L’epoca di Bazoli è finita: Renzi porta con sé un ordine nuovo che cambia i rapporti di forza nella finanza, nell’imprenditoria e nell’editoria
Il 14 maggio la guardia di finanza di Bergamo, coordinata dal pm Fabio Pelosi, è entrata negli uffici del quinto gruppo bancario italiano, Ubi Banca. Le perquisizioni – eseguite dai militari del Nucleo speciale di polizia valutaria delle Fiamme gialle – sono state disposte dalla procura all’interno di due distinti filoni di indagini: il primo concerne il reato di ostacolo alle funzioni di vigilanza, il secondo quello di truffa e riciclaggio. Tra gli indagati eccellenti del primo filone spicca Giovanni Bazoli, 82 anni, storico patron di Banca Intesa (di cui è ancora oggi presidente del consiglio di sorveglianza).
Secondo gli inquirenti Bazoli, in qualità di presidente di un gruppo di azionisti (l’Associazione Banca Lombarda e Piemontese) di Ubi Banca – di cui è stato anche consigliere fino al 2012 – avrebbe messo in atto, senza che le autorità di vigilanza ne avessero conoscenza, un sistema di
regole per pilotare le nomine dei vertici del gruppo bancario. Forse il reato, almeno in Italia, non è fra quelli da prima pagina, e nel mezzo delle indagini su Expo 2015 e Mose la notizia passa quasi inosservata. Oppure non si vuole attirare l’attenzione su un evento che sancisce non tanto la fine di un’epoca, quanto l’inizio di un ordine nuovo.
Giovanni Bazoli, avvocato, nasce a Brescia il 18 dicembre 1932. La sua famiglia è fra quelle che hanno deciso fin dall’inizio del Novecento i destini del Paese: il nonno Luigi fu uno dei fondatori (e in seguito deputato) del Partito Popolare, mentre il padre Stefano fu deputato per la Dc all’Assemblea costituente. Giovanni segue la linea familiare della militanza nell’intellighenzia cattolica: dopo la laurea in legge esercita la professione di avvocato nello studio di famiglia a Brescia, insegna diritto pubblico all’Università Cattolica e, nel 1974, entra nel consiglio d’amministrazione della Banca San Paolo di Brescia, inaugurando una carriera da banchiere. Ma il suo nome salirà alla ribalta (quella che conta) solo nel giugno del 1982, quando Roberto Calvi, direttore del Banco Ambrosiano, viene trovato impiccato sotto il Ponte dei Frati Neri di Londra, e quattro banche private (Popolare di Milano, San Paolo di Brescia, Credito Romagnolo e Credito Emiliano) si dichiarano pronte a farsi carico del 50% del nascituro Nuovo Banco Ambrosiano. Le banche private indicano su suggerimento del democristiano Nino Andreatta, all’epoca ministro del Tesoro, Giovanni Bazoli come loro garante. Da allora in poi Bazoli non avrebbe più lasciato il ‘salotto buono’ della finanza italiana.
Divenuto presidente del Nuovo Banco Ambrosiano, diresse nel 1984 la cessione della Rizzoli-Corriere della Sera (il gruppo editoriale che Angelone Rizzoli aveva ceduto a Roberto Calvi), e fu egli stesso beneficiario della transazione come presidente della Mittel, una delle società che parteciparono all’acquisto del gruppo. Integrò poi il Nuovo Banco con la Banca Cattolica del Veneto, formando il Banco Ambrosiano Veneto, nel cui azionariato confluirà (1990) anche il gruppo francese Crédit Agricole. Nel 1997 dall’unione dell’Ambroveneto con Cariplo nascerà Banca Intesa, di cui Bazoli diviene presidente. Ma è il 1999 l’anno della svolta: con quello che passerà alla storia come l’abbraccio mortale della finanza cattolica a quella laica, Enrico Cuccia, il potentissimo patron di Mediobanca, si arrende a Giovanni Bazoli. La Comit (Banca commerciale italiana), dopo aver tentato lungamente, ma senza successo, di recitare il ruolo di banca aggregante del sistema economico italiano, si fonde con Banca Intesa. Bazoli riuscirà dove Cuccia aveva fallito: incorporato il Sanpaolo di Torino, il gruppo Intesa Sanpaolo diviene l’interlocutore privilegiato delle operazioni strategiche di finanza pubblica, facendo di Bazoli il primo vero banchiere di sistema.
Come analizzava Giovanna Cracco nel numero di aprile 2011 di Paginauno (1), “per poter comprendere il potere del cattolico bresciano occorre tenere a mente che Intesa Sanpaolo è la prima banca d’Italia, oltre che l’azionista di maggioranza di Bankitalia con il suo 30,3%; dai tempi del governo Prodi – grande amico di Bazoli – è la ‘banca per il Paese’. Quasi 500 miliardi di euro è il credito complessivo che l’istituto vanta nei confronti dell’economia italiana, privata e pubblica. Da quando, poi, nel 2006, è nata Banca Intesa Infrastrutture e Sviluppo, divenuta nel 2008, dopo la fusione, Banca Infrastrutture Innovazione e Sviluppo, l’incidenza dell’istituto nella realizzazione di grandi infrastrutture, progetti urbanistici, sistema sanitario, università e ricerca e servizi di pubblica utilità è cresciuta esponenzialmente”.
Ma da quel 2011 tante cose sono cambiate.
La crisi economica e l’incapacità della politica di governo di soddisfare le aspettative del cosiddetto ‘Paese reale’ (e soprattutto del denaro, imprenditoria e finanza) hanno mietuto vittime illustri, decimando la classe dirigente: la condanna di Berlusconi e lo scisma del Pdl, la mancata elezione di Prodi alla presidenza della Repubblica, la morte della ‘sinistra’ in un Pd sempre più ingestibile – accelerata dall’ischemia che ha tolto Bersani di torno – sono tutti sintomi di un cambiamento al vertice del potere, cambiamento che, pur manifestandosi da tempo in conflitti apparentemente lontani fra loro, si è perfezionato solo in questi giorni, con la stracciante vittoria di Matteo Renzi e del suo nuovo corso alle elezioni europee.
In questa catena di conflitti, Bazoli era un anello importante, perché quando c’è un banchiere di sistema, affinché cambi il sistema deve cambiare il banchiere. “Ho un attaccamento totale alla banca, ma sono disposto a passare la mano al primo segno di difficoltà nell’espletamento del mio mandato”. Così il 12 maggio, appena due giorni prima delle perquisizioni in UBi Banca (sarà un caso?), Giovanni Bazoli rispondeva a un socio di Intesa che, durante l’assemblea, gli faceva notare l’età avanzata (81 anni e 5 cinque mesi) e gli chiedeva la disponibilità a farsi da parte per mandare in soffitta il sistema duale (il consiglio di sorveglianza che si aggiunge a quello di gestione), in nome di una maggiore efficienza operativa. Un’indagine giudiziaria può senza dubbio essere definita “un segno di difficoltà”, stante una regola non scritta degli affari nostrani: in Italia, se la magistratura attacca qualcuno di potente, sia esso politico, imprenditore, mafioso o banchiere, quel qualcuno in realtà potente non è, o non è più, e questa è la ragione per cui gli arresti e le condanne eccellenti non riescono mai a scalfire il volto di un Paese in cui, gattopardescamente, tutto cambia affinché tutto resti immobile (Tangentopoli è la prova provata di questo teorema, di cui per anni – ma non per sempre – Berlusconi è stato l’eccezione).
Il defunto segretario del Psi Bettino Craxi diceva: “Guarda come si muove il Corriere e capirai dove si va a parare nella politica”, e uno degli scenari in cui da più tempo Bazoli deve difendersi è proprio il ‘suo’ Corriere della Sera, dove a mettere a lui e agli alleati Agnelli i bastoni fra le ruote è il marchigiano (ma fiorentino per adozione) Diego Della Valle.
Il 24 febbraio scorso, in una lunga intervista a Giovanni Minoli per i microfoni di Radio 24 (editore Confindustria), il molesto patron di Tod’s dichiarava a proposito di Rcs Media Group, di cui è azionista con il 9%: “Questa azienda ha bisogno di cambiare in fretta. Bisogna prendere atto che c’è un amministratore delegato assolutamente inadeguato [il riferimento è a Pietro Scott Jovane, attuale amministratore delegato del gruppo ed ex numero uno di Microsoft Italia, n.d.a.]. […] Io non ho un match con Yaki [soprannome di John Elkann, n.d.a.], lo conosco da bambino; io ho un match con quello che la famiglia Agnelli ha rappresentato nel Paese, ha fatto dei guai e ora è il momento di raccontarlo. […] Se si devono tirare le somme oggi, gli Agnelli hanno fatto più male che bene all’Italia”; e ancora: “Chrysler è stata l’àncora di salvezza; Fiat ha comprato Chrysler nell’immaginario ma si sposta tutto via da Torino e i benefici vanno tutti in tasca agli Agnelli”.
Come ulteriore smacco ai proprietari della Juventus (calcio, editoria e politica in Italia si danno stranamente la mano), Della Valle (patron anche della Fiorentina) propone il proprietario e presidente del Torino Football Club alla guida del Corriere: “Al Corriere di editore puro ce n’è uno che si chiama Urbano Cairo, e io sarei dell’avviso, se lui se la sente, di affidargli la delega per gestire l’azienda. […] Oggi il problema di Rcs è che non c’è un azionariato che si prende delle responsabilità e il cda non decide e non si assume i rischi. È un’azienda che va tutta rifondata”.
Urbano Cairo, socio di Rcs con il 3,68% senza rappresentanti in consiglio, incassa la fiducia ma all’apparenza si smarca dichiarandosi non disponibile. In occasione dell’assemblea del suo gruppo, Cairo Communication, dichiara infatti di aver “troppo da fare qui”, eppure fa notare che “forse Della Valle dice così perché sono poche le aziende come Cairo che su un fatturato in edicola di 75 milioni ha fatto un margine operativo lordo di 12,4 milioni [Rcs senz’altro no, visto che nell’ultimo bilancio consolidato a fronte di ricavi edicola per 860 milioni ha una perdita operativa di 69 milioni, n.d.a.]. Altri chiudono testate noi ne creiamo e assumiamo. Siamo una mosca bianca. Inoltre sono l’unico editore puro tra i soci di Rcs”. E a proposito di un suo ingresso in consiglio si fa possibilista: “Non ci ho pensato, non me l’ha chiesto nessuno, se mi fanno una proposta ci penserò”.
Ma è a proposito di Bazoli che Della Valle dà nell’intervista a Minoli il meglio di sé, invitando pubblicamente Renzi alla sua rottamazione: “Bazoli contava molto. Oggi conta molto poco. Io credo che Bazoli identifica un mondo che se ne deve andare e mi auguro che Renzi lo faccia subito. Renzi deve fare piazza pulita ed è un’operazione che va fatta in tutto il sistema, tutto insieme. Nomine Eni, Enel, Terna? Bisognerà cambiare molto, tenendo conto che in alcuni casi si cambieranno anche degli uomini capaci. Vede, oggi la parola d’ordine secondo me è discontinuità. Dobbiamo proprio fare in modo che questa grande palude di classe dirigente che ha ridotto il Paese in queste condizioni, e non è solo la politica, c’è di tutto, compreso anche un mondo di una certa impresa. Le valutazioni vanno fatte, credo che bisognerà avere un sistema, e non puntare il dito su chi sì o chi no. Una regola corretta, giusta, che non offenda neanche le persone che sono state brave. Discontinuità, sicuro, burocrazia annullata il più possibile”.
Parole confuse, ma idee chiare: fuori il ‘vecchio’, dentro ‘noi’. Della Valle, imprenditoria, Cairo, editoria, Renzi, politica. E chi sarà il banchiere? Se Rai e Mediaset sono le emittenti televisive del passato, La7 (proprio di Urbano Cairo, che caso) si candida a paladina dell’ordine nuovo. Michele Santoro, uomo di punta del canale (e che a fine 2011 aveva apertamente criticato Renzi per aver affidato a Giorgio Gori, “uno che faceva i reality”, lo studio del riassetto del sistema televisivo italiano) si schiera in un’intervista a Repubblica pubblicata il 5 giugno scorso dalla parte del presidente consiglio che ha deciso (un altro caso?) di tagliare 150 milioni di euro alla Rai: “Renzi, che ha nell’intuito la sua qualità più grande, ha capito che la tv pubblica è l’ultima sopravvissuta del vecchio sistema politico: una mosse coerente”.
Michele Santoro critica lo sciopero indetto a difesa della Rai e chi lo sostiene (i Cinque Stelle di Grillo, definito un “alfiere del passato”, la parte spodestata del Pd e Forza Italia), ed elogia Renzi che “li osserva dall’altra parte: un capolavoro politico”, rimarcando che i vent’anni di duopolio televisivo Rai-Mediaset hanno creato una burocrazia incapace di fare televisione, come dimostra il crollo degli ascolti registrato in questi anni: “La tv generalista è in crisi profonda. Dieci anni fa la somma degli ascolti ammontava al 94%, oggi siamo precipitati al 54%. Eppure i video sui siti online restano un elemento fondamentale. Segno che bisogna ripensare tutto”.
Uno degli ultimi atti da sindaco di Matteo Renzi, a febbraio scorso, è stato dare la disponibilità della Mercafir, un’area a Novoli (quartiere nella zona nord-ovest di Firenze), per la costruzione della tanto desiderata “Cittadella viola”, la futura casa della Fiorentina dei Della Valle. Il sindaco ha messo a disposizione 32 ettari (che verranno ‘liberati’ dalle attività tradizionali del mercato, da ricollocarsi in altra zona), per realizzare uno stadio da 40.000 posti con annesse attività ricettive e commerciali: alberghi, uffici e negozi con un’attenzione particolare alla possibile realizzazione di una “via della moda” con brand e griffe di primo piano a partire da quelle della famiglia Tod’s, nonché nuovi collegamenti stradali con l’autostrada e il centro città. L’osmosi fra l’amministrazione comunale e i Viola è tale che i Della Valle hanno voluto Eugenio Giani e Dario Nardella, due renziani di ferro, nel cda della Fiorentina.
Nardella, fra le altre cose, è stato nominato da Renzi vicesindaco reggente ed è divenuto sindaco con le ultime elezioni amministrative, quindi toccherà a lui gestire la pratica stadio. L’investimento complessivo è previsto in circa 180 milioni, e voci insistenti dicono che i Della Valle
saranno affiancati da partner cinesi, perché il progetto rientrerebbe in una più vasta operazione di internazionalizzazione del marchio Fiorentina.
Anche nel nuovo governo i cinesi vanno di moda. “Oggi presentiamo un accordo importantissimo”, commentava l’8 maggio scorso a Genova il presidente del Consiglio riferendosi alla partnership siglata tra Ansaldo Energia e Shanghai Electric, l’interlocutore internazionale scelto dal Fondo strategico italiano – una holding di partecipazioni creata per legge (decreto ministeriale 3 maggio 2011, presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, ministro dell’Economia Giulio Tremonti [2]), il cui azionista di controllo è il Gruppo Cassa Depositi e Prestiti (una s.p.a. a controllo pubblico) con l’80%, e azionista di minoranza è la Banca d’Italia con il 20%. L’accordo prevede che la multinazionale energetica cinese con base a Shanghai e quotata a Hong Kong acquisti il 40% del capitale della società energetica italiana basata a Genova. È invece del 7 giugno l’annuncio che Matteo Renzi progetta missioni in Cina e Vietnam, in cui si recherà personalmente accompagnato dai rappresentanti di una cinquantina di aziende italiane (ci saranno i Della Valle?).
E se la visita ad Hanoi ha una valore storico (sarebbe la prima volta di un premier italiano in Vietnam, Paese che negli ultimi anni è diventato fonte di attrazione di investimenti esteri), molto più significativo è il valore strategico delle tappe di Shangai e Pechino: nella prima Renzi punta a rilanciare Expo 2015, incontrando, nell’ex padiglione italiano dell’Expo 2010, la comunità d’affari cinese e italiana e partecipando alla presentazione della delegazione cinese, che si è riservata ben tre padiglioni per il prossimo anno a Milano; e nella seconda, ancora più importante, Renzi ha intenzione di incontrare esponenti politici ed economici ai massimi livelli per promuovere gli scambi commerciali. Nella capitale cinese Renzi incontrerà il presidente Xi Jimping, che ha già annunciato la sua presenza a Expo 2015, il primo ministro Li Kequiang, che a ottobre ricambierà la visita ufficiale a Roma, e il governatore della Banca Centrale cinese. Per promuovere l’interazione economica tra i due Paesi, ancora, il presidente del Consiglio ha voluto partecipare mercoledì 11 giugno alla prima riunione del Business forum Italia-Cina, nella sede dell’assemblea nazionale del popolo, insieme al gotha dell’economia cinese e italiana. Con Renzi saranno presenti l’amministratore delegato di Finmeccanica Mauro Moretti, l’ad di Enel Francesco Starace, quello di Unicredit Federico Ghizzoni e una delegazione di imprenditori. A margine del business forum, è attesa la firma una ventina di accordi sia tra i governi che tra le imprese, come quello tra il ministero dello Sviluppo italiano e il gruppo Alibaba (gigante cinese dell’ecommerce).
Ed ecco finalmente spuntare il nome del nuovo banchiere di sistema, Federico Ghizzoni, amministratore del gruppo Unicredit e collega di Luca Cordero di Montezemolo che, oltre a essere presidente della Ferrari, fondatore della società Nuovo Trasporto Viaggiatori (concorrente delle Ferrovie dello Stato) e grande amico di Della Valle, dal 2012 è vicepresidente, membro del comitato permanente strategico e membro del comitato di corporate governance proprio della seconda (per ora) banca italiana.
Ma i legami fra Renzi e Unicredit non passano solo attraverso Della Valle e Montezemolo: la Banca da qualche mese ha raggiunto un accordo con Algebris Investments, un fondo speculativo britannico di cui intende piazzare quote ai propri clienti. Dietro al fondo c’è Davide Serra, piccolo finanziere con base a Londra, molto rispettato nella City, amico e sostenitore del nuovo premier (è intervenuto a sorpresa, applauditissimo, alla Leopolda), per il quale ha organizzato incontri e cene con la comunità finanziaria d’oltre Manica e che viene considerato uno dei suoi principali consiglieri economici. Nel consiglio di Unicredit siede inoltre Lucrezia Reichlin, economista che all’inizio in molti davano come favorita per una poltrona pesante in un ministero economico del nuovo governo. Non è un caso se Erik F. Nielsen, capo economista globale di Unicredit, ha salutato con entusiasmo, in una email indirizzata a tutti gli iscritti alla newsletter della banca, l’ascesa di Matteo Renzi a primo ministro: “Renzi porta energia, determinazione nel riformare l’Italia e capacità di comunicazione. Viviamo tempi emozionanti”.
E Ghizzoni chiariva fin da marzo, in un’intervista a Repubblica, quale sarebbe stata la prima mossa della nuova banca di sistema: acquistare dalle imprese i crediti nei confronti della pubblica amministrazione. “Abbiamo un plafond di 10 miliardi per queste operazioni, ma è stato utilizzato poco perché le pubbliche amministrazioni non certificano i loro debiti. Se con le norme annunciate le certificazioni arriveranno non avremo problemi a rilevare quei crediti”. Le “norme annunciate” di cui parla l’ad di Unicredit sono il cosiddetto “decreto Renzi” (decreto legge 64/2014), che definisce in modo puntuale la procedura attraverso la quale la pubblica amministrazione dal primo luglio 2014 certificherà i crediti verso le imprese.
Una volta certificati, i crediti diventeranno, come previsto dal decreto legge 35/2013, “certi, liquidi ed esigibili”, e le imprese che li detengono potranno cederli, chiederne l’anticipazione alle banche oppure compensarli nei contenziosi tributari. Ovviamente, tranne forse nel caso del contenzioso in cui la controparte è la stessa pubblica amministrazione, le aziende non riceveranno dalla cessione dei crediti l’intero importo loro dovuto: chi li acquista (la banca o un’altra impresa) pagherà un importo decurtato in modo da scontare il tempo che manca al pagamento delle fatture da parte dello Stato e il rischio di insolvenza (che con le nuove norme si è in pratica azzerato). Un profitto sicuro per le banche, uno sponsor felice per il governo.
(1) Le mani sulla politica: centocinquant’anni di finanza cattolica, Giovanna Cracco, Paginauno n. 22/2011
(2) Su Cassa Depositi e Prestiti, cfr. il capitolo Da grande voglio fare l’Iri, in Le fondazioni bancarie, il furto pubblico del no profit privato, Giovanna Baer, Paginauno n. 20/2011