di Erika Gramaglia |
L’ultima legge elettorale: le curiose analogie con la legge Acerbo del 1923 che segnò l’inizio del regime
Nei mesi antecedenti le elezioni del 2008, molto si è parlato del sistema elettorale attualmente in vigore. Poi le discussioni sull’argomento si sono sopite. Quale senso ha, infatti, parlare di legge elettorale lontano dall’appuntamento con gli elettori? Eppure essa riveste un’importanza centrale, qualora si voglia affrontare il tema della governabilità e nello stesso tempo valutare l’effettiva rappresentatività delle forze politiche in Parlamento. È innegabile che il sistema applicato nel conteggio dei voti influenzi il risultato elettorale e, di conseguenza, la formazione della maggioranza di governo. Ora che torna ad aggirarsi lo spettro elettorale, la questione torna a scaldare gli animi. Ma andiamo con ordine e partiamo dai principi cardine del diritto di elettorato.
La Costituzione, all’art. 48, stabilisce che il voto è personale ed eguale, libero e segreto. Con perfetto ermetismo queste parole ne riassumono i connotati assoluti. Esso è personale, non può quindi essere esercitato per procura; prescinde dalla condizione economica e sociale dell’individuo; attraverso la segretezza ne è tutelata la libertà da forme di pressione esterne. Teoricamente i presupposti sono ottimi, tuttavia, perché il diritto di elettorato così come concepito dalla Costituzione sia effettivamente realizzato, è necessario un sistema di calcolo dei voti atto a garantirne la rappresentatività all’interno delle istituzioni.
Il quadro istituzionale delineato dalla Costituzione è una forma di governo parlamentare caratterizzata da un bicameralismo perfetto, frutto della mediazione in seno all’Assemblea costituente tra le forze di sinistra, sostenitrici del monocameralismo, e quelle cattoliche e liberali, che identificavano nella seconda Camera la sede politica di gruppi di potere economico e sociale e degli interessi regionalistici. Questo compromesso ha portato alla previsione di due Camere con medesimi poteri e competenze, differenti solo rispetto agli interessi da garantire. La diversa rappresentatività dei due rami del Parlamento voluta dai costituenti si concreta nella previsione di due sistemi elettorali distinti che, per quanto simili, presentano peculiarità proprie.
L’art. 56 della Costituzione delinea la struttura della Camera dei deputati e stabilisce che i suoi membri siano eletti a suffragio universale e diretto, fissando a 630 il loro numero, di cui 12 eletti nella circoscrizione Estero. Le circoscrizioni, pari al numero degli abitanti della Repubblica, così come risultano dall’ultimo censimento generale, diviso per 618, rappresentano la base territoriale omogenea del sistema, in grado di modificarsi secondo i flussi di crescita della popolazione residente.
Per il Senato l’art. 57 della Costituzione prevede una ripartizione dei seggi su base regionale, fissando di conseguenza il numero dei collegi elettorali a 20. I senatori sono 315, esattamente la metà dei deputati. Considerando l’intento dei costituenti di fare del Senato l’espressione delle istanze regionalistiche, il numero inferiore di senatori si potrebbe spiegare con l’intenzione di ridurne il potere dispositivo nei casi di seduta comune del Parlamento; la distribuzione regionale dei seggi ne è il logico presupposto. In verità, nonostante le ambizioni originarie, il Senato non ha realizzato nel tempo questa sua connotazione regionalistica, obiettivo tra l’altro perseguito solamente in questo articolo, mentre in nessun’altra parte della Carta Costituzionale vi si fa il minimo accenno.
La Costituzione non si occupa di definire il sistema elettorale, demandando volutamente tale competenza alla legge ordinaria. Il motivo di tale scelta risiede nell’intenzione di fare del sistema elettorale un meccanismo duttile, in grado di adeguarsi ai mutamenti sociali e alla trasformazione del contesto politico; farne materia costituzionale avrebbe determinato un eccessivo irrigidimento, considerato l’iter lungo e laborioso che la Carta stessa prevede in materia di riforme costituzionali. Per questo motivo, nel corso del tempo, abbiamo votato con i sistemi più disparati.
All’indomani della nascita della Costituzione repubblicana il metodo più appropriato sembrò essere il proporzionale puro. Per la Camera, con legge 20 febbraio 1948 n. 6, fu adottato un sistema ispirato a quello utilizzato per l’elezione dell’Assemblea costituente: un sistema elettivo a suffragio universale e diretto con liste concorrenti e la possibilità di esprimere da tre a quattro preferenze secondo l’ampiezza del collegio. Per il Senato invece la legge 6 febbraio 1948 n. 29 prevedeva un sistema proporzionale puro, seppure presentasse in apparenza le caratteristiche di un sistema maggioritario. La legge disponeva che fossero eletti quei candidati che avessero ottenuto, nel rispettivo collegio, un numero di voti validi non inferiore al 65 per cento dei votanti.
Tuttavia, data l’oggettiva difficoltà di ottenere un risultato tanto clamoroso, la legge disponeva che, in caso di mancato raggiungimento del quorum, si procedesse all’assegnazione dei seggi con metodo proporzionale. La frammentazione politica che ne derivò, e la conseguente debolezza del potere esecutivo, indusse Alcide De Gasperi, allora presidente del Consiglio, a introdurre una riforma elettorale in senso maggioritario. La riforma, divenuta legge dello Stato il 31 marzo 1953 (n. 148), modificava il testo unico delle leggi per l’elezione della Camera dei deputati, introducendo un sistema proporzionale con premio di maggioranza, corrispondente al 64,4 per cento dei seggi parlamentari, da assegnare ai partiti apparentati che avessero raggiunto il 50 per cento più uno dei voti validi. Alle elezioni del 7 e 8 giugno, la coalizione costituita dalla Democrazia cristiana, dal Partito liberale, dal Partito repubblicano e dal Partito socialista democratico italiano, si fermò al 49,8 per cento. Il premio non scattò e la legge fu abrogata l’anno successivo. La legge 30 marzo 1957 n. 361 introdusse, sia per la Camera che per il Senato, un sistema elettorale di tipo proporzionale che realizzava una sostanziale corrispondenza tra la percentuale di voti conseguiti da ciascuna forza politica e il numero di seggi assegnati.
Il sistema rimase in vigore fino al 1993 quando, all’indomani delle inchieste di Mani Pulite, fu messo in discussione il sistema stesso di selezione della classe politica. Forse un po’ ingenuamente, la società civile s’illuse di poter estirpare il malcostume semplicemente modificando le regole elettorali. I risultati dei referendum svoltisi quell’anno portarono nell’agosto del 1993 all’approvazione delle leggi 276 e 277, il cosiddetto Mattarellum, volte alla modifica del sistema elettorale in senso maggioritario. Sia per la Camera che per il Senato fu introdotto un sistema maggioritario misto, che assegnava il 75 per cento dei seggi con sistema uninominale e la restante parte con sistema proporzionale a base nazionale. Nonostante alcune differenze in merito alle procedure di voto, al numero dei collegi e alla possibilità di indicare preferenze, il sistema realizzava l’aspirazione dei costituenti al bicameralismo perfetto. L’idea ispiratrice della legge era ridurre la frammentazione politica e la conseguente instabilità, che rendevano gli esecutivi, spesso di coalizione, deboli e incapaci di gestire la macchina statale con sufficiente continuità. Nel contempo, la correzione proporzionale permetteva anche ai partiti minori di avere una rappresentanza in Parlamento, garantendo il pluralismo.
Questo fino all’autunno del 2005, quando il governo Berlusconi bis si torvò in seria difficoltà. Il calo di popolarità e la crisi in cui versava l’economia condannavano l’esecutivo a una probabile sconfitta alle elezioni della primavera del 2006, scadenza naturale del mandato. La legge 31 dicembre 2005 n. 270, definita ironicamente, ma con cognizione di causa, il Porcellum, sembrava fatta apposta per scompaginare le carte. Approvata dopo una discussione di appena due mesi e con i soli voti del centrodestra, questa controversa riforma modificava radicalmente, a pochi mesi dalle elezioni, il sistema elettorale del Parlamento: da maggioritario corretto a proporzionale con clausola di sbarramento e premio di maggioranza. La legge sopprime i collegi uninominali sostituendoli con circoscrizioni di ampie dimensioni e prevede la ripartizione proporzionale dei seggi tra le liste concorrenti; le forze politiche possono aggregarsi in compagini più ampie, ma hanno l’obbligo di presentare il programma di governo e designare un candidato unico alla carica di presidente del Consiglio; viene introdotto un premio di maggioranza alla Camera pari al 55 per cento dei seggi, da assegnarsi a quella coalizione o singola lista che abbia ottenuto la maggioranza dei voti validi; sono inoltre generalmente innalzati i termini delle soglie di sbarramento.
Il vizio fondamentale della legge elettorale ora in vigore è di costituire ciò che potremmo definire un ossimoro giuridico: un sistema proporzionale, che dovrebbe garantire una sostanziale corrispondenza tra voti e seggi, viene corretto artificiosamente per garantire la formazione di una solida maggioranza almeno alla Camera, generando effetti di distorsione della volontà elettorale più forti di quelli normalmente riscontrati nei sistemi maggioritari.
La somiglianza con la riforma di De Gasperi del 1953 è quasi imbarazzante. Entrambe le leggi sono state approvate a pochi mesi dalle elezioni, peculiarità che ha rinverdito l’appellativo di ‘legge truffa’ già coniato nel ’53; entrambe prevedono un premio di maggioranza tale da garantire, almeno alla Camera, la predominanza incontrastata di una sola forza politica; entrambe sono state approvate con la sola maggioranza di governo, mancando quindi dell’ampio consenso che sempre dovrebbe accompagnare la definizione delle regole fondamentali di un sistema politico. Da notare che la riforma del 2006 non prevede neppure una soglia minima per accedere al premio di maggioranza.
Il segno dei tempi è però marcato dalla durata delle due leggi: mentre la riforma del ’53 non superò l’anno e non produsse mai gli effetti sperati, non è ancora chiaro se l’attuale sistema elettorale avrà i giorni contati. Introdotto da un governo di centrodestra, nemmeno l’esecutivo di centrosinistra, uscito dalle elezioni del 2006 con un solido controllo sulla Camera – grazie al premio di maggioranza – e con uno ben più risicato sul Senato, ha messo tra le proprie priorità la modifica del Porcellum, e nel 2008 si è tornato a votare con questo sistema.
Soffermarsi sui meccanismi attraverso cui la volontà degli elettori si sostanzia in rappresentatività aiuta a comprendere quanto la legge elettorale, in uno Stato a democrazia elettiva, finisca per essere il primo e più potente strumento di potere. Grazie ai suoi ingranaggi è possibile plasmare la composizione del Parlamento e di conseguenza decidere in precedenza quali forze politiche vi accederanno. Il fatto che nella maggior parte dei casi le riforme elettorali vengano introdotte a ridosso delle elezioni e a colpi di maggioranza tradisce la volontà di costruire un sistema di volta in volta favorevole alla conservazione del potere precostituito. In tal senso un esempio illuminante è la legge Acerbo, voluta fortemente da Mussolini e approvata dal Parlamento nel 1923.
Essa introduceva un sistema maggioritario sulla base di un collegio unico nazionale. Stabiliva inoltre che la lista che avesse raggiunto una percentuale di voti superiore al 25 per cento avrebbe ottenuto i due terzi dei seggi, mentre i restanti sarebbero stati distribuiti alle liste di minoranza. Vero e proprio esempio di suicidio di un’Assemblea rappresentativa, la legge Acerbo fu approvata alla Camera il 21 luglio del 1923 con i 223 voti del Partito nazionale fascista, di buona parte del Partito popolare (tra cui Alcide De Gasperi) e del Partito liberale. Il Partito comunista e il Partito socialista votarono contro, fermandosi però a 123 voti. Dopo l’approvazione del Senato, 163 a favore e 41 contrari, la riforma entrò in vigore. Alle elezioni del 6 aprile 1924 il Listone Mussolini ottenne il 64,9 per cento dei voti, guadagnandosi il premio di maggioranza che gli valse il totale controllo sul Parlamento con 375 seggi, contro i 161 ottenuti dalle opposizioni di centro-sinistra che, paradossalmente, erano risultate maggioranza nel nord del Paese.
Attraverso la legge Acerbo il neonato esecutivo fascista si assicurò il controllo della maggioranza parlamentare, che gli avrebbe permesso di introdurre in modo formalmente legittimo tutti gli interventi più incisivi e lesivi della legalità statuaria sostanziale, compreso quello volto a vanificare le procedure elettorali trasformandole in meri rituali confirmatori del potere costituito. Era l’inizio del regime. Come a dire che siamo tornati alle origini. Il circolo vizioso si è chiuso, almeno dal punto di vista normativo.