Davide Corbetta
L’inefficacia della legge quando la ‘dazione ambientale’ diventa Sistema
Il Mose, la nuova Tangentopoli veneta
“Attualmente l’immagine dell’Italia è quella di un Paese a elevato grado di corruzione percepita sia da parte dei cittadini che da parte di imprese e analisti”. Lo afferma nel dicembre scorso l’Autorità nazionale anticorruzione (Anac) nel “Rapporto sul primo anno di attuazione della legge n. 190/2012”, ovvero la norma contenente “Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione”.
C’è poco da stupirsi, dunque, se dopo i casi Eni (1) ed Expo (2) adesso tocchi al maxi appalto del Mose, il sistema di contenimento delle acque nella laguna di Venezia, una diga mobile in costruzione alla bocca del porto di Chioggia avente come unico concessionario del ministero delle Infrastrutture e dei trasporti il Consorzio Venezia Nuova (Cvn), cordata di aziende in rapporti ‘amicali’ nella politica che conta che dal 1984 si occupa della realizzazione di tutti gli interventi nella laguna veneta. A confermarlo le dichiarazioni del giudice per le indagini preliminari del tribunale di Venezia, secondo cui “il Consorzio Venezia Nuova si comporta come una vera e propria lobby, o gruppo di pressione, per ottenere le modifiche normative d’interesse” (3), ovvero i tetti massimi di stanziamento dei finanziamenti Fas (Fondo aree sottoutilizzate).
Al teatrino delle mazzette, come si potrà ben dedurre, partecipano attori già noti: imprenditori, dirigenti pubblici e politici, senza distinzione di schieramento. Uno spettacolo già visto negli anni ‘90, così simile nella prassi che viene da chiedersi se si tratti di una nuova Tangentopoli, la prova dell’efficacia di un Sistema che sopravvive da decenni.
Il triangolo delle tangenti: politici, funzionari pubblici, imprenditori
Nel lungo elenco degli indagati, il nome più illustre è sicuramente quello di Giorgio Orsoni (Pd), ex sindaco della Serenissima, accusato di finanziamento illecito ai partiti in quanto, candidato alle comunali di Venezia nel 2010, ricevette dal Cvn contributi personali, in contati, pari a 450 mila euro, e per conto del comitato elettorale pari a 110 mila euro. I soldi, come già testato dal Sistema negli anni ‘90, sarebbero stati procurati emettendo fatture false, in altre parole d’importo maggiorato rispetto alla prestazione reale: una svista contabile di circa 25 milioni di euro.
Orsoni, scaricato dagli ‘amici’ del partito, che l’hanno invitato alle dimissioni, non ha inizialmente voluto lasciare la poltrona (si è poi dimesso il 13 giugno), chiedendo un patteggiamento ai magistrati e continuando a dichiararsi innocente, pur ammettendo di aver avuto rapporti con un altro personaggio chiave della vicenda, il capo del Cvn, Giovanni Mazzacurati: a detta del sindaco la richiesta al Consorzio di finanziamenti per la campagna elettorale sarebbe stata sollecitata dallo stesso partito, che allo scoppio dello scandalo ha poi voluto farlo fuori dal governo della città. Che Orsoni sia direttamente, o per imposta volontà del Pd, colpevole di finanziamento illecito, il suo comportamento rientra comunque nei casi di inconferibilità stabiliti dal D.lgs. n. 39/2013 recante “Disposizioni in materia di inconferibilità e incompatibilità d’incarichi presso le pubbliche amministrazioni e presso gli enti privati di controllo pubblico”. Come discusso nel rapporto Anac, per inconferibilità si intende i casi in cui vi sia la “condanna per reati di pubblici uffici contro la pubblica amministrazione”, e questo “preclude la possibilità di essere destinatari d’incarichi amministrativi di vertice e d’incarichi dirigenziali, interni ed esterni, in pubbliche amministrazioni, enti pubblici ed enti di diritto privato in controllo pubblico, di livello nazionale o territoriale” (4). Tutto questo per evitare i conflitti d’interesse che sorgono tra la politica e chi esercita le pubbliche funzioni, un obiettivo che, almeno nello stato attuale delle cose, sembra un’utopia.
Oltre a Orsoni, infatti, sono molti i funzionari pubblici coinvolti: c’è Marco Milanese (Pdl), consigliere politico al ministero dell’Economia voluto da Tremonti, già indagato nell’inchiesta P4, accusato di aver ricevuto dal Cvn la cifra di 500 mila euro per influire sulle concessioni finanziarie del Mose; Giampiero Marchese (Pd), consigliere regionale coinvolto in un sospetto finanziamento da 33 mila euro per le regionali del 2010; e due nomi di prestigio nella pubblica amministrazione veneta: Renato Chisso, assessore regionale alle Infrastrutture, e Giancarlo Galan, ex presidente della regione Veneto, di Forza Italia. Entrambi incarcerati con l’accusa di corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio. Chisso, dalla fine degli anni Novanta ai primi mesi dello scorso anno, avrebbe ottenuto dal Cvn uno stipendio annuale di circa 250 mila euro, affinché concedesse dei nulla osta regionali necessari ai lavori del Mose.
Cifra ben più consistente, invece, quella beneficiata dall’ex presidente della regione Veneto, grazie alle quote di partecipazione detenute nelle società Adria Infrastrutture e Nord-Est Media, secondo i pm “canali della corruzione” per lo scambio di soldi tra Galan e Piergiorgio Baita, presidente della Mantovani, azienda leader nella cordata Cvn (5). Un milione di euro circa, è questo lo stipendio annuale percepito da Galan: 900 mila tra il 2006 e il 2007, affinché desse parere favorevole alla Commissione valutazione impatto ambientale della regione per i progetti alle bocche di porto di Malamocco e Chioggia, e altri 900 mila l’anno successivo, affinché intercedesse sul rilascio di parere favorevole per il progetto finale del Mose presso la Commissione per la salvaguardia di Venezia.
Galan si è professato più volte innocente, anche davanti alla prova del coinvolgimento di Paolo Venuti, suo commercialista e prestanome nella società Pvp, il quale deteneva le quote in Adria Infrastrutture e Nord-Est Media per una cifra che si aggirava attorno ai 431 mila euro, ed era in possesso di documenti che attestavano operazioni commerciali con il sud-sud est asiatico tra la Thea Italia spa, che ha sede proprio nello studio di Venuti, e società indonesiane. Operazioni fatte per conto di Galan, come emerso dalle intercettazioni telefoniche dei coniugi Venuti.
Vediamo ora il terzo soggetto centrale nelle vicende tangentizie: l’imprenditore. Abbiamo citato Piergiorgio Baita, che non è nuovo al vecchio sistema della ‘dazione ambientale’, anzi, si potrebbe definire un veterano di quello che già prima dell’inchiesta Mose era considerata la “Tangentopoli veneta” (6). Baita, infatti, era il direttore della società Iniziativa, un’altra cordata di costruttori locali che, dietro il pagamento di mazzette, e con trattativa privata, negli anni ‘90 si aggiudicava i lavori in tutto il territorio veneto, così come stabilito da accordi tra Dc e Psi: “In pratica, le imprese si autoassegnavano i lavori” (7).
Oggi Baita è presidente della Mantovani, che oltre a contribuire alla costruzione delle barriere architettoniche nella laguna si è aggiudicata un appalto da 160 milioni per la realizzazione della piastra del sito espositivo di Expo 2015. Secondo la guardia di finanza di Venezia, Baita avrebbe distratto fondi riguardanti il Mose per 20 milioni di euro, suddividendoli in depositi esteri, destinati a finanziare amministratori pubblici e partiti in cambio di commesse. I soldi sarebbero stati recapitati dal titolare della finanziaria BMC Broker William Colombelli, con il solito escamotage della falsa fatturazione di consulenze tecniche inesistenti, bonificate su conti correnti a San Marino e successivamente ritirati con prelevamenti in contanti dallo stesso Baita e dall’ex segretaria personale di Giancarlo Galan.
Insieme a Baita, nella lista degli indagati sono finiti anche: Roberto Meneguzzo, amministratore delegato della Palladio Finanziaria; Emilio Spaziante, generale in pensione della guardia di finanza accusato di aver ricevuto denaro dal Cvn per “influire in senso favorevole sulle verifiche fiscali e sui procedimenti penali aperti nei confronti del Consorzio Venezia Nuova” (8); Vittorio Giuseppone, magistrato della Corte dei Conti, che avrebbe percepito uno stipendio di circa 400 mila euro tra il 2000 e il 2008, e circa 600 mila euro tra il 2005 e il 2006 per, come dichiarato dal gip, “accelerare le registrazioni delle convenzioni presso la Corte dei Conti da cui dipendeva l’erogazione dei finanziamenti concessi al Mose e al fine di ammorbidire i controlli di competenza della medesima Corte dei Conti sui bilanci e gli impieghi delle somme erogate al Consorzio Venezia Nuova”; Patrizio Cuccioletta, ex presidente del Magistrato delle Acque, che ha incassato circa 900 mila euro, sempre da Cvn, oltre ad aver fatto assumere in ruoli chiave di aziende del Consorzio sia la figlia che il fratello; e Franco Morbiolo, presidente del Coveco, consorzio di cooperative rosse che, come spiegato da Baita, avevano “il compito di rapportarsi con la sinistra romana e locale” (9), quindi il compito di foraggiare il Pd coprendosi dietro altre società che fungevano da origine dei pagamenti.
La prevenzione secondo l’Anac
Secondo il rapporto Anac la prevenzione alla corruzione deve basarsi su quattro strumenti che devono coinvolgere più livelli di governo: trasparenza, formazione, codici di comportamento e analisi del rischio. Quando però a essere implicati sono proprio i soggetti che assumono ruoli chiave nell’amministrazione, quanto possono essere efficaci questi strumenti? Un primo campanello di allarme arriva dalla relazione sull’efficacia della legge 190/2012, analizzando le denunce dei reati di concussione, corruzione per atto di ufficio, corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio, corruzione in atti giudiziari, corruzione di persona incaricata di pubblico servizio e istigazione alla corruzione.
Prendendo in esame il periodo che va dal 2006 al 2011, risulta che i condannati per corruzione prevalgono sempre su quelli per concussione, tuttavia il trend dei primi è in decrescita mentre quello dei secondi in aumento. I reati di concussione, ovvero quelli di “pubblico ufficiale, o l’incaricato di un pubblico servizio, che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri costringe o induce taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o a un terzo, denaro o altra utilità” (10), passano dallo 0,43 per 100 mila abitanti nel 2006 allo 0,72 nel 2011, con il picco massimo di 0,88 nel 2009; i reati di corruzione per cui è stata avviata un’azione penale, invece, sono passati dall’1,59 per 100 mila abitanti del 2006 all’1,24 nel 2011, con il picco massimo di 2,01 nel 2009. Lo stesso discorso vale per le condanne: sono in aumento quelle per i reati di concussione, cresciute dallo 0,23 per 100 mila abitanti nel 2007 allo 0,57 nel 2011, e in diminuzione quelle per corruzione, dall’1,27 nel 2007 allo 0,76 nel 2011 (vedi tabella 1).
La maggior parte dei reati di corruzione e concussione avviene nelle amministrazioni statali (62%), poi nei Comuni (12%), nelle Asl e aziende ospedaliere (12%) e negli enti di previdenza e assistenza (12%). I settori più colpiti sono: affari economici generali, commerciali e del lavoro, servizi generali tra cui amministrazione finanziaria e fiscale, sanità, ordine pubblico e sicurezza, difesa. La maggior parte delle sentenze riguarda appalti per lavori pubblici, per forniture e per servizi, ed è importante notare come la maggior parte dei citati in giudizio tra le figure politiche siano sindaci, assessori e consiglieri comunali.
Uno dei settori più a rischio, dunque, è quello dei contratti pubblici. Per fronteggiare il problema è stato avviato un gruppo di lavoro cui partecipa l’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture; il fine è individuare e impostare degli indicatori validi come campanelli di allarme per potenziali rischi di corruzione. L’Anac ha eseguito un’analisi sulle società di controllo pubblico per verificare la messa in pratica dei princìpi deliberati dalla legge 190/2012. Di queste società l’80% ha già adottato modelli di organizzazione e controllo conformi alle direttive anticorruzione, mentre il 20%, costituito principalmente da soggetti regionali o locali, non ha adottato misure di prevenzione o contrasto.
“Circa i due terzi delle società interpellate ha costituito, nel rispettivo sito, la sezione Amministrazione trasparente, mentre meno di un terzo ha individuato uffici per il controllo sull’attuazione della normativa in questione e ha organizzato un sistema per consentire ai cittadini l’accesso civico. In definitiva emerge una maggiore attenzione all’attuazione della disciplina sostanziale, ossia alla pubblicazione delle informazioni, che a quella diretta a garantire l’effettività, ossia ai sistemi di controllo” (11). Le società locali risultano quelle maggiormente conformate, mentre quelle regionali e statali si limitano alla sola pubblicazione dei bilanci.
Le aree a rischio di corruzione sono quelle che riguardano i rapporti tra le società partecipate e le amministrazioni pubbliche, oltre a quei processi gestionali come la stipula dei contratti di servizio, i rapporti con enti di controllo diversi dai soci, e la determinazione della tariffa dei servizi erogati dalle pubbliche amministrazioni. Altro dato interessante sono le 191 segnalazioni giunte all’Anac, di cui il 65% provenienti da privati mentre il 35% dalle amministrazioni pubbliche: di queste ultime più della metà sono eseguite dai Comuni e solo il 12% dai ministeri. Il 78% riguarda “omessa o parziale pubblicazione di dati relativi a organi politici, a consulenze e collaborazioni, retribuzione dei dirigenti, ai bandi di gara e di concorso, ai provvedimenti amministrativi e agli atti di pianificazione e governo del territorio” (12).
Ma quanto pesano, in termini economici, questi dati sulla corruzione?
Ossia quanto incidono sul bilancio pubblico?
Costi pubblici della corruzione privata
Dare una risposta alla domanda è semplice, basta guardare quanto il solo progetto del Mose stia costando al Paese. Nel 2011 furono stanziati ben 630 milioni di euro, ma a questi bisogna aggiungere i costi di collaudo, 26 milioni, che costituiscono le maxi parcelle prese dai dirigenti: Vincenzo Pozzi, ex presidente dell’Anas, ha incassato 1,2 milioni di euro; Pietro Cucci, attuale presidente dell’Anas, 747 mila euro, di cui 480 mila fatturati; Piero Buoncristiano, direttore del personale Anas in pensione, più di mezzo milione, oltre al posto di ad nel Cav (la società che gestisce le strade fra Anas e Veneto); altri dirigenti Anas, tra cui l’ex direttore generale Abato e il braccio destro di Cucci, Alfredo Bajo, tra i 240 mila e i 400 mila euro; Vincenzo Fortunato, ex magistrato ordinario e del Tar nonché liquidatore dello Stretto di Messina, ha incassato 535 mila euro. E la lista è ancora allunga: 272 soggetti.
Il Mose, a oggi, è costato complessivamente 5,6 miliardi di denaro pubblico: 2,2 in più rispetto a quanto previsto nel 2003 e 2 in più rispetto al 2010, quando c’è stato l’incremento più consistente proprio nel momento in cui a capo c’era Patrizio Cuccioletta, ex presidente del Magistrato delle Acque già citato. La scadenza del progetto era inizialmente fissata per il 2010, ma è stata posticipata dopo l’aggiunta di costi per l’aggiornamento dei prezzi, per inserimenti architettonici chiesti da enti locali, per gestione e manutenzione delle paratie, per realizzazione di un sistema informativo e di opere di compensazione e riqualificazione ambientale imposte dalla Commissione europea; per ora, la scadenza prevista è il 2016.
Ascoltando le dichiarazioni di Baita, almeno un miliardo è servito solo ad alimentare il Consorzio Venezia Nuova, dato avvalorato dalle indagini della magistratura per la quale il Cvn avrebbe consegnato alla classe politica 22,5 milioni di tangenti, distribuiti tra “sindaci e presidenti di regione, magistrati delle acque e della Corte dei Conti, consiglieri regionali, finanziari, spioni” (13). E poi ci sono i benefit, come quelli di cui ha usufruito Emilio Signorini, ex responsabile dipartimento a supporto del Cipe, il Comitato interministeriale per la programmazione economica che ha il compito di distribuire fisicamente i finanziamenti concessi dal governo: sebbene non sia indagato nell’inchiesta Mose, è stata provata la sua vicinanza a imprenditori veneziani, e soprattutto al Cvn che gli avrebbe pagato una vacanza in toscana nel 2011.
Vicenda trasversale è quella che coinvolge il sindaco di Verona, Flavio Tosi, che fu anche assessore alla Sanità regionale nel periodo in cui alla presidenza della Regione c’era Galan. Tosi aveva l’incarico di dare il via libera all’ex segretario generale della sanità veneta, Giancarlo Ruscitti, affinché si procedesse alla costruzione del nuovo ospedale di Padova, il cui costo massimo stimato si aggirava intorno a 1,7 miliardi di euro. Ruscitti, tra gli indagati del caso Mose, divenne consulente di Coveco, incarico che gli fruttò 200 mila euro, per favorire l’ingresso dell’onnipresente Consorzio Venezia Nuova nella gara di appalto per la costruzione dell’ospedale.
“Contratto miliardario, come detto, con almeno 200 milioni di denaro pubblico, da realizzare col rodato sistema del project financing e sul quale ci sono molti pretendenti” (14). Stando a un’intercettazione ambientale dei pm veneziani il sindaco di Verona pose le seguenti condizioni a Ruscitti: avere il consenso anche del sindaco di Padova (Zanonato, Pd), dismettere il vecchio progetto nel caso di realizzazione di quello nuovo, recuperare fondi internazionali e far partecipare ai lavori solo le società e le persone da lui indicate.
Altra affinità con il Mose è che a presentare il progetto dell’ospedale, alla fine valutato 600 milioni con metà dei posti letto previsti inizialmente, è stata una joint venture tra l’australiana Bovis Lend & Lease e la Palladio di Roberto Meneguzzo, altro indagato per la diga della laguna.
Per finire non bisogna dimenticare i soldi versati dall’ormai monopolista degli appalti veneti, il Cvn, alla fondazione VeDrò, controllata dall’ex premier Enrico Letta. I 150 mila euro donati dal Consorzio contribuirono a sostenere la campagna elettorale di Letta nel 2007, e l’operazione avvenne per tramite di Arcangelo Boldrin per il quale fu “predisposto un incarico fittizio per un’attività concernente l’arsenale di Venezia” (15). I diretti interessati smentiscono la vicenda, nonostante ciò nel 2012 Mazzacurati spedì una lettera indirizzata al tesoriere della fondazione che aveva per oggetto “Contributo al progetto VeDrò 2012”: è la lettera per il primo versamento da 20 mila euro. Sono inoltre le dichiarazioni di Mazzacurati e Capecchi (tesoriere dell’Italia Futuro Servizi, controllata dal gruppo VeDrò, e quindi raccoglitore di fondi per Enrico Letta) a confermare i rapporti tra l’ex premier e Mazzacurati.
“È però evidente che la corruzione non è solo un problema di architettura delle istituzioni giuridiche e politiche ma anche un problema socio-culturale, che è esso stesso all’origine dell’indebolimento della governabilità del Paese nel suo complesso, e di alcune aree in particolare” (16). C’è da domandarsi se la legge stia facendo abbastanza per affrontare un problema, divenuto ‘dazione ambientale’ già negli anni ‘80, e che continua a dilagare senza controllo.
Le debolezze nella normativa anticorruzione
“La mia ricerca arrivò alla conclusione che tanto i rapporti giuridici quanto le forme dello Stato non possono essere compresi né per se stessi, né per la cosiddetta evoluzione generale dello spirito umano, ma hanno le loro radici, piuttosto, nei rapporti materiali dell’esistenza […] e che l’anatomia della società civile è da cercare nell’economia politica” (17). La legge 190/2012 è nata dalla necessità di prevenire la corruzione, non soltanto combatterla, e di prestabilire una serie di interventi utili a tenere monitorata la situazione e nell’eventualità correggerla. La difficoltà, come acclarato dall’inchiesta del Mose e da tutte le inchieste di corruzione e concussione che l’hanno preceduta, risalendo fino a Tangentopoli, sta nel riuscire a intervenire con una classe politica e imprenditoriale che ha inquinato il tessuto economico pubblico fino a questi livelli.
È la stessa Associazione nazionale anticorruzione ad affermare che l’attore politico, colui che dovrebbe per primo avere a cuore la prevenzione e il contrasto alla corruzione, non mostra sufficiente “dedizione” a questo impegno. “Significativo al riguardo è il fatto che, nonostante i reiterati solleciti dell’Autorità, al 28 novembre 2013 non tutti i ministeri abbiano nominato il Responsabile della prevenzione della corruzione (Rpc) e che ritardi analoghi siano presenti a livello di enti nazionali e territoriali” (18). Il compito del Rpc è attuare la politica anticorruzione all’interno di ciascuna amministrazione, oltre a dover assicurare l’efficacia del Piano triennale di prevenzione alla corruzione (Ptcp).
Anche sui Ptcp c’è stata scarsa attenzione da parte dell’amministrazione pubblica, in quanto “poche amministrazioni hanno sviluppato un approccio integrato all’interno dei Piani della performance e previsto obiettivi, indicatori e target di trasparenza e integrità all’interno dei Piani stessi”.
Insomma, le pubbliche amministrazioni sono restie ad assumersi le loro responsabilità, e “sembrano privilegiare il rispetto formale di tempi e procedure piuttosto che la consapevole attuazione di un’efficace politica di prevenzione della corruzione”.
L’Anac rileva la difficoltà della pubblica amministrazione ad adeguarsi alla norma, che prevede una maggiore gamma di responsabilità dirigenziali e il pericolo che questi adottino un approccio formale al problema, rallentando così i procedimenti amministrativi. La questione, dunque, sta nel dare piena attuazione al decreto. Stesso intoppo riscontrato con la legge 33/2013 “Riordino della disciplina riguardante gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni”, perché “l’ampliamento dei soggetti tenuti a darne attuazione, la necessità di adattare una normativa unica ad amministrazioni ed enti estremamente diversificati, nonché l’abnorme estensione del numero degli obblighi di pubblicazione” (19) sono difficili da sostenere, e hanno portato dubbi interpretativi da parte degli stessi soggetti che dovrebbero attuarli.
Il rapporto dell’Autorità nazionale, dunque, mette in evidenza che la trasparenza, come strumento di controllo sociale, non è efficace, o almeno non lo è ancora, “anche a causa della ritrosia o dell’incapacità della maggior parte delle amministrazioni a generare e diffondere informazioni relative ai servizi erogati e ai relativi costi, la cui pubblicazione è necessaria per rendicontare la performance verso l’esterno”. Problemi di applicazione della normativa riguardano sia le società partecipate dalle pubbliche amministrazioni, giacché sono poco chiari i riferimenti alle attività di pubblico interesse disciplinate dal diritto nazionale o dell’Unione Europea, sia le società quotate e loro controllate a cui non si applica la trasparenza, dove ‘quotazione’ e ‘controllo’ possono assumere significati molteplici. Le risposte che l’Anac trova utili, in questo caso, sono due: “Definire la soglia minima della quota di partecipazione pubblica alla quale collegare gli obblighi di trasparenza”, e pubblicare i dati sui servizi resi, che riportino, per esempio, la contabilizzazione dei costi.
In aggiunta, “è da segnalare anche la mancanza di una tutela espressa della riservatezza di quanti effettuano segnalazioni all’Autorità”. Secondo il rapporto, nel primo anno di vita della legge 190/2012 non c’è stata un’importante richiesta né di verifica né di controllo. La maggior parte di queste segnalazioni è stata fatta da soggetti privati, mentre non esistono dipendenti pubblici che abbiano segnalato problemi nelle loro amministrazioni. Molte segnalazioni, inoltre, non hanno dato il via a iniziative dell’Autorità per due ragioni: la prima è che la richiesta arrivava a termine o durante un processo in cui erano già state investite specifiche autorità competenti a investigare sul caso, e ad adottare provvedimenti; la seconda è che la segnalazione non riguardava competenze dell’Anac: “In alcuni di questi casi la richiesta d’intervento risulta già inviata a numerose istituzioni e si configura più come una ‘speranza’ di ottenere ‘giustizia’, dopo inutili tentativi esperiti in diverse direzioni, che come una richiesta mirata a contrastare fenomeni corruttivi”.
Una spinta forte di contrasto al problema, naturalmente, deve venire dalla società civile: cittadini e imprese che hanno il compito di assumersi l’incarico di consultare i piani triennali e segnalare situazioni d’incompatibilità e mancato rispetto della norma.
È tuttavia lo stesso ente anticorruzione a far presente come l’esperienza maturata abbia dimostrato che la normativa sull’anticorruzione e la trasparenza non viene sfruttata, evincendolo dalla “limitata dimensione delle segnalazioni, prevalentemente orientate a problematiche di trasparenza nelle realtà di piccole dimensioni, spesso originate dalla dialettica politica locale”. L’Anac ha svolto controlli sui siti dei ministeri e degli enti nazionali, trovando scarsa qualità nei dati pubblicati, specialmente quelli relativi agli uffici e alle strutture che non riguardano direttamente l’amministrazione centrale, che quindi non trattano in modo approfondito quelle sul territorio, oltre a essere dati non sempre aggiornati e completi rispetto ai contenuti delle norme. Le informazioni riguardanti la struttura dei ministeri sono compilate solo al 46%. Risultano incompleti anche i dati relativi a consulenti e collaboratori, che mancano di: documenti che attestino l’assenza di conflitto d’interessi, titolarità di cariche in enti di diritto privato finanziati dalla pubblica amministrazione, svolgimento di attività professionali, curricula vitae, atti di conferimento degli incarichi. Anche per i dirigenti stesso discorso: atti per svolgimento d’incarichi, titolarità di cariche in enti di diritto privato finanziati dalla Pa, svolgimento di attività professionali, attestati assenza conflitto d’interesse, e informazioni sulle retribuzioni.
Gli uffici che collaborano con organi politici, invece, tendono a non pubblicare dati che riguardano il personale utilizzato, i consulenti e i dirigenti. Più o meno le stesse mancanze delle pubblicazioni degli enti. L’opinione di Raffaele Cantone, presidente dell’Anac, è che ci sono anche altre regole bisognose di cambiamenti, poiché “è innegabile che il sistema degli appalti deve essere ripensato” ma “revocare un appalto laddove s’individuino reati rischia di compromettere tutto il lavoro svolto per quella particolare manifestazione”. “La legge anticorruzione del 2012 prevede che possano essere inserite nei contratti clausole tipo patti d’integrità, che consentono la revoca del contratto laddove si ravvisino fatti di corruzione” (20).
Innalzamento del minimo della pena per il reato di corruzione e niente vitalizio per chi è stato condannato per corruzione e mafia, sono invece le proposte del Pd dopo lo scoppio dello scandalo Mose. La corruzione è attualmente condannata dal codice penale nell’art. 319 “Corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio”, e negli articoli 319-bis “Circostanze aggravanti” e 319-ter “Corruzione in atti giudiziari”, per i quali la pena aumenta se riguarda, nel primo caso il “conferimento di pubblici impieghi o stipendi o pensioni o la stipulazione di contratti nei quali sia interessata l’amministrazione alla quale il pubblico ufficiale appartiene”, nel secondo caso quando i reati sono commessi per “favorire o danneggiare una parte in un processo civile, penale o amministrativo”. Il disegno di legge del Pd vuole inasprire ulteriormente queste pene, prevedendo anche altre norme contro la corruzione: autoriciclaggio, snellimento del processo penale e reintroduzione del reato di falso in bilancio. Oltre a “semplificazione delle procedure e delle gare d’appalto, interdizione per i rappresentanti del popolo che tradiscono il mandato e disonorano la politica e le istituzioni e il divieto per imprese corruttrici di partecipare a gare future”, come ha affermato Walter Verini, capogruppo Pd in commissione Giustizia della Camera (21).
Buoni propositi, come quelli che spinsero alla legiferazione del decreto 190/2012, e a tutte le altre leggi nate per contrastare la corruzione in ogni sua forma, ma la storia passata e recente ci ha dimostrato che in un Paese capitalista solo buoni propositi possono rimanere, “e proprio in una società e in un momento storico in cui crisi economica e crisi di valori procedono di pari passo quali conseguenze aberranti dell’alienante civiltà dei consumi e in cui l’individuo ha necessariamente smarrito il senso della propria dignità di essere umano” (22).
Un fenomeno non solo italiano
Come spiegato nella relazione Anac, il fenomeno della corruzione, oltre a portare a una diminuzione della fiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni, nella classe politica e nella pubblica amministrazione, altera anche il funzionamento del mercato, “penalizzando le imprese sane e limitando o impedendo nuove iniziative imprenditoriali”; in più, “distribuisce le risorse pubbliche in modo non efficiente”. La corruzione incide sui costi delle infrastrutture e degli appalti pubblici, e questo fa sì che sia difficile capire lo stato attuale delle opere pubbliche e distinguere tra inefficienza e difficoltà causate dalla corruzione; e non consola il fatto che ormai sia divenuta un fenomeno globale.
Nella classifica del 2013 sulla corruzione percepita stilata da Transparency International, Danimarca, Svezia, Finlandia e Norvegia occupano le posizioni più alte, su una scala che va da zero (altamente corrotto) a 100 (molto pulito); Austria, Germania, Francia, Paesi Bassi e Regno Unito si attestano su valori medio-alti; Italia, Grecia, Spagna e Portogallo si trovano in posizioni decisamente peggiori. L’indice italiano è pari a 43 (23).
Germania e Austria sono gli unici due Paesi europei che non hanno ancora adottato una convezione anticorruzione, né quella europea né quella dell’Onu.
Stando allo studio pubblicato da Visa Europe e realizzato dalla società di consulenza internazionale At Kearney, nel 2013 l’economia sommersa tedesca è stata la più alta, in valore assoluto, tra gli Stati europei, con i suoi 351 miliardi di euro (13% del Pil), contro quella italiana di 333 miliardi (21% del Pil); le mazzette tedesche hanno pesato per 250 miliardi di euro, quelle italiane per 280 miliardi. La Corte dei Conti, invece, stima la corruzione nostrana in 60 miliardi, dato immaginario poiché calcolato come risultato di una proporzione tra valore stimato della corruzione mondiale e Pil italiano.
A questo punto, pensare che il problema dipenda solo da un sistema di amministrazione o da una legge non adeguata, è riduttivo; quel che è certo, è che i costi della corruzione, calati nel contesto economico, contribuiscono alla creazione di una società civile sempre più impoverita.
(1) Cfr. Davide Corbetta, Nuove tangenti Eni: effetti del neoliberismo sul mercato mondiale di gas e petrolio, Paginauno n. 33/2013
(2) Cfr. Domenico Corrado, Expo 2015: il lavoro diventa gratuito, Paginauno n. 38/2014, Expo e la Via d’Acqua, Paginauno n. 37/2014
(3) Mose, inchiesta sugli appalti: arrestato il sindaco di Venezia. Chiesta custodia cautelare per Galan, La Repubblica, 4 giugno 2014
(4) Anac, “Rapporto sul primo anno di attuazione della legge n. 190/2012”, dicembre 2013
(5) Mose, spunta un affare da 50 milioni, fermato il commercialista di Galan, Il Messaggero, 6 agosto 2014
(6) Cfr. Gianni Barbacetto, Peter Gomez, Marco Travaglio, Mani Pulite, la vera storia, Editori Riuniti, 2002
(7) Ibidem
(8) Mose, inchiesta sugli appalti: arrestato il sindaco di Venezia. Chiesta custodia cautelare per Galan, La Repubblica, 4 giugno 2014
(9) Mose, il Cencelli delle mazzette, al Pd soldi tramite le coop, Il Messaggero, 8 giugno 2014
(10) Art. 317, Codice penale, Libro II – Dei delitti in particolare
(11) Anac, rapporto cit.
(12) Ibidem
(13) G. Caporale e C. Zunino, Mose, un miliardo bruciato in tangenti e consulenze, La Repubblica, 7 giugno 2014
(14) G. Paolucci e E. Vallin, Mose, c’è un nuovo filone sulla Sanità veneta, e nei verbali spunta Tosi, La Stampa, 16 giugno 2014
(15) A. Massari e D. Vecchi, Mose, ecco i soldi per la fondazione di Enrico Letta, Il fatto quotidiano, 15 giugno 2014
(16) Anac, rapporto cit.
(17) Karl Marx, Il Capitale
(18) Anac, rapporto cit.
(19) Ibidem
(20) A. Massari e D. Vecchi, Inchiesta Mose, Cantone: «Più grave di Expo». Orlando: «Intristito ma non stupito», La Repubblica, 5 giugno 2014
(21) C. Marincola, Mose, stretta Pd: corrotti puniti come i mafiosi, Il Messaggero, 9 giugno 2014
(22) Karl Marx, Il Capitale
(23) Anac, rapporto cit.