Insomma, bisogna essere onesti. Parto da me. Da quando sono adolescente a oggi – meglio: da quando ho cominciato ad ascoltare musica a oggi – la mia comprensione delle parole delle canzoni in lingua inglese è migliorata decisamente nel tempo. Ma non più di tanto. Per cui se in un videoclip ci sono i sottotitoli o se mi sono procurato il libro delle canzoni della cantante che mi piace sono, come si dice, a metà dell’opera. Nel senso che finalmente la canzone riesco a cantarla tutta senza storpiare le parole. Ma poi le parole bisogna capirle. E qui la distanza tra le generazioni non conta più. Perché – lasciando stare il mondo musicale francofono o germanofono o ispanico che sul mercato è ancora un pigmeo rispetto a quello anglofono – gli autori non si preoccupano più di tanto della comprensibilità del testo quando lo tirano giù.
Oggi abbiamo i traduttori online e sono un bel passo avanti. Ma la lingua inglese, oltre ad avere un numero di vocaboli notevolmente più ampio rispetto alla lingua italiana (l’Oxford dictionary 20th ed. ne stima 615.000 per l’inglese, il Lorenzetti tra 215/270.000 per l’italiano) ha anche un catafascio di espressioni colloquiali e di modi di dire, ed è in continua evoluzione soprattutto sul versante dei termini tecnici, da quelli dell’economia a quelli delle scienze. Sempre l’Oxford Dictionary afferma che ci sono circa 171.476 parole attualmente in uso nell’inglese moderno e che in età adulta, i madrelingua conoscono circa 15.000 parole e, i più istruiti, tra 25.000 e 35.000 parole. Buonagrazia, nelle scuole di lingua si afferma oramai che è sufficiente conoscere 5.000 parole di base per non avere più bisogno di un dizionario bilingue e per riuscire a coprire il 98% di una conversazione con un madrelingua. Per quanto riguarda l’italiano il grande De Mauro affermava che individui con un’istruzione medio-alta utilizzano fino a 47 mila vocaboli, mentre il vocabolario di base della nostra lingua si attesta su 6.500 parole con le quali copriamo il 98% dei nostri discorsi.
Questo nucleo, secondo il sito Treccani, si può dividere in tre sottoinsiemi: 1) Lessico fondamentale: 2.000 parole di uso frequentissimo, di cui abbiamo padronanza sin dall’infanzia e che vengono utilizzate nel 90% dei nostri discorsi; 2) Lessico di alto uso: più di 2.500 parole meno frequenti, di apprendimento scolastico e presenti nel 6% dei nostri discorsi; 3) Lessico di alta disponibilità: circa 1.900 vocaboli utilizzati nell’1-2% dei nostri discorsi e comprensibili da tutti.
Ahimè il numero delle parole utilizzate si sta rapidamente riducendo in tutti gli strati sociali, non solo per l’analfabetismo di ritorno che colpisce giornalisti della generazione 2.0, politici e sotto-politici, utenti televisivi assidui e utenti social media assidui, non solo per la falcidia costante del congiuntivo, ma anche e soprattutto per la pigrizia mentale di chi deve veicolare ed elaborare concetti. La lingua parlata, l’italiana come l’inglese, schizza via come una biscia quando si tenta di darne una definizione standard.
In inglese, in particolare, le parole hanno più di un senso e di una sfumatura quando le si colloca in un determinato contesto. Esiste inoltre, come si sarà capito, un numero molto alto di termini che girano tutti attorno a una stessa azione di base, ognuno esprimente una sfumatura diversa senza bisogno di parole costruite. Fate un esperimento con un sito di traduzioni online come Wordreference.com: mettete nella maschera di traduzione da italiano a inglese il verbo ‘guardare’ e scorrete la serie dei risultati; vi sorprenderanno.
E fin qui siamo ancora in un contesto comunicativo abbastanza normale. La cosa come detto cambia radicalmente coi testi delle canzoni. Non solo non capite le parole che si cantano, ma vi trovate davanti anche una marea di modi di dire, spesso appartenenti a sub-culture urbane e meno urbane. I testi del rap, per esempio, chi li capisce per intero? Bisogna che il vostro autore scandisca bene le parole e che non si perda dietro a un gergo. Da ragazzino faceva molto figo dire che si erano capite le parole di certe canzoni di Bob Dylan, tipo Subterranean Homesick Blues, già da mal di testa per uno statunitense (a pensarci bene è un proto-rap) e assolutamente non facile da tradurre per tirarne fuori qualcosa di sensato, del tipo:
Johnny è giù in cantina / mischia la medicina / io sono a terra / pensando a chi governa / l’uomo col cappotto / distintivo in vista, licenziato / dice di avere una brutta tosse /vuole essere rimborsato. / Attento ragazzo / è qualcosa che hai fatto / Dio sa quando / e lo stai facendo di nuovo / nasconditi mentre attraversi la strada / cerca un nuovo amico / quel tale col berretto di pelle / nel recinto grande / vuole undici dollari in contanti / e tu ne hai solo dieci... Attento ragazzo / non importa cos’hai fatto / cammina in punta di piedi /non sballarti / stai alla larga da chi / porta con sé la canna di un idrante / assicurati che il tuo naso sia libero / occhio agli agenti in borghese / non ti servono le previsioni del tempo / per capire da che parte tira il vento... Sta attento ragazzo / fanno tutto di nascosto / meglio saltare in un tombino / accenditi una candela / non metterti i sandali / evita gli scandali / non vuoi mica fare lo scroccone / mastica la gomma / la pompa non funziona / perché la manichetta l’hanno presa i vandali.
Ovviamente se riuscite a fare la traduzione dovete poi tenere presente il contesto culturale che non è il vostro e qui – altrettanto ovviamente – dovreste avere letto il Kerouac de I sotterranei e anche aver ascoltato Chuck Berry in Too Much Monkey Business per godervi le citazioni. Dopodiché a bocce ferme arriva bello bello De Gregori nel 2015 con Amore e furto (De Gregori canta Dylan) e in Acido Sotterraneo si fa la sua traduzioncina cinquant’anni dopo – tradurre è sempre un po’ tradire, lo so, ma basta farlo a carte scoperte e con gusto, cosa non facile né comune, così come ricalcare spudoratamente Dylan in musica, mettendoci sopra testi ermetici che però fanno tanto figo, è un’operazione che andava bene giusto a inizio anni ‘70 quando per l’appunto ero sbarbo e l’inglese lo sapevo proprio pochino.
Va in modo completamente diverso quando De Andrè traduce – da poeta – Antologia di Spoon River di E.L. Master (1915) per il suo storico album Non al denaro né all’amore né al cielo (1971) e non solo perché qui la traduzione è già bella e pronta ma anche perché qualcuno dopo aver ascoltato l’album si è andato anche a studiare l’originale. Ma qui siamo già nel campo dello studio lasciato alla buona volontà del singolo – voglio sperare che qualche insegnante d’inglese si sia messo d’accordo con quello d’italiano per una lezione o una serie di lezioni congiunte, scavalcando il pregiudizio che relegava i cantautori italiani al ghetto delle canzonette senza dignità letteraria.
Se debbo andar fiero di qualcosa, debbo dire che la mia insegnante d’inglese delle medie mi dette una mano a tradurre Aqualung dei Jethro Tull che risultava ostico non tanto per il testo in sé quanto per il significato. Botta di fortuna, l’insegnante di religione che a modo suo era una sorta di mistico letterato, appena udì le parole iniziali di My God: “People what have you done / locked Him in His golden cage. Made Him bend to your religion / Him resurrected from the grave. / He is the god of nothing / if that’s all that you can see”…
Gente cosa avete fatto / L’avete chiuso nella Sua gabbia dorata / L’avete piegato alla vostra religione / Lui che è risorto dalla tomba / Lui è il dio del nulla / Se questo è tutto quello che puoi vedere / Tu sei il Dio del tutto / tu sei dentro di me e di te. / Quindi appoggiatevi a lui gentilmente / E non invocatelo per farvi salvare / dalle vostre buone maniere / e dai peccati ai quali siete soliti rinunciare. / La sanguinosa Chiesa d’Inghilterra / Incatenata dalla storia / Richiede la tua presenza terrena / Al vicariato per il tè / E la figura intagliata di tu-sai-chi / Con il suo crocifisso di plastica / L’ha messo a posto / e mi confonde su chi, il dove e il perché / e il come prende i suoi calci / Confessando al peccato infinito / l’infinito lamento / pregherai fino a Giovedì prossimo / tutti gli dei che riesci a contare.
Ebbene costui, l’insegnante di religione, colse l’occasione per imbastire una lezione (una volta tanto degna d’attenzione) sul concetto di “Morte di Dio” come espresso dal contestatissimo teologo svizzero Hans Küng, subito simpatico perché rifiutava il dogma dell’infallibilità papale.
Per il resto, l’ho detto e continuo a ripeterlo, la stragrande maggioranza degli italiani non capiva e continua a non capire una cippa di niente dei testi delle canzoni in lingua inglese. Forse va un pochino meglio con lo spagnolo, più affine all’italiano, in epoca di invasione dell’odioso reggaeton, ma non più di tanto. Dice mia moglie che noi italiani siamo stati viziati dal non essere stati esposti alla lingua inglese già dal mondo del cinema, visto che loro, in Olanda, sono invece da sempre abituati ai sottotitoli. Calma un momento. Faccio una breve ricerca e scopro che in Germania, Austria, Svizzera, Francia, Spagna e Lettonia il doppiaggio è la regola, anche se nei primi tre Paesi la conoscenza dell’inglese è abbastanza buona. Invece in Danimarca, Svezia, Norvegia e Islanda,ma anchein Finlandia, in Portogallo, Romania e nei Paesi Bassi, si usano i sottotitoli.
La cosa comica, ai limiti del grottesco, è la situazione di Polonia, Russia, Ucraina, Lituania e anche Mongolia dove si pratica il voice over ovvero una voce fuori campo (di solito stentorea in pieno stile realismo da soviet) che traduce impersonalmente i testi. Col risultato che, come accade nei film horror, accadono situazioni tipo: “Lei fugge disperata gridando ti prego non uccidermi” “Lui grugnisce in modo cattivo” “Lei piange e dice perché mi sta capitando tutto ciò”. Debbo dire per onestà che i sottotitoli sono una gran cosa e basta abituarsi. Anche perché spesso e volentieri gli attori (inglesi e americani) parlano talmente veloci e talmente in gergo, magari con un forte accento regionale, che è durissima stargli dietro. Penso a 1941 di Spielberg, parlato in un americano quasi incomprensibile, o più recentemente ai protagonisti di Blade Runner 2049, oppure ancora Daniel Craig in Fuori i coltelli, dove si sforza di parlare con un forte accento del sud degli States mentre il resto della famiglia parla con un accento snob del nord (giusto per avere un idea: un calabrese vs. milanese), oppure gli operai di Sheffield di Full Monty.
Per mia (e vostra fortuna) ci sono artisti che amano la lentezza e la scansione, artisti per cui la parola ha un peso e una qualità, ed è un piacere starli a sentire. Ho già recensito a suo tempo il canto del cigno del Leonard Cohen di You Want it Darker e confermo che anche linguisticamente è una goduria. Stavolta cito, perché deve avere su queste colonne il posto che merita, il grande rapper Keith Edward Elam detto GURU (Gifted Unlimited Rhymes Universal), morto troppo presto per un mieloma multiplo a soli 48 anni. In coppia con il DJ e produttore Premier nei Gang Starr si conquistò velocemente un posto di rilievo nel mondo hip-hop per la qualità vocale calda, rasposa, martellante su ritmi lenti e la qualità degli arrangiamenti.
GURU in particolare alla fine dell’esperienza Gang Starr ha virato verso il mondo dell’enorme bacino culturale della musica afroamericana, mentre Premier diventò uno dei produttori di riferimento della nuova scena, scelto da artisti come Jay-Z e Notorious B.I.G. La serie di produzioni titolata Jazzmatazz è – a distanza di anni – davvero il vero ponte perfetto per avvicinare l’hip hop al cool e al bebop lungo tutto il corso degli anni ‘90, con collaborazioni e campionamenti geniali, da Donald Byrd, N’Dea Davenport, MC Solaar e Roy Ayers, Ramsey Lewis, Branford Marsalis e Jamiroquai. Preceduta da quello stranissimo esperimento che fu Back on the block, del furbo e coltissimo Quincy Jones, che raccoglieva campionamenti di tre generazioni di artisti afroamericani, tutta la produzione di GURU non è mai stata veramente eguagliata né superata per originalità e profondità dei testi. A distanza di tempo vale veramente la pena riascoltarlo (non ho mai smesso di ascoltarlo) e soprattutto di andare a fondo sui testi, come The Lightsaver (https://www.youtube.com/watch?v=fB9L6Po73M4&ab_channel=RedMambaYard): stavolta vi riporto parte del testo, invitandovi a tradurlo, ascoltarlo e poi cantarlo.
Mmm is this really the end or is it a new beginning? A new reality / So many misconceptions (don’t be misled) / So many evil deceptions (oh I am) / I’ve come to give direction / For I am the lifesaver / Scooby doo wah scooby doo wee / Like a jazz player I improvise wisely / Free with the style, I flow like the Nile / but remember, don’t mistake the smile / Deep rooted is my rhyming / Like ancient African griots, precise is my timing / But let me get to the essence of what I’m sayin here / Too many blood red streets with bodies layin there / The systematic fanatics are at it again / Tryin to kill me and all of us my friend / But don’t bend to the mental strain / Against all odds, we must strive for essential gains / Be true to the life the Lord gave ya / And that’s a message from the lifesaver / The lifesaver...