiti pubblicitari e donazioni di privati. I giornalisti sono studenti di comunicazione negli atenei della Striscia o giovani appena laureati, pagati circa 200 dollari al mese: «Hanno rischiato la loro vita girando in lungo e in largo, e tre sono stati feriti, per fortuna non gravemente» racconta Bassem Abu Oun.
Ora lentamente si ritorna alla programmazione del tempo di pace, ma con un’attenzione speciale alla ricostruzione, sempre nel segno della solidarietà per le famiglie rimaste senza casa, per i feriti: «Siamo una radio di ispirazione democratica, non religiosa, e per questo ci interessiamo a tutta la comunità in modo continuativo» insiste il direttore, quantificando l’audience della ‘sua’ radio nell’ordine di 100.000 ascoltatori, «circa il 40% dell’audience complessiva fra Striscia di Gaza e Cisgiordania». Ma in tempo di guerra «sono raddoppiati» assicura. E nell’arco di due mesi la qualità delle trasmissioni saranno migliorate, grazie a un investimento in tecnologia di circa 50.000 dollari.
Un investimento per il futuro che stride con il pessimismo esibito da Bassem Abu Oun quando è chiamato a fare previsioni sulla pacificazione nella Striscia: «Quello che hanno fatto gli israeliani è un massacro pianificato, non vedo nessuna luce in fondo al tunnel» afferma, e conclude: «Sei mesi dopo le elezioni, mi aspetto un’altra strage come questa».
Mercoledì 28 gennaio 2009
Rotta la tregua
di Federica Zoja
Attoniti e increduli gli abitanti della Striscia di Gaza accolgono la notizia della rottura della tregua con Israele da parte di guerriglieri armati, nella mattina del 27 gennaio, nei pressi del valico di Kissufim – aggressione rivendicata alcune ore dopo dai Comitati di resistenza popolare – e dell’immediata risposta dell’esercito di Tel Aviv. Negli scontri rimangono uccisi un soldato israeliano, un agricoltore gazawi e un giovane a bordo di una bicicletta, probabilmente membro dei Comitati. Tre soldati israeliani rimangono feriti. Per tutta la giornata ci si chiede se l’episodio darà il via a una nuova escalation di violenza.
Ecco alcuni commenti raccolti nel pomeriggio di martedì.
«Non credo che la guerra riprenderà, non prima delle elezioni israeliane» sostiene Bassam Abu Oun, direttore di Radio Voce del popolo, emittente vicina al Fronte popolare per la liberazione della Palestina. Intorno a lui i giornalisti in redazione si dicono pronti a lavorare 24 ore su 24, come durante i 22 giorni dell’operazione Piombo fuso su Gaza, se fosse di nuovo necessario.
Nei negozi e negli uffici pubblici, riaperti da pochi giorni, le opinioni sono discordanti, ma la tensione rimane alta. «Questa guerra ha sorpreso tutti – commenta un giornalista gazawi, dicendosi pronto per la prima volta in vita sua a lasciare la Striscia insieme ai propri cari – è stata sorprendente e imprevista per intensità, durata, strategie militari».
Ci si sforza di immaginare le prossime mosse di Tel Aviv, per poi decidere se chiudersi in casa o azzardarsi ad andare a trovare gli amici per cena. «Potrebbero colpire Rafah, ma anche altre aree (la Striscia di Gaza ha una superficie di circa 40 km per 8-10, n.d.r.). Tutto può essere – commenta un operatore umanitario di Jabalia, nel Nord, visibilmente in tensione – e la rottura della tregua offre a Israele un’ottima occasione per riaprire il fuoco».
Per questo, il successivo attacco aereo notturno non sorprende nessuno. È appena passata l’una di notte del 28 gennaio quando gli aerei F16 israeliani rompono la barriera del suono e cominciano il loro valzer. Tre raid mirati sulla zona di confine fra la Striscia di Gaza e l’Egitto, a Rafah – là dove numerosi tunnel del contrabbando sono ancora in funzione, nonostante i ripetuti attacchi dell’operazione Piombo fuso – scuotono il sonno degli abitanti, che scappano dalle proprie case, a ridosso della barriera del valico e delle ‘serre’ che nascondono l’ingresso dei tunnel.
Dopo la missione, il cielo di Gaza rimane per ore in balia degli F16 senza requie.
Per ingannare il tempo e non precipitare nella spirale dell’angoscia, c’è chi riaccende la televisione, chi ascolta musica, chi guarda fuori dalla finestra. Ma qualcuno non si accorge di niente e, al risveglio, ammette serenamente: «Ormai mi sono abituato».
Federica Zoja ha lasciato Gaza mercoledì 28 gennaio, sollecitata dall’ambasciata italiana a uscire al più presto dalla Striscia.
Lunedì 26 gennaio 2009
Intervista a Donatella Rovera di Amnesty International
di Federica Zoja
A Gaza, durante i 22 giorni dell’operazione militare israeliana denominata ‘Piombo fuso’, «sono state commesse violazioni massicce del diritto internazionale, incluse violazioni che costituiscono crimini di guerra in tutti i campi, uccisioni illegali, distruzioni gratuite di proprietà e ancora uccisioni illegali come risultato di pratiche diverse, quali l’uso di armi improprie nei quartieri residenziali». Così Donatella Rovera, responsabile ricerca di Amnesty International per Israele e Palestina, riferisce quanto riscontrato a Gaza nella prima settimana di ricerca sul campo della sua équipe, che si avvale della consulenza di un esperto militare.
E precisa: «Siamo arrivati quando abbiamo potuto, abbiamo chiesto fin dal primo giorno di entrare, ma le forze armate e il governo israeliani non ci hanno concesso l’accesso, così come le autorità egiziane non sono state collaborative». Ora l’indagine si focalizza sulle violazioni «che rappresentano uccisioni illegali, distruzione gratuita di proprietà civili, uso improprio di armi». In proposito, Rovera spiega: «Anche se non sono puntate direttamente, ormai si sa da parecchi anni che se si usano un certo tipo di armi e munizioni, per esempio l’artiglieria in quartieri residenziali, le probabilità di colpire l’obbiettivo prefissato sono minime, mentre è alta la probabilità di raggiungere persone e oggetti che non erano previsti».
Al centro delle indagini anche «il fattore accesso ai servizi medici e umanitari, negato non solo in un caso o in alcuni ma in molti casi e in zone diverse della Striscia di Gaza». Ma l’attenzione della comunità internazionale è puntata soprattutto sulla «questione dell’uso del fosforo bianco, che le autorità israeliane hanno rifiutato di confermar per molto tempo; quando però siamo entrati e sono entrati i giornalisti, è risultato evidente».
Rovera non esita a definire quella israeliana una «ammissione tardiva, che ha fatto sì che vittime che avrebbero potuto essere curate in modo più efficace e veloce hanno invece sofferto un deterioramento delle loro condizioni». E cita alcuni «casi orribili in cui le ferite dei pazienti fumavano per un giorno perché erano rimaste particelle di fosforo, che bruciavano ogni volta che erano a contatto con l’ossigeno».
Aggiunge il responsabile Amnesty: «È stato fatto uso di fosforo bianco in modo illegale e incomprensibile, anche dal punto di vista militare. Il fosforo bianco viene utilizzato in due casi: per illuminare oppure per proteggere i movimenti delle truppe sul terreno con una cortina di fumo. Ma a Gaza è stato utilizzato in zone in cui i soldati israeliani non erano presenti: né intorno e dentro il complesso dell’Unrwa a Gaza City, né alla scuola di Beit Lahia, né all’ospedale del Quds né intorno a tutte le case che abbiamo visto a Zeitun e negli altri quartieri». E soprattutto «il fosforo bianco è stato usato in piena giornata, quindi non c’era bisogno d’illuminare».
C’è poi il problema del proiettile di artiglieria che porta il fosforo bianco e che «causa morte, distruzione, ferite con le proprie schegge».
Rovera chiarisce inoltre: «L’interpretazione delle forze israeliane — degli avvocati delle forze armate israeliane — del diritto internazionale, è molto elastica. Noi abbiamo visto un uso del fosforo bianco improprio dal Nord al Sud, quindi non si tratta di un solo battaglione (come invece sostiene l’esercito israeliano, n.d.r.)». Quanto alla decisione di bombardare case abitate, «perché le forze israeliane pensano o sanno che quella è la casa di un militante — che magari può essere un bersaglio legittimo — in realtà le si colpisce quando dentro ci sono anche altri dieci membri della sua famiglia, donne, bambini, civili. Questo è un uso sproporzionato della forza, che non può essere giustificato».
Il volantinaggio sulla Striscia, al fine di avvertire gli abitanti di un imminente attacco, non ha rispettato il diritto internazionale, ricorda Donatella Rovera: «Gli avvertimenti devono essere specifici, mentre qui i volantini lanciati dagli aerei cadevano su aree molto vaste e i messaggi telefonici pre-registrati hanno solo contribuito a creare panico perché effettuati a caso».
«Chiaramente non tutte le azioni delle forze israeliane condotte in queste tre settimane sono illegali, ma le autorità israeliane devono mettere a disposizione le prove, perché quando si colpiscono obbiettivi che sono evidentemente civili l’onere della prova deve essere a carico di chi colpisce». E cita casi come quelli delle famiglie Sammuni, Daia, Abu Aisha o Balusha: «Le loro abitazioni sono state distrutte con le persone ancora all’interno. E poi ci sono molti casi in cui sono state uccise una, due persone, ma il principio è lo stesso: se sono state uccise dieci, venti o due persone, questo dipende dal caso».
Per esempio la casa del medico Auni: «Si può dedurre dal comportamento dei membri della famiglia — spiega Rovera — che non c’era combattimento intorno alla casa: il medico era nel suo studio all’interno, sua moglie era in cucina che preparava il cibo per i bambini, i bambini erano in camera da letto; la casa è stata bombardata e la madre dei bambini è stata tagliata in due da proiettili; anche il bambino più piccolo è stato ucciso».
Rispetto all’uso dell’uranio impoverito, dichiara: «Noi non abbiamo trovato prove, non siamo specialisti su questo quindi non è qualcosa che siamo in grado di individuare. Anche dell’uso di Dime (Dense Inert Metal Explosive) se ne parla ormai da un paio di anni ma è un’arma ancora in stato di sviluppo, molto nuova, c’è ancora poca conoscenza, quindi stiamo cercando di ottenere più informazioni».
In termini di diritto internazionale, la responsabile Amnesty ci tiene a chiarire che «c’è l’obbligo per le forze armate di proteggere i civili, quindi il fatto che forze armate o altri combattenti siano in zone civili non autorizza ad attacchi indiscriminati». E precisa: «Entrambe le parti hanno combattuto in quartieri residenziali, e non erano presenti solo i gruppi armati: anche i soldati hanno occupato case civili per usarle come basi militari, i soldati israeliani sono entrati a Gaza proprio nelle zone residenziali. Non sono i gruppi palestinesi che sono entrati nelle città israeliane, ma il contrario. Quindi entrambe le parti hanno usato case come protezione, per nascondersi dietro a un muro».
Inoltre, «i casi classici di scudi umani sono quelli in cui le forze israeliane entrano in una casa, imprigionano la famiglia in una stanza, al piano terra generalmente, impediscono loro di andare via e poi usano la casa come base militare, mettendo quindi a rischio la popolazione civile. La popolazione civile viene messa a rischio da ambedue le parti con il loro modo di combattere in zone civili».
Amnesty International rimarrà a Gaza per completare la raccolta di informazioni e dati per altri dieci giorni. Poi «porteremo le nostre conclusioni alle autorità israeliane e infine pubblicheremo un rapporto». Qualsiasi azione legale è ancora prematura, «anche se noi vorremmo un meccanismo di indagine internazionale» conclude Rovera.
Domenica 25 gennaio 2009
Intervista a Almajdalawi del Fplp
di Federica Zoja
«Il vero cambiamento eravamo noi, non Hamas. Credo che adesso molta gente, più a Gaza che in Cisgiordania, se ne sia accorta». A parlare così è Jamil Almajdalawi, leader del Fronte popolare per la liberazione della Palestina e membro del comitato politico del partito, il terzo movimento politico palestinese. Alle elezioni del gennaio 2006, il Fplp ha ottenuto il 5% dei voti, un risultato amaramente digerito: «Secondo me non corrisponde al reale bacino dei nostri sostenitori, che dovrebbe aggirarsi intorno all’8-10%» commenta Almajdalawi. Ma allora il desiderio della maggioranza dei palestinesi, urlato al mondo in modo inequivocabile, era voltare pagina, dimenticare la corruzione e l’inettitudine di Fatah.
Ora più che mai il Fplp svolge un ruolo di sentinella, denunciando pericoli e anomalie sia del governo di Salam Fayyad, in Cisgiordania, sia di quello di Ismail Haniyeh, a Gaza. E rischia ripercussioni da un momento all’altro: «Se non ci sarà riconciliazione fra le fazioni politiche — spiega Almajdalawi — penso che prima o poi si esaurirà anche la tolleranza nei nostri confronti». Almajdalawi è in partenza per il Cairo, dove domani (oggi, n.d.r.) si apriranno due tavoli paralleli di discussione: uno che vede protagonisti Israele e Hamas, l’altro le diverse fazioni politiche palestinesi. «Crediamo che questi primi negoziati rappresentino una preparazione a quelli palestinesi globali. E per noi del Fronte popolare per la liberazione della Palestina è importante».
Una premessa: «Quello attuale è un modo sbagliato di intendere il cessate il fuoco perché quando una nazione è in una situazione di occupazione ha diritto di resistere». Da parte di Tel Aviv, Almajdalawi riscontra il tentativo di «dimostrare al mondo che la sua è ‘guerra contro guerra’, non guerra contro gente che sta resistendo all’occupazione. E il conflitto interno fra Hamas e Fatah non fa che aiutare e promuovere l’azione di Israele». Il Fplp teme il protrarsi della «pressione sulla popolazione palestinese» e considera «uno scherzo la tregua su queste basi: insomma, la loro occupazione senza la nostra resistenza diventa occupazione a cinque stelle».
Quanto alla seconda questione, quella della riconciliazione nazionale, il Fplp si attiene al Documento di riconciliazione nazionale, «che stabilisce di riunire i principi fondamentali della nazione, un governo nazionale unico, elezioni nuove per il Parlamento e la presidenza per ricostruire l’Olp». Schiacciato fra Fatah e Hamas, il terzo incomodo cercherà di facilitare la riconciliazione, quella di cui si parla sui manifesti voluti da un comitato civico nelle strade di Gaza. “Fratelli nonostante le differenze”, recitano. «Le condizioni imposte da Hamas puntano a ritardare la riconciliazione fra i movimenti e lo stesso vale per Abu Mazen, il quale imponendo condizioni dure ad Hamas tenta di far passare le proprie linee politiche. Sarà difficile, ma non impossibile».
Ecco i punti condivisi con Hamas: «L’interruzione dei sotto-negoziati fra Abu Mazen e Israele; la lotta alla corruzione dell’Autorità nazionale palestinese; la sospensione della collaborazione in fatto di sicurezza. Ma non pensiamo che uno stato retto da Hamas sia migliore. Hanno una gestione della società sbagliata. Sono una forza non democratica, che fa regredire la società, non accettano critiche». E conferma: «Tutto quello che si dice sulle gambizzazioni da parte di Hamas (nei confronti dei nemici politici, all’interno della Striscia negli ultimi giorni, n.d.r.) è vero: la violenza qui, rispetto alla Cisgiordania, è più forte».
Rimane il nodo cruciale del valico di Rafah, con doppia gestione: «Otto mesi fa abbiamo proposto un piano che preveda per Abu Mazen il ruolo di presidente ufficiale, mentre per Hamas quello de facto sul campo. E di utilizzare le risorse derivanti dalla frontiera di Rafah per servizi sanitari e sociali per i cittadini, non per Abu Mazen né per Haniyeh. Al di là delle differenze politiche con Abu Mazen, il nostro obbiettivo è mantenere l’unità nazionale. Fino alle prossime elezioni, per noi Abu Mazen è ancora presidente, più politicamente che legalmente». Altrettanto fondamentale la ricostruzione di Gaza, «possibile con la creazione di un comitato nazionale che gestisca i fondi e li convogli alle persone colpite».
Almajdalawi sa che la liberazione del soldato Gilad Shalit sarà oggetto di contrattazione al Cairo e commenta: «Gli israeliani dicono che la liberazione è vicina, ma non è un paradosso che tutto il mondo si preoccupi di Gilad mentre ci sono 11.500 nostri prigionieri in Israele? Come essere umano, non come palestinese, questo mi offende».
Sabato 24 gennaio 2009
Terzo giorno a Gaza
di Federica Zoja
Hanno perso tutto, abitazioni (35), animali, terre coltivate e soprattutto 29 membri della loro famiglia (di cui 16 bambini – due piccolissimi, uno di cinque mesi e l’altro di un mese – e 13 adulti). Il clan dei Sammuni, da cui prende il nome l’omonimo villaggio nell’area di Zeitun, sobborgo a Nord della Striscia di Gaza, sul confine con Israele, riceve le condoglianze di amici e vicini, e bivacca nelle tende piantate di lato alle macerie. I bambini giocano in mezzo ai calcinacci di quelle che fino al 16 gennaio scorso erano le loro case e da cui spuntano materassi, vestiti, mobili e stracci, alcuni macchiati visibilmente di sangue.
A raccontare la storia del massacro di Sammuni è Yousra Sammuni, 55 anni, mentre intorno a lei, figlie e nipoti femmine tacciono sedute per terra. Gli uomini, più lontani, raccolgono le cifre esatte dei danni subiti nella speranza di ricevere le compensazioni promesse dal governo di Hamas. Il 15 gennaio, l’esercito israeliano – entrato nel territorio di Zeitun poco più in là, spianando con le ruspe uliveti e aranceti – ha intimato agli abitanti del villaggio di abbandonare le proprie case e li ha raccolti in un’unica abitazione. Lo stesso è stato fatto in tutta Zeitun, dove i soldati di Tsahal hanno lasciato sui muri delle case occupate eloquenti scritte intimidatorie e di spregio. Ma le 70 persone raccolte a forza in una sola casa a Sammuni sono state inspiegabilmente oggetto di bombardamento il giorno seguente, il 16 gennaio. E ai soccorsi è stato impedito di giungere in loco per ore, fino alla mattina seguente. In tutta Zeitun le famiglie colpite dall’offensiva israeliana negli ultimi giorni della guerra sono undici e le vittime 50, di cui 47 abitanti del posto e 3 di fuori. «In questa zona non c’è mai stata nessuna resistenza – grida Yousra – siamo agricoltori, vendiamo frutta e verdura». Amnesty International e le principali organizzazioni per la difesa dei diritti umani indagano sull’episodio.
Anche la famiglia di Subh Arafat, 25 anni, è stata assediata dai soldati israeliani: «Dalla sera di venerdì 16 gennaio alla mattina di domenica siamo rimasti chiusi in casa, una settantina di persone, gli uomini al piano superiore, le donne sotto. Non potevamo bere, mangiare, usare i servizi». Solo il terzo giorno è stato loro permesso di uscire di casa, per riunirsi ad altre centinaia di persone che scappavano dalle loro case. «Per fortuna mio padre sa un po’ di ebraico ed è riuscito a parlare con un soldato più disponibile degli altri – spiega Subh – si è informato al telefono e dopo qualche ora ci ha detto come tornare a casa senza correre pericoli». Ma i danni all’impresa agricola di famiglia sono pesanti, oltre i 40.000 dollari.
La strage di Sammuni e l’accanimento contro Zeitun forse dovevano essere un monito per tutti i gazawi, prima del cessate il fuoco.
Venerdì 23 gennaio 2009
Secondo giorno a Gaza
di Federica Zoja
S. ha 24 anni e la consapevolezza che la sua vita, vista da un aereo da guerra, «è una macchia di colore rosso caldo» e da un momento all’altro, nel rientrare a casa dopo una serata con gli amici, può essere scambiato per un miliziano. «Mi dico che magari lassù ci può essere una giovane ragazza israeliana, chissà, forse se sono fotogenico mi salvo», e ride amaramente per stemperare la tensione di tre settimane in bilico fra vita e morte e di alcuni giorni di incredula tregua. «Questa volta è stata durissima, mai prima d’ora è stato paragonabile. Abbiamo davvero avuto paura di non farcela.»
Ma, allo stesso modo, S. non esita a mettere sullo stesso piano israeliani e miliziani di Hamas: «Immagina che cosa vuol dire sentire le loro voci, fuori al di là del muro di casa tua, mentre bisbigliano nella notte. E pensare che se dall’alto li vedono sei fottuto». E bisbigliare con i famigliari, magari spostarsi in fondo a una stanza, nell’angolo più interno della casa, perché non si accorgano che ci sei e hai paura: «Tanto, per loro ammazzarti che cosa vuoi che cambi? Ti mandano in paradiso…»
Gaza del dopo guerra ha il volto di S. e di tutti coloro che vogliono solo vivere e fare progetti, riaprire negozi, scuole e uffici. Andare a fare la spesa senza perdere le gambe, di questi tempi così a rischio. Nel mirino delle rappresaglie di Hamas – si segnalano negli ospedali di Gaza i primi casi di pazienti gambizzati – e degli attacchi aerei israeliani. All’ospedale pubblico di Shifa, non si contano i casi di amputazione di uno o più arti, i letti delle unità di ortopedia e chirurgia sono ancora pieni. Accedervi e parlare con i pazienti, ma ancor di più con i parenti ammassati nei corridoi e nelle stanze, storditi dall’incertezza per il futuro, è semplice e rapido, superata la diffidenza del primo istante con gli amministratori – si dice che Shifa sia saldamente in mano ad Hamas e forse è vero, ma nessuno ostacola il colloquio con medici e pazienti. Per alcuni malati, si tratta di un soggiorno temporaneo perché destinati a strutture estere, dove i loro casi saranno trattati con maggiori risorse tecniche.
Gaza stritolata fra due nemici, uno interno e uno esterno, è anche 200.000 studenti che domani, sabato 24, torneranno a scuola. È il ristorante di pesce che riapre le sue cucine. Il valico di Erez che sforna cooperanti internazionali. È il sorriso di S. che lascia la comitiva di amici stranieri e se ne va a casa, nella notte, senza chiedersi chi lo stia osservando dal cielo.
Giovedì 22 gennaio 2009
Primo giorno a Gaza
di Federica Zoja
Non bastava la sveglia del mattino, al ritmo delle esplosioni di gioia della marina israeliana al sorgere del sole. Adesso i gentili saluti si ripetono, con i migliori auguri di buona notte. Vorrà dire che è il tempo della riflessione, più che del sonno ristoratore…
Prime immagini di Gaza nel dopo-guerra e brandelli di conversazioni da giornalai.
Precisione chirurgica a Gaza Città e violenza debordante nei centri più piccoli, specialmente nel Nord della Striscia. Non si può non accorgersene: l’aviazione ha ritagliato obbiettivi strategici con precisione inquietante, sgretolando commissariati di polizia, ministeri, caserme e qualsiasi centro strategico legato al movimento di resistenza. Ed ecco palazzine sbriciolate come crackers affiancare moschee e scuole intatte.
La fase terrestre di ‘Piombo fuso’ non è andata molto per il sottile, invece. All’insegna del “prendi tutto e scappa, che faccio saltare in aria il tuo mondo”, l’avanzata ha spianato la vita di migliaia di persone. E pure la morte: il cimitero all’ingresso di Jabalya è scomparso. Quello che un tempo doveva essere il suo custode scava da giorni per riportare alla luce le bare e poi riscava per seppellirle in modo decoroso.
Piccoli flash senza senso:
1. Un’ambulanza stritolata fra le macerie di una palazzina. Come ci è finita? È stata fatta parcheggiare dagli israeliani prima che la casa fosse rasa al suolo. Ovviamente.
2. Bambini ai bordi della strada che brucano l’erba per colazione.
3. La stazione dei vigili sventrata di fronte ai palazzi Abu Ghalion (in cui vivo), intatti.
4. La scuola Unrwa di Jabalya, trasformata in centro di evacuazione. Poveri stracci appesi alle finestre, bambini in cortile, genitori accasciati per terra, sopraffatti dai pensieri….
Silenzio, i fuochi artificiali sono finiti. Si dorme, a Gaza.
Federica Zoja è una giornalista professionista freelance. Al Cairo dal 2005, ha scelto l’Egitto come base da cui seguire l’attualità araba e mediorientale con trasferte in Libia, Tunisia, Israele, Territori palestinesi, Giordania, Libano, Siria, Cipro, Turchia.