di Felice Accame |
Nel Traité du monde, Cartesio sviluppa tutta la sua teoria circa i meccanismi animali. Visto quel che n’era stato di Galileo – condannato nel 1633 – e come testimonianza di un buon istinto di conservazione, il libro né verrà dato alle stampe, né tramandato ai posteri.
Qualche cenno, tuttavia, possiamo desumerlo da una lettera che Cartesio, in data 30 luglio 1640, invia a Padre Mersenne. In essa, per esempio, si sostiene che “tutti gli organi richiesti ad un automa per imitare tutte quelle nostre azioni che noi abbiamo in comune con le bestie, si trovano già nel corpo degli animali”. Nel Discours de la méthode si parla della “costruzione dei nervi e dei muscoli del corpo umano per far sì che gli spiriti animali che si trovano dentro abbiano la forza di muovere le sue membra”, o dei “cambiamenti nel cervello per provocare la veglia e il sonno, e i sogni”, o di “memoria” e di “immaginazione”, mentre verrà premurosamente sancito il primato dell’uomo sull’animale (se esistessero macchine “che avessero gli organi o la figura di una scimmia o di un altro animale senza ragione, noi non avremmo alcun mezzo per riconoscere che esse non sono in tutto simili a questi animali”, e cosippure, nel caso si costruisse un automa a somiglianza dell’uomo, “anche se molte cose le facesse come e meglio di alcuni di noi, in altre si noterebbe immancabilmente delle manchevolezze che ci farebbero constatare come questi non agisca per conoscenza, ma solo per disposizione dei suoi organi”, dove alla facoltà “conoscitiva” – come espressione umana e soltanto umana – viene concesso uno statuto a dir poco privilegiato, e comunque tale da impedirne l’emergere a qualsiasi titolo da una base organica).
Tanto è stato sufficiente, tuttavia, in aggiunta alle sue modellizzazioni della circolazione sanguigna servendosi dei circuiti idraulici delle fontane luminose, per individuare in Cartesio un padre nobile di quella cibernetica che Ampère e Wiener, con diversa fortuna (o sfortuna), codificheranno rispettivamente come “scienza del governo” (per l’etimo greco, già in Platone come “arte del pilotaggio”) e “scienza del controllo e della comunicazione negli animali e nelle macchine”.
Al religioso Cartesio risponderà, nel 1748, il materialista Julien Offroy de La Mettrie, con L’uomo macchina. Erano tempi in cui la fisiologia – come ci ha ricordato Giulio Preti (1) – assegnava l’anima all’etere, come ipotesi ad hoc di un gas “infinitamente sottile”, e considerava i nervi come tubi entro i quali questo gas agiva, ragion per cui si può capire perché si parli dell’uomo come “un insieme di molle che si caricano tutte le une con le altre”, dove è palese l’analogia con l’orologio e dove l’anima, in quanto principio di movimento e “parte materiale sensibile del cervello”, può, al massimo, venir eletta al rango di “una molla principale di tutta la macchina che ha un’evidente influenza su tutte le altre e sembra perfino esser stata fatta per prima”.
Tale opposizione di vedute costituisce i termini fondamentali entro i quali si articolerà l’opposizione moderna fra dualismo e materialismo. Da una parte, chi cercherà il punto d’incontro della res cogitans con la res extensa, o della mente con il corpo – dalla ghiandola pineale di Cartesio agli psiconi di Eccles; dall’altra, chi si affaccenderà sul cervello alla ricerca di qualcosa di fisico da isolare come responsabile delle sue migliori prestazioni – come il percepire, il vedere, l’udire, il categorizzare, il parlare, il significare, etc. Mentre il programma dualista come programma scientifico si squalifica da solo – o richiedendo l’intervento di Dio o autocontraddicendosi, perché definirebbe il mentale che cerca come il fisico cui sia stata tolta la fisicità – sembra più arduo rendersi conto dell’insufficienza del programma materialista, almeno nelle versioni fino a oggi più comunemente formulate.
Se ne lamentava già un materialista storico convinto come Rossi-Landi, nel 1967 (2). Salutando l’incontro tra neurologia e ingegneria elettronica e dicendosi ben lieto di quanto il dominio dell’uomo sulla natura si andasse estendendo “fino al punto di ricostruirla al livello della vita e dell’intelligenza”, faceva notare, però, che “chi si occupa del funzionamento del cervello e della sua riproduzione tende a ignorare […] le ricerche di chi ne studia invece i prodotti”. Da ciò la consapevolezza che il materialismo degli scienziati mai si è affrancato del tutto dalla sua versione ingenuamente meccanicistica – versione in merito alla quale “tutto il comportamento umano sarebbe riducibile a quanto avviene nella materia del cervello”. Da ciò, anche, la consapevolezza di quanto fosse parziale e fuorviante il programma della prima cibernetica.
Come ha fatto notare Ceccato, occorre non confondere l’organo con la funzione e, comunque, sapere che l’individuazione della funzione, metodologicamente, precede quella dell’organo, e non viceversa. È al cervello considerato per una delle sue funzioni che assegniamo il nome di mente, non a qualcosa che abbia sede nel cervello stesso. E in quanto funzione ne consegue che la mente sia analizzabile soltanto in termini di attività – compatibilmente, dunque, a un programma cibernetico che quelle attività voglia simulare con mutamenti di stato e di posto di organi artificiali.
Le conseguenze dell’assunzione di programmi autocontraddittorii o insufficienti – in piena coerenza con quella filosofia da cui hanno avuto origine – han fatto sì che la ricerca imboccasse strade sbagliate e senza sbocco, prendendo lucciole per lanterne o non potendo trovare né le une, né le altre.
Così abbiamo avuto e abbiamo tuttora cercatori di “coscienza”, di “io” e di tracce mnestiche, o gente che studia il computer – cui, peraltro, attribuisce una misteriosa perché indefinita “intelligenza” (3) – sperando di capire qualcosa, a un tempo, sul cervello e sulla mente.
La storia della cibernetica è piena di macchine che imitano una funzione umana a prescindere dalla sequenza operazionale con cui l’uomo la esegue: alla calcolatrice a ruote dentate di Pascal, o a quella successiva di Leibniz, a cilindri scanalati, o alla macchina analitica a banda perforata progettata da Charles Babbage, o al Mark I di Aiken, nessuno può sensatamente attribuire il compito di rappresentare le operazioni mentali, corrispondenti al calcolo, caratteristiche dell’uomo (4).
Alla stessa stregua, se si schiaccia l’apposito pulsante del giocatore di scacchi di Torrès y Quevedo – grazie al quale la macchina eseguirà cinque mosse più o meno ‘stupide’ – non si è affatto legittimati a considerarne lo stato interno come l’equivalente di un trauma o di una malattia neurologica. Il fatto che la mia calcolatrice tascabile registri il risultato di un’operazione per poi restituirmelo al momento da me considerato opportuno, non mi autorizza a indagare sui suoi organi nella convinzione di acquisire preziose informazioni sul meccanismo della memoria.
E ancora: l’analisi accurata dei costituenti e del comportamento di Elsie, la tartaruga meccanica di Grey Walter, non mi dirà alcunché, sui costituenti e sul comportamento delle sue colleghe naturali, che già non sappia.
L’alternativa principale che si pone a coloro che vogliano meccanizzare attività umane – come, ancora, fa notare Ceccato – è sostanzialmente questa: o costruire una macchina che elabori gli input in output, in risposte, uguali o simili agli output forniti dall’uomo, ma trascurando i modi seguiti per ottenerli, o costruire una macchina che imiti gli output e le modalità di elaborazione degli input in grazia delle quali li si è ottenuti. Ovvia è la constatazione che gli interessi economici al governo dell’impresa scientifica abbiano favorito la prima alternativa e ignorato la seconda.
Qualora le attività umane prese a modello siano quelle individuate come processi di pensiero e linguaggio, questa seconda alternativa ne offre immediatamente un’altra – quella fra l’imitazione del cervello così come ce lo configura il sapere naturalistico a disposizione, e quella di un’imitazione del cervello, soltanto dopo che un modello di funzione (ovverossia di ‘mente’) abbia guidato all’osservazione del cervello stesso. Lo sviluppo della prima alternativa, nonostante fosse chiaramente suggerito da McCulloch e Pitts (e nonostante, come ricorda Somenzi (5), lo stesso Wiener avesse già osato pensare all’inserimento di neuroni estratti da organismi viventi negli organi artificiali di un calcolatore), è rimasto a lungo frenato e oggi se ne può individuare qualche sintomo nel tentativo di approccio “biologico” alla “coscienza” di Edelman e nelle varie realizzazioni di reti neurali – simulazione di catene di neuroni da cui emergerebbero apprendimento e generalizzazione, come nel caso del ‘riconoscimento’ di visi (per esempio, il Facenet) o di caratteri alfabetici.
Prodromi della seconda alternativa possono esser considerati L’Adamo II, presentato da Ceccato nel 1956 – un modellino di alcune fra le più usate categorie mentali – nonché tutti i lavori analitici della Scuola Operativa Italiana e i progetti a essi correlati (inclusi quindi il progetto di una macchina che passi dall’osservazione alla descrizione di quanto osservato, il progetto di una macchina che traduca da una lingua a un’altra, la semantica di Vaccarino e il sistema di comunicazione uomo-scimpanzè tramite computer realizzato da Ernst von Glasersfeld e da Pier Paolo Pisani nell’ambito del Lana Project) (6). Senza il superamento dell’opposizione sterile fra dualismo e materialismo – lasciando da parte, dunque, le descrizioni della mente in termini di entità, statiche per definizione, o il presupposto di una mente inanalizzabile, o la contraddittoria considerazione del mentale in termini fisici – questa base di risultati pionieristici non avrebbe potuto formarsi.
Se certi programmi cibernetici, ottenendo successi di ordine pratico, hanno potuto mascherare le carenze di metodo – come quando, per un programma di traduzione automatica da una lingua a un’altra, si decide di passare da controparte fisica a controparte fisica, ignorando, deliberatamente o meno, ciò che i designanti in quanto designanti designano, ma andando incontro anche ai numerosi problemi della polivocità e della funzione semantica delle soluzioni sintattiche – altri si sono imbattuti in difficoltà teoriche insormontabili conseguenti sia, come dice Vaccarino, alla “rinuncia all’analisi delle operazioni mentali” in ossequio all’ideologia fisicalista della “scatola nera” (7), e sia, come dice Ceccato, per aver confuso “ciò che spetta alla funzione di un organo con ciò che spetta al funzionamento di un organo”, perché quando la funzione è mentale, cioè corrisponde a un’attività costitutiva, come il percepire o i cento modi di considerare, non può mai essere identificata con ciò che l’osservazione rivela sull’organo o nell’organo; mentre il funzionamento è sempre fisico, osservato sull’organo fisico, individuato nello spazio e seguito nel tempo” (8).
Questo – molto in breve – il quadro storico all’interno del quale è stato legittimato il dibattito sulle ‘macchine intelligenti’: poco importa se la cibernetica ha lasciato il passo, prima, agli studi che sono andati sotto il nome di ‘intelligenza artificiale’ e, poi, in parte, a quelli che si sono riuniti nell’ampio alveo della ‘scienza cognitiva’, perché, sotto l’etichetta diversa, i problemi – se vogliamo, quelli ereditati dalle formulazioni contrapposte di Cartesio e di La Mettrie – sono rimasti rigorosamente gli stessi.
Ammettendo, dunque, di poter sfuggire al dualismo e al materialismo (almeno a quello in versione panfisicalistica), si può delineare una scienza dell’artificiale dotata convenientemente per attraversare il mentale e, quindi, occuparsi di attività inclusive del linguaggio e del pensiero. Si tratta, più che altro, di un’affascinante ipotesi per il futuro. Per il cinema – e per le forme di narrativa con le quali è associabile –le cose stanno in termini ben diversi. Dal servomeccanismo più rudimentale si è passati, piuttosto rapidamente, a rappresentare il replicante perfetto, l’automa che parla, ragiona e si muove esattamente come l’essere umano che l’ha costruito. Forse, la sbrigatività della soluzione non è del tutto casuale.
In cerca di corrispondenze, con la storia della scienza e con la riflessione epistemologica, di film in film, sempre ancorati al genere della fantascienza – come se l’argomento, malgrado un’attualità secolare, dovesse esser sempre posposto – possiamo annoverare alcune tipologie fondamentali di macchine ‘pensanti’:
a) Quella, morfogeneticamente grezza, che non può prescindere da un algoritmo ‘di sicurezza’, cui, cioè, è stato ordinato un intero sistema di ubbidienza al padrone tranne l’eventualità d’interrompere definitivamente il vivente. A modello può venir considerato il robot servizievole de Il pianeta proibito, di Fred Mc Leod Wilcox. Si tratta di una macchina etica con tutte le contraddizioni del caso: nulla si esplicita, infatti, sui confini fra vita e non vita, o fra umano e non umano – si accetta, e si impone, implicitamente una tassonomia del ‘creato’ ove ‘uomo’ e ‘vivente‘ sono differenziati di per sé.
b) Quella rivoltosa o degenerativa cui, alla faccia degli algoritmi che la costituiscono, emerge il programma imprevisto e dannoso, spesso letale, per il suo costruttore. Sul modello ideologico del Frankenstein della Shelley, i riferimenti d’obbligo toccano al computer di bordo in 2001 Odissea nello spazio, di Stanley Kubrick, e ai replicanti da annientare in Blade runner di Ridley Scott. Che il primo di antropomorfico non abbia nulla e che i secondi, invece, di antropomorfico abbiano tutto tranne alcune reazioni psicofisiologiche, poco importa (poco importa a noi. Di più al personaggio protagonista che mai sarebbe partito per una vita serena e spensierata con il computer di 2001, mentre, di fatto, parte, per una vita serena e spensierata, con una replicante sopravvissuta in Blade runner). L’impresa scientifica, si sa, è invece ancora alle prese con il riconoscimento della voce che, nonostante i programmi-scorciatoia alla portata di tutti i possessori di personal computer, costituisce ancora, in assenza di una modellizzazione efficace dei processi di significazione, un ostacolo non indifferente (9).
c) Quella teleologica, assassina, programmata per eliminare l’intera classe cui appartiene il proprio artefice. Il modello è quello di Hardware, di Richard Stanley, dove da residuato e suppellettile, la macchina si rigenera per conseguire il proprio scopo. Anche qui, perché non attacchi il basilico o gli scarafaggi non è esplicitato, ma concettualmente riconduce a esemplari ben noti nella storia della cibernetica – come al Miso di Albert Ducrocq che aggrediva oggetti elettrici, o a quel ‘cane elettronico’ che, a quanto narrano le cronache americane del 1939, a causa della propria sensibilità al calore, si schiantò contro un’automobile dai fari incautamente accesi (10).
d) Quella che ha raggiunto la coscienza di sé e della propria finitezza, nonché le conseguenti angosce che la tradizione spiritualistica assegna a queste e a consimili consapevolezze. Automi kierkegaardiani, sul versante dell’esistenzialismo cristiano. Non a caso dovuto al medesimo Ridley Scott, il modello è quello dei replicanti di Blade Runner e del cyber di Alien.
e) Quella che ha raggiunto tanta coscienza di sé e della propria finitezza da volerla far finita quando capita l’occasione. Automi sartriani, sul versante dell’esistenzialismo ateo. Il modello è quello di Alien 3, di Fincher, ove al sacrificio dell’eroina, fa riscontro l’eutanasia di un cyber in avanzato stato di rottame biochimico.
f) Quella che realizza l’ipotesi di Wiener sull’ibridazione tra naturale e artificiale. Il modello – non privo di inquietanti risvolti sociali – è quello del Robocop di Paul Verhoven. Rimanendo in tema, nella modestia dell’oggi, si potrebbe intervenire a favore di coloro che professionalmente abbiano a dover riconoscere bene e prontamente le facce ‘espandendo la loro memoria’ in un Facenet portatile.
g) Quella il cui cervello artificiale è una macchina chimica. Il cui modello, almeno a giudicare da bave verdastre e altre eiezioni, si trova in Alien di Ridley Scott. Sembrerebbe la risposta positiva all’invito, rivolto da Somenzi (11), “agli specialisti di bionica, biofisica e biochimica” a riprodurre artificialmente, imitando e strutture e funzioni, gli organismi naturali a partire “dagli stessi elementi chimici dai quali essi si sono formati a loro tempo” (che poi il cervello non possa esser ricostruito con elementi chimici diversi, dal cui insieme risultino quelle bave verdastre e quelle eiezioni di cui l’umano sembrerebbe carente, ovviamente, non è da escludersi: il fisico non conosce univocità di strade).
h) Quella automanutentiva e autoriparativa, anche se non ancora autopoietica. A modello può richiamarsi il Terminator di James Cameron, che, nelle rare pause che il suo viaggio nel Tempo gli concede, rimedia come può ai guasti e alle ingiurie degli umani. Grossomodo, riflettendo la teorizzazione di Walter Cannon circa la facoltà, per un organismo vivente, di mantenere relativamente costante un certo stato di equilibrio, si può dire che appartenga alla linea evolutiva dell’omeostato di William Ross Ashby (12).
i) Quella dotata di scopo e aderente a un programma ideologico. Macchina particolarmente ingenua, può identificarsi con i robottini simpatici e petulanti di Guerre stellari di Steven Spielberg, i quali – per quanto vilipesi e conculcati – protraggono indefessamente le proprie ‘elaborazioni’ dalla parte del Bene e contro il Male. Sono figli di un manicheismo prestabilito il cui ruolo consolatorio, nelle forme della narrativa popolare, non accenna a venir meno.
l) Quella quasi integralmente sfisicizzata, ridotta a mero programma. Come quella che opera nell’agenzia di turismo mentale di Total recall, di Paul Verhoven. Praticamente, un floppy disk o un cd rom in forma di iniezione. A dimostrazione ulteriore della continuità fra hardware e software.
m) Quella puramente teorica, perfetta, risultato di un’analisi esauriente della mente umana, ma vanificata da un elemento irriducibile, il subconscio. Il trionfo di Freud su Wiener. La si deduce da Il pianeta proibito, dove la civiltà della consapevolezza e della padronanza della tecnologia nulla ha potuto contro la bestia ancestrale che ringhia dentro ciascuno dei suoi membri. Una sorta di riedizione ammodernata della biblica Torre di Babele, ove presunzione e trasgressione del tabù vanno castigate.
Dicevo che, forse, la sbrigatività con cui le narrazioni cinematografiche sono passate dal rappresentare vicende di macchine banali a vicende di macchine ‘intelligenti’ non è del tutto casuale, bensì, presumibilmente, un carattere ideologico molto significativo, del tutto coerente alle esigenze della società che queste narrazioni esprime.
Dualismo e materialismo sono due opzioni che si nutrono l’una dell’altra: entrambe presuppongono il medesimo mondo dato, bell’e fatto ed esistente di per sé, e una mente che passivamente abbia il solo compito di rispecchiarlo (si ricordi, fra i tanti casi istruttivi, la violenza polemica di Lenin contro Bogdanov attraverso Mach). Entrambe espropriano l’uomo della sua capacità di protagonista e di costruttore sociale. Ovvio, allora, che qualsiasi soluzione magica del conoscere (del percepire, del categorizzare, del semantizzare, del comunicare) sia funzionale agli interessi di chi disegna visioni del mondo che ne giustificano, in un modo o nell’altro, il potere.
Lasciando la riproduzione del mentale al livello di favola, e ipostatizzando la divisione tra il naturale e l’artificiale, si protrae l’illusione che le peculiarità dell’uomo – e, poi, quelle del vivente su cui quest’uomo dovrebbe primeggiare – siano il risultato di un salto nell’ordine naturale, dono ineffabile di una Storia o di una divinità, qualcosa cui aggrapparsi con fiducia. Una soddisfazione che, da chi subisce, viene pagata a caro prezzo – e in termini di individuo, e in termini di classe.
(1) G. Preti, Prefazione a J. O. de La Mettrie, L’uomo macchina; Milano, 1973
(2) F. Rossi-Landi, Centrosinistra cibernetico; in “Paese Sera”, 9 dicembre 1967
(3) cfr. S. Ceccato, La meccanizzazione dei processi di pensiero e di linguaggio; in Archivio di psicologia, neurologia e psichiatria, XXVII, I, 1966: “in quanto il funzionamento di queste macchine non comprende le operazioni caratteristiche del pensiero, e tanto meno dell’intelligenza (se questa viene concepita secondo la comune usanza come un caso particolare e favorevole, per qualità e quantità, del nostro pensiero), io ritengo che sia un pericoloso errore identificare senz’altro le loro prestazioni con quelle di un nostro operare intelligente”
(4) cfr. G. Vaccarino, La mente vista in operazioni; Firenze 1974, p. 62, ove si spiega che “i correnti calcolatori non pensano, non già perché hanno l’inferiore natura di macchine, ma perché non fanno le nostre operazioni mentali”. Infatti “si limitano ad addizionare i numeri con un procedimento ricorsivo, che prende come ingredienti bell’e fatti l’uno e lo zero. Un’effettiva macchina pensante, anche se limitata alle operazioni aritmetiche, dovrebbe essere in grado di costituire anzitutto questi due numeri. Per costruirla la difficoltà non consiste tanto nei meccanismi quanto in un’analisi adeguata delle operazioni mentali, per sapere che cosa a essa si deve far fare”
(5) cfr. V. Somenzi, La materia pensante; Milano 1991, p. 172
(6) cfr. rispettivamente, S. Ceccato, Un tecnico fra i filosofi; vol. 1 e 2, Padova 1964-1966; G. Vaccarino, Scienza e semantica costruttivista; Milano 1988; E. Von Glasersfeld, Linguaggio e comunicazione nel costruttivismo radicale; Milano 1989. Per una visione sintetica, cfr. inoltre, V. Somenzi, La Scuola Operativa Italiana; in “Methodologia” 1, 1987; F. Accame e M. M. Sigiani, Modelli della mente e problema del significato dal punto di vista metodologico-operativo; in P. Ciaravalo (a cura di), Informatica e metodologia filosofica, Roma 1990; F. Accame, Pratica del linguaggio e tecniche della comunicazione, Roma 1996
(7) G. Vaccarino, La mente vista in operazioni, cit., p. 63
(8) S. Ceccato, Cibernetica per tutti; Milano 1970, p. 28
(9) come dice Pinker, “non esistono due persone con la stessa voce, perché non sono uguali né la forma dell’apparato vocale che scolpisce i suoni, né i modi specifici di articolazione”. C’è il problema delle accentazioni, della rapidità di pronuncia e del fatto che, nella fretta, ci “mangiamo” i fonemi. Inoltre – ostacolo determinante sulla via dello “stenografo elettronico” – c’è il problema della “coarticolazione”, ovvero del controllo della muscolatura fonatoria che, in vari modi, anticipa la posizione più opportuna della lingua, per economizzare, in vista dei fonemi successivi. Cfr. S. Pinker, L’istinto del linguaggio, Milano 1997, pp. 173-174. Inoltre, sul modo con cui un bambino impara a distinguere fra evento acustico qualsiasi e linguaggio, e sulla comprensione dei suoni in genere, cfr. R. Pierantoni, La trottola di Prometeo, Roma-Bari 1996, pp. 264-274
(10) cfr. P. De Latil, Il pensiero artificiale; Milano 1962, pp. 266-267
(11) V. Somenzi, La materia pensante, cit., p. 131. Cfr. ibidem, pp. 171-175
(12) P. De Latil, Il pensiero artificiale, cit., pp. 327-330