intervista di Giuseppe Ciarallo |
Giangilberto Monti è una delle figure più eclettiche del panorama artistico milanese degli ultimi sette lustri: dalla metà degli anni Settanta a oggi, infatti, ha composto canzoni per sé e per altri cantanti, pubblicato dischi (L’ordine è pubblico?, 1978; Il giro del giorno, 1979; E domani?, 1981; Maledette canzoni, 2006; Ce n’est qu’un début, 2008; Comicanti, 2009), ha scritto e recitato opere teatrali (tra gli altri con Dario Fo e Franca Rame), è stato coautore con Flavio Premoli, tastierista della PFM, della rock-opera Guardie e Ladri (1982), ha collaborato con artisti del cabaret, ha curato il volume di Boris Vian Le canzoni e ha pubblicato tre libri, un Dizionario dei Cantautori, un Dizionario dei Comici e del Cabaret e, nel 2010, Maledetti francesi, una sorta di biografia collettiva degli chansonnier d’oltralpe.
Risale agli inizi degli anni Novanta quella vera e propria ‘folgorazione’ che gli fa scoprire la musica francese e cominciare così uno studio appassionato che lo porterà ad approfondire l’opera di Boris Vian, a innamorarsi delle atmosfere anarcoidi della Belle Epoque, ad apprezzare e proporre i brani di quei veri e propri colossi (Piaf, Greco, Montand, Ferré, Brel, Brassens) che a partire dagli anni Cinquanta tracciano la strada della canzone d’autore, sulla quale si incammineranno poi artisti di ogni continente, non ultimi quelli del Belpaese.
Dunque Giangilberto, questo tuo ultimo spettacolo, La Belle Équipe, che già dal titolo gioca sul calembour Époque/Équipe e che richiama un film del 1936 con Jean Gabin, non è per così dire ‘un fulmine a ciel sereno’, bensì un lavoro che viene da lontano ed è il naturale approdo di altre tue opere precedenti, penso allo spettacolo teatrale La Banda Bonnot su testi di Vian, o al disco delle tue traduzioni di brani di Vian e di Gainsbourg, nonché del Ferré tradotto da Medail…
Per me è un passo in avanti. Volevo uscire da un circuito troppo per addetti ai lavori e avvicinarmi a nomi più popolari come Édith Piaf, Charles Trénet e Gilbert Bécaud, ma anche raccontare più semplicemente quell’ambiente, per dar modo poi a chi fosse veramente interessato di curiosare tra musica, poesia e letteratura di quel periodo.
Tieni presente che molto di questo materiale è difficilmente reperibile e il solo parlarne, secondo me, aiuta. Mi ha poi stupito che mentre importanti quotidiani o radio di tendenza si siano interessati a questo spettacolo – come pure al mio libro Maledetti Francesi – alcune figure di settore, come il sito cantautorale delle Brigate Lolli o l’entourage del Club Tenco, lo abbiano snobbato. E questo è ancor più strano se si pensa che sono proprio questi cantanti-autori-compositori che hanno permesso la nascita del nostro cantautorato. Forse dovrei frequentare salotti migliori…
Ma tornando a La Belle Équipe, in che modo si è formata la squadra che interpreta il recital e qual è il fattore che ti accomuna ai tuoi compagni di viaggio (ricordiamo Alberto Patrucco, Andrea Mirò, senza dimenticare l’apporto dell’ottimo Daniele Caldarini), anime artistiche di solito impegnate in ambiti diversi del mondo dello spettacolo?
Ho scelto questi compagni di viaggio proprio perché nella mia carriera ho sempre giocato a contaminare stili musicali e artistici, sperimentandone i contrasti. Patrucco è un comicante che adora e traduce da tempo Brassens, Mirò una cantautrice polistrumentista che da sempre ama le canzoni di Gainsbourg e le invenzioni della coppia Édith Piaf (testi) – Marguerite Monnot (musiche), Daniele Caldarini un pianista accompagnato-re che segue le azioni sceniche e ne sottolinea le sfumature.
Nella mia visione, queste sono le radici non solo della canzone d’autore ma anche del vero cabaret, che non è lo stupidario monologante di oggi ma trasgressione nei testi, abilità scenica e creazione musicale. Quello che io chiamo chansonnier è una figura artistica completa – nella forza poetica e nella veste musicale – che può essere poi supportato da una band o da musicisti all’altezza, come è il caso della Belle Équipe.
Andrea Mirò e Alberto Patrucco sono anche artisti curiosi e generosi. E sul palco trovo che si sia trovato un equilibrio ideale. Ognuno di noi rinuncia a un pezzetto della propria visibilità, mette la
propria arte al servizio dell’idea di fondo e alla fine è lo spettacolo che ne guadagna. Senza dimenticare l’abilità registica di Vito Molinari, che ha fatto il resto.
Nel 2010 viene dato alle stampe, per i tipi della casa editrice NdA, Maledetti Francesi, un libro nel quale racconti le vite degli chansonnier, ma soprattutto l’ambiente, l’humus culturale dal quale sono germogliate le loro canzoni, alcune di esse venate di una lucida disperazione (Ferré, Brel, Gainsbourg), altre improntate all’ironico sberleffo (Vian, Brassens), comunque influenzate da una cultura letteraria specificamente francese, che va da Villon agli esistenzialisti…
Non si scrivono certe canzoni se non si sono passati tutti gli stadi di una vita, che per molti di loro fu difficile e spesso tragica. Quello che poi i critici definiscono cultura letteraria non è solo curiosità o ricerca testuale, ma serate di incontri, nottate di locali e infiniti incroci di lune, a volte storte, a volte piene. E se la musica rimane un modo per scacciare fantasmi e solitudini, nelle loro composizioni ironia e poesia si mescolano quasi naturalmente, perché questa è la commedia della vita. Sottotraccia appare poi l’esempio del maledettismo di François Villon, poco studiato e forse troppo mitizzato, ma punto di partenza per molti di questi artisti, da Aristide Bruant in poi. Ed è proprio Bruant – oggi ritratto da Toulouse- Lautrec in mille cartoline sparse per Parigi – che a cavallo tra Ottocento e Novecento pensò di mescolare musica e parole, inventando modalità e stili del cabaret, ispirandosi a Villon e alla triade dei poeti maudits (Baudelaire, Rimbaud, Verlaine).
Fu lui a tracciare il confine di un’arte che rimane da sempre contaminazione ribelle.
Nel libro fai un’ampia panoramica della canzone d’autore sulla scena parigina dal dopoguerra (anche se il tuo racconto comincia molto molto prima). Ho scoperto, leggendo, personaggi all’apparenza davvero interessanti, ma che da noi non hanno avuto la benché minima notorietà, limitata agli arcinoti e già citati Piaf e Greco, Montand, Becaud, Aznavour, Ferré, Brel e Brassens. Sono incappato, per esempio, in un tale Boby Lapointe che, mi è sembrato di capire fosse una specie di Enzo Jannacci transalpino, surreale e ironico.
Come in tutte le arti, gli outsider si riscoprono nel tempo e da questo la chanson française non è immune. Oltre al citato Lapointe, ricordo anche l’anarchico di umili origini Gaston Couté (1880- 1911), di fede antimilitarista e amante della poesia di Rimbaud, che si fa strada nel cabaret chantant vestito da contadino, morendo di tisi poco prima che la polizia si decida ad arrestarlo. Oppure Pierre Perret, nato nel 1934 e detto ‘Pierrot la tenerezza’, raffinato artista engagé contro ogni forma d’intolleranza, che alla fine della guerra studia musica al Conservatorio di Toulouse e incoraggiato da Boris Vian e Jacques Canetti, inanella canzoncine ironiche e irriverenti studiando l’argot e la lingua delle origini fino a venir preso a esempio per riformare l’ortografia francese. Ma anche la triste istoria del bel genovese Agostino Ferrari, detto Nino Ferrer (1934-1988), idolo pop italo-francese e appassionato di pittura, jazz, etnologia e archeologia, che nella seconda parte di carriera infila geniali album di rock e brani da milioni di copie, incidendo poi misconosciuti dischi autoprodotti e ribelli, fino a spararsi per disperazione e solitudine nel suo rifugio di campagna.
L’ultima citazione va però ad Allain Leprest, che meriterebbe ben più di queste poche righe. Leprest, nato in Normandia nel ’54, legato alla tradizione rive gauche e di incrollabile fede comunista, rivendica il suo status di ‘artigiano della canzone’ ma fa molto poco per promozionare i suoi lavori. I critici lo accostano a Brel, per la sua vocalità e i testi tranchant, che rimandano alla bruschezza del mondo operaio del freddo nord francese, accompagnati in concerto dalla chitarra o da una fisarmonica, ma senza l’ironia o il sarcasmo leggero dei suoi colleghi più fortunati. Nella più totale indifferenza della stampa italiana, Leprest, già malato, muore suicida a 57 anni nel 2011. E dunque non resta che dedicarci un pensiero felice, come questa bella frase di Georges Moustaki: “La canzone? È teatro, un film, un romanzo, un’idea, uno slogan, un atto di fede, una danza, una festa, un canto d’amore, un’arma da combattimento, una derrata deperibile, una compagnia, un momento della vita. La Vita”. E proprio perché viene da un signore che ha girato il mondo e rifiutato gran parte dei suoi passaporti, vale per tutti noi.
È del 2004 il tuo bel disco La Belle Epoque della Banda Bonnot (e la messa in scena dell’omonimo spettacolo teatrale) su testi di Boris Vian ispirati alle gesta del bandito anarchico Jules Bonnot e della sua gang di rapinatori, in un’epoca che, come oggi, ha ben poco di ‘Belle’ se non per una ristretta cerchia di agiati benestanti. Credi che il divario attuale tra i pochi ricchi e la stragrande maggioranza della popolazione che vive in condizioni di precarietà quando non addirittura di povertà, possa far rinascere fenomeni come quello di Bonnot, o meglio ancora come quello di Alexandre Marius Jacob (il mitico scassinatore che ispirò la figura letteraria dell’Arsenio Lupin di Maurice Leblanc) il quale con i suoi ‘travailleurs de la nuit’ intendeva riprendere di notte “ogni singolo spillo che la borghesia, con il suo sistema di sfruttamento, di giorno ruba al popolo”?
È quello che ciclicamente accade nelle società più o meno avanzate, fino a quando il flagello della guerra costringe guardie e ladri a riflettere, salvo poi ricominciare subito dopo. Ma questo lo dicono i libri di storia, non certo io.
Nel 2008 viene pubblicato il tuo disco Ce n’est qu’un debut, interamente da te composto e, a mio avviso, un’opera densa di spunti di riflessione. L’ho ascoltato davvero tante volte e mi è sempre sembrato di cogliere una sorta di piccola contraddizione tra il titolo che richiama lo slogan del combattivo maggio francese (con i sogni e la promessa di continuità contenuta nella seconda parte della frase) e i tuoi testi, pervasi di una dolorosa malinconia per quel qualcosa di nuovo e di bello che sarebbe potuto essere e non è mai stato, sconfitta che necessariamente ha portato tutti gli attori di quel dramma collettivo a dover riconsiderare, in modo diverso, la propria vita. Alla luce dei tempi che sono susseguiti all’impeto di quella lucida utopia che furono gli anni Sessanta e Settanta, nel senso di disfatta sociale e culturale dell’oggi, non vedi una fine più che un ‘debut’?
No, mai. Finché ci sono vite, la speranza rimane, soprattutto per le generazioni che verranno. A chi sostiene che la mia, comunque, ha perso, rispondo con una metafora da teatranti: il biglietto
non è ancora scaduto…
Ad affermare che la tua, anzi la nostra generazione ha perso, ci ha pensato un nome importante del nostro teatro canzone, un intellettuale di tutto rispetto come Giorgio Gaber. Immagino che negli anni ’70 tu seguissi i suoi spettacoli. Come vivesti la svolta di Polli d’allevamento, i cui testi, riascoltati oggi danno sì la dimensione di quanto Gaber vedesse lontano e con trent’anni d’anticipo (il brano Salviamo ‘sto paese sembra scritto oggi, appositamente per il governo tecnico del tuo omonimo Monti) ma anche la ferocia di parole, dirette ai suoi compagni d’un tempo, da molti percepite come un vero e proprio tradimento.
Alla fine degli anni Settanta ci fu un periodo nel quale andavo a casa di Gaber, nella sua abitazione di Città Studi, a Milano, portandogli i miei primi dischi e chiedendogli pareri che lui puntualmente evadeva, preferendo farmi ascoltare a sua volta dei brani di sua creazione. È in una di quelle occasioni che ho potuto sentire il provino di Io se fossi Dio. In quegli anni non ci poteva essere nulla di più lontano dal conformismo del periodo, destra o sinistra che fosse. Quello che invece mi dà veramente fastidio, al di là dell’uso spesso improprio del repertorio di Giorgio Gaber, è l’opportunismo di chi oggi lo glorifica, quando all’epoca lo sopportava appena…
Sempre nel tuo disco Ce n’est qu’un debut c’è un brano dal titolo Cattivi maestri, epiteto utilizzato da media e magistratura alla fine degli anni Settanta per definire quegli intellettuali politicamente schierati a sinistra, all’estrema sinistra, accusati di essere la matrice ideologica di parte del terrorismo o comunque della violenza di quel difficile periodo. I cattivi maestri di cui parli tu, invece, sono stati in questi ultimi anni, e continuano a essere ben altri…
È una delle mie canzoni alle quali tengo di più, perché ogni generazione ha i suoi – di cattivi maestri – ma chi ne decide il ruolo spesso ne parla da un solo punto di vista. Cosa dovremmo allora dire dei radicali alla Pannella? Che da anni sfruttano le fragilità o le disgrazie altrui (come fu nel caso del presentatore Enzo Tortora o del malato terminale Piergiorgio Welby) per guadagnare un secondo di visibilità in più al loro partitello, salvo poi affiaancare i peggiori uomini politici di questo Paese. Spero che la storia li giudichi allo stesso modo con il quale altri hanno bollato con l’epiteto di cattivi maestri molti dei miei compagni di strada, in quegli ‘anni affollati’.
In chiusura, due parole riguardo alla tua città, nella quale vivi e lavori da sempre. Ho trovato molto bello e originale il modo in cui la racconti nel brano Cara mamma, Milano, nel quale il personaggio della canzone, un personaggio femminile, scrive una lettera alla propria madre, rivelandole la difficoltà di vivere in un luogo tanto complesso, ricco di opportunità e al contempo isolante. Com’era, com’è e come immagini che possa essere, o tornare a essere, in futuro, Milano?
Quel brano è ispirato a una lettera che Mara Cagol, moglie di Renato Curcio, scrisse alla propria
madre nel periodo in cui decideva di passare alla clandestinità, nei primi anni Settanta. Una scelta che visse con grandi contraddizioni, essendo lei stessa – come tutta la sua famiglia – cattolica osservante.
Detto questo, Milano è sempre stata un incrocio di genti e culture. Questa è la sua originalità e anche la sua forza. Se saprà farsi nuovamente luogo di accoglienza, Milano rifiorirà, ma questo non dipende solo dai suoi governanti – illuminati o accecati che siano – ma dall’etica delle nuove generazioni di questo Paese.