Dopo quarantadue anni di dittatura, Muammar Gheddafi è stato violentemente spodestato e ucciso. I media internazionali inneggiano alla vittoria delle forze rivoluzionarie sul dispotismo e prevedono per la Libia un futuro di libertà e democrazia come sarebbe avvenuto per la Tunisia e l’Egitto, sulla via delle rivoluzioni dei gelsomini.
A onor del vero, va sottolineato che in Tunisia le recenti elezioni hanno consegnato il potere alle forze più conservatrici, se non reazionarie, legate ai risorti partiti religiosi. Va anche aggiunto che in Egitto, una volta spodestato Mubarak, il potere è rimasto nelle mani dell’esercito che, a suo piacimento, tra una repressione e l’altra nei confronti dei manifestanti che continuano a protestare, sta preparando una transizione ‘democratica’ in modo che nulla cambi.
Per la Libia le cose sono andate e andranno ancora peggio. Il fattore discriminante che metterà probabilmente in fibrillazione la società libica si chiama petrolio. La Libia è il secondo produttore del continente africano e il dodicesimo a livello internazionale, con buone prospettive di miglioramento nei processi estrattivi e per le interessanti riserve in parte ancora da scoprire nella parte sudoccidentale del Paese.
Le maggiori compagnie petrolifere straniere che operavano prima dell’insurrezione in Libia erano la francese Total, l’Eni dell’Italia, la China National Petroleum Corp (CNPC), la British Petroleum, il consorzio petrolifero spagnolo Repsol, e poi Exxon Mobil, Chevron, Occidental Petroleum, Hess, Conoco Philps.
In base alle più recenti stime si ritiene che le riserve di petrolio della Libia siano di 60 miliardi di barili. Le sue riserve di gas di 1.500 miliardi di metri cubi. Attualmente la sua produzione è tra 1,3 e 1,7 milioni di barili al giorno, ben al di sotto della sua capacità produttiva. Le prospettive a
più lungo termine, secondo i dati della National Oil Corporation (NOC), sono di tre milioni di b/g e una produzione di gas di 2.600 milioni di metri cubi al giorno. La Libia è tra le dieci economie petrolifere più importanti al mondo. Le sue riserve sono stimate al 3,5% di quelle mondiali, più del doppio di quelle americane.
Sino a ora, la parte del leone l’ha fatta l’Italia. Per l’imperialismo nostrano la posta in gioco va al di là dell’Eni e oltre la pur importantissima questione energetica. Quando era Gheddafi a dominare la scena politica, gli investimenti italiani includevano un miliardo di euro nelle grandi opere (Impregilo), 740 milioni nelle ferrovie (Ansaldo), 125 milioni nelle infrastrutture stradali (Anas), 68 milioni nelle telecomunicazioni (Sirti), 60 milioni da piccole e medie imprese.
È una torta che stimola gli appetiti di Parigi, Londra e Washington, e qui sta il primo punto su cui si gioca il futuro della Libia. A dettarne gli sviluppi saranno quelle stesse forze che hanno scatenato l’intervento militare, prima singolarmente, poi sotto le solite bandiere della Nato. Primo obiettivo, quello di creare le condizioni per una modificazione degli assetti distributivi della rendita petrolifera.
Prima dell’abbattimento del regime, il primo partner era l’Italia, che usufruiva del 28% della produzione complessiva, agente in loco con l’Eni (maggiore produttore straniero di petrolio nel Paese nordafricano prima della guerra civile) fin dal lontano 1959, rapporto ulteriormente rafforzato dopo l’accordo Gheddafi-Berlusconi del 2008. Seguono a scalare, la Francia, con il 15%, la Cina con l’11% e la Germania (10%); le briciole alle compagnie americane.
Il governo provvisorio dei ribelli ha già fatto intuire che gli accordi petroliferi saranno rivisti, favorendo le compagnie dei Paesi che hanno militarmente contribuito all’abbattimento del regime. Per esempio, la Francia, che è stata la prima a partire con operazioni militari e a riconoscere il consiglio nazionale transitorio.
Non a caso, il 3 aprile scorso esce la notizia, subito smentita ma non per questo falsa, che tra il CNP libico e il governo francese, grazie alla mediazione dell’Emiro del Qatar Hamad bin Khalifa, la società francese Total si sarebbe assicurata il 35% di tutto il petrolio libico. Con una quota del 35%, l’azienda francese si accaparrerebbe 400.000 barili giornalieri, superando abbondantemente la parte dell’Eni, ferma a 116.000, ma destinata a scendere ulteriormente.
Seppure in tono minore, l’inglese BP dovrebbe usufruire di quote superiori a quelle precedenti.
Anche per gli Stati Uniti, discretamente presenti nella iustum bellum come supervisori Nato delle operazioni militari, l’interesse petrolifero è ben presente a favore delle proprie compagnie quali la Exxon Mobil e la Chevron. Ma non finisce lì.
Essere presenti in Libia, ovvero nel fragile contesto africano, per la sempre più precaria situazione imperialistica americana, significa cavalcare, traendone vantaggio, le ‘rivoluzioni arabe’ e tentare di recuperare, quasi a costo zero, spazi di manovra che le sono stati sottratti o inibiti dalla progressiva, quasi inarrestabile, penetrazione cinese.
L’imperialismo di Pechino, in poco più di dieci anni, si è introdotto all’interno della fascia africana che si estende dal Sudan alle coste dell’Atlantico, passando per il Ciad, la Mauritania, il Niger sino alla Nigeria, facendo incetta di miniere di rame, oro, uranio e dello sfruttamento del solito petrolio, dando fastidio al vecchio colonialismo francese, ma anche alle mire di Washington, che non può stare a guardare senza fare qualcosa contro il soft power cinese.
Nel futuro della Libia c’è anche l’ambizione del piccolo emirato del Qatar. Oltre ad avere contribuito diplomaticamente all’accordo franco-libico sulla quota del 35% da concedere alla Francia, ha dato la disponibilità delle sue basi aeree per le azioni militari Nato contro il governo di Tripoli. In cambio, la Qatar General Petroleum Corporation otterrà delle concessioni petrolifere nell’area della Cirenaica che, sommate al proprio oro nero e ai suoi depositi di gas del north west dome, consentirebbero all’emirato della piccola penisola arabica di avere un ruolo maggiore negli equilibri petroliferi della zona e un peso più consistente all’interno della stessa Opec. Per tutti c’è poi il business della ricostruzione post-bellica.
Sul futuro dello scenario libico peseranno, e non poco, le tensioni all’interno del Consiglio nazionale transitorio. Il rabberciato governo, nato ben prima che Gheddafi fosse eliminato dalla scena, e riconosciuto in tutta fretta da quelle potenze che oggi accampano diritti sulla gestione delle ricchezze energetiche dell’ex rais, vede la presenza di forze ibride, ideologicamente contraddittorie, ostili le une alle altre, accomunate solo dalla lotta contro Gheddafi , unite momentaneamente dallo sforzo di mettere le mani sulla rendita petrolifera, ma inevitabilmente divise sul terreno del soddisfacimento dei reciproci egoismi economici.
Dentro c’è di tutto: dai transfughi del vecchio regime come Jalil, ex ministro della Giustizia, ed ex consiglieri di Gheddafi come Abdul Salam Jallud. A seguire, Ali Tarhouni, ministro delle Finanze e del Petrolio e l’attuale leader Mahmoud Jibril.
Poi, islamisti di ogni genere, come il predicatore Ali Sillabi, che si rifà alla tradizione dei Fratelli musulmani. Qaedaisti quanto basta e avventurieri di ogni sorta.
Sino a che punto reggerà l’arcipelago degli interessi interni con le pressioni internazionali non è dato a sapere. Nulla cambia con l’elezione del nuovo responsabile del CNT, Abdul al Raheem al Qeeb. Una cosa è certa: per la stragrande maggioranza delle masse libiche, per quelle frange proletarie che si sono battute nell’illusione che qualcosa potesse cambiare, ci saranno le solite brutte sorprese.
Cambieranno i padroni interni, cambieranno le presenze imperialistiche internazionali, la loro sfera di influenza sulla rendita petrolifera libica, ma per i soliti noti che lavorano nelle campagne, nell’edilizia, nelle strutture petrolifere, tutto resterà come prima, forse peggio, visti i venti inarrestabili della crisi mondiale.