La riduzione degli orrori del Ventennio al solo episodio delle leggi razziali, a copertura di una cultura fascista tuttora presente nelle logiche economiche e politiche
“L’intelligenza non avrà mai peso mai, / nel giudizio di questa pubblica opinione. / Neppure sul sangue dei lager otterrai, / da una delle milioni d’anime della nostra nazione, / un giudizio netto interamente indignato. / Irreale è ogni idea, irreale è ogni passione / di questo popolo ormai dissociato / da secoli, la cui soave saggezza / gli serve a vivere. Non l’ha mai liberato. / Mostrare la mia faccia, la mia magrezza. / Alzare la mia sola puerile voce / non ha più senso. La viltà avvezza / a vedere morire nel modo più atroce / gli altri con la più strana indifferenza. Io muoio, e anche questo mi nuoce.”
(Pier Paolo Pasolini)
Mancano pochi giorni al 27 gennaio, giorno della memoria. Come gli anni precedenti, sarà un tripudio di commemorazioni, non senza danni per la verità storica, purtroppo.
I treni carichi di studenti partiranno regolarmente verso i campi di concentramento, i giornali e le televisioni ne parleranno, documentari e film sulla Shoah riempiranno i programmi commemorativi, così come non mancheranno le iniziative private, per un pentimento collettivo che rimuove la colpa e salva anche chi non si è mai pentito. Poco male. Il bagno di folla, per un giorno illuderà di abitare da un’altra parte, che gli italiani non votino alla grande per Berlusconi e Lega nord.
La contraddizione non può non indurre qualche riflessione sul contributo di questa commemorazione in merito a ciò che realmente è stato il fascismo e sulla percezione che di esso oggi ne hanno gli italiani.
Anche perché, davanti all’oblio che immediatamente segue la contrizione collettiva, diventa difficile evitare di porsi un paio di dolorose domande.
Come possono conciliarsi, nella coscienza di un individuo, la commozione postuma o le lacrime tardive per le deportazioni nei lager di ebrei, zingari, omosessuali e comunisti, e l’indifferenza di fronte al razzismo grondante da ogni riga dell’ultimo pacchetto sicurezza sfornato dal governo che ha votato? Quasi non ci fosse apparentamento ideologico tra quelle deportazioni e queste leggi. E come può una persona ritrovarsi tanto sensibile il 27 gennaio di ogni anno e votare una coalizione che vince in allegra alleanza con partiti come Forza nuova e Fiamma tricolore?
È questo senso di normalità e di indifferenza, che si sta creando di fronte alla larga diffusione popolare di una cultura politica fascista, a rendere l’idea di quanto possa pesare su una popolazione una mancata resa dei conti con il proprio passato.
Tuttavia occorre precisare che di ritorno non si tratta, giacché il fascismo non è stato mai accantonato. Tenuto nascosto, questo sì – come un vecchio nonno che sbava a tavola – ma sempre ospitato in casa nell’attesa che il lungo processo di profonda rimozione subìto dagli italiani gli creasse il contesto giusto per riemergere senza dover provare più alcuna vergogna.
Ci sono state in Italia situazioni politiche, questioni di governabilità che persistono tutt’oggi, per le quali era necessario impedire il radicamento di una memoria collettiva realmente antifascista. Pure ammettendo le ambiguità che questo termine reca con sé. Difficile pensare, in effetti, che si possa essere antifascisti senza essere anche anticapitalisti.
Eppure la politica italiana è riuscita a portare avanti questa impostura e a dissimulare lo spirito fascista che ha continuato ad animare il grande capitale. E se il potere borghese insediatosi dopo la dittatura ha costantemente dimostrato di non avere alcun interesse a far ricordare, è giusto credere che ricorrenze istituzionali come il 25 aprile, il 2 giugno, il 4 novembre e il 27 gennaio rispondano attivamente a questo principio di rimozione.
Ogni ricorrenza storica istituita dal potere rientra in un sistema invisibile di comunicazione ideologica a tripla funzione: fissare una data in memoria di un fatto storico, astrarre questo fatto dal contesto politico ed economico della sua epoca e renderlo in tal modo simbolo di un valore da considerarsi assoluto.
Se è vero che da un lato ricordare le vittime della Shoah significhi riconoscere nel fascismo la complicità grave delle deportazioni degli ebrei da parte del regime, per altro verso presuppone la riduzione, attraverso una plateale ammissione di colpa, dell’orrore del Ventennio a quest’unico episodio. Anch’esso mondato e assolto, anno dopo anno come in una messa domenicale, attraverso la ripetizione irriflessiva.
Solamente un Paese con la coda di paglia avrebbe potuto inventarsi un giorno della memoria sul solo episodio della propria storia vergognosa, con il quale oltretutto era ormai divenuto impensabile non fare i conti. Non fosse altro per l’inevitabile confronto incrociato con la storia di un’altra nazione. Non c’è alcuna nobiltà nell’istituire un giorno della Shoah in Italia, quando sarebbe stato più logico istituire un giorno in ricordo delle vittime del fascismo. Al contrario vi si ritrova l’intera gamma di vizi di un potere le cui costanti storiche sono la menzogna perpetuata e la verità negata nel tempo e contro ogni evidenza.
Fingere che le leggi razziali siano state l’unico errore del fascismo, la parte cattiva, significa implicitamente affermare che gli eccidi di operai e dirigenti socialisti, le chiusure delle Camere del lavoro, l’annullamento con la forza di ogni forma di opposizione politica nel 1921, i genocidi posti in atto nella ex Jugoslavia e l’uso dei gas tossici in Etiopia non siano mai esistiti o che appartengano al sedicente fascismo buono.
Ma non esiste speranza di istituire una ricorrenza del genere, perché quel periodo storico è denso di significati che si riflettono minacciosamente nelle odierne logiche economiche.
Niente è più sbagliato del considerare il fascismo in astratto, come se fosse esclusivamente un impianto ideologico sottovuoto politico. Poteva crederci Giovanni Gentile, da buon seguace dell’idealismo, ma non ci può credere chi pensa all’economia come primo motore del mondo. In fondo, la politica al fascismo ha dato solo la forma e il nome. È più corretto semmai parlare di fascismo riferendosi al sistema di produzione e alle sue logiche aberranti.
Nel romanzo di Fred Uhlman, Niente resurrezioni, per favore, trent’anni dopo la fuga da una Germania in pieno delirio nazista e antisemita, Simon ritorna nella sua città natale. Appena sbarcato dall’aereo, entra nel bar dove era solito incontrare i compagni di studio e vi trova un vecchio amico.
Non sa di avere di fronte un ex nazista arricchitosi con la ricostruzione. Simon lo ascolta parlare in maniera convulsa dei compagni di scuola caduti in guerra: “La percentuale è più alta ancora, supera il 50%”, “21 più 3 di cui non si sa più niente e che sono dati per morti: totale 24”, anche se “chi è morto è morto e noi siamo vivi”; della città ricostruita: “Avresti dovuto vedere questi posti dopo la guerra. Ventimila morti in una sola notte. Il 65% degli edifici distrutti”; della grande ascesa economica: “Sai come abbiamo fatto? Lavorando sodo. Quattordici ore al giorno per dieci anni […]. Prestiamo addirittura denaro all’America”; della propria attività: “Dirigo una ditta di lucido da scarpe, la più grande d’Europa, detto tra noi, ho aumentato la produzione del 27%”. Un’intera società ridotta a un mucchio di cifre in attivo, compreso il rapporto morti e vivi, nel cui conteggio mancano gli ebrei.
L’uomo che Uhlman presenta, lungi dall’essere una macchietta, è uno dei prodotti umani del dopoguerra, nato da uno Stato delegittimato dalla storia, nonché frutto sociale della ricostruzione. Del momento, cioè, in cui la Germania e i tedeschi sono diventati le ‘cavie’ di un esperimento politico ed economico, organizzato dagli Alleati, che avrebbe reso il libero mercato con le sue regole la colonna portante su cui fondare il futuro Stato tedesco. Obiettivo: introdurre in Europa i principi di quel neoliberismo i cui effetti sono oggi sotto gli occhi di tutti. Ben inteso: che il dominio economico costruisca la politica non è una novità storica.
È semmai una prassi. Ma nel caso della Germania, il vero esperimento consisteva nel trattarla alla stregua di una nazione priva di storia perché si sgravasse del peso della memoria. Una tabula rasa politica ed economica ideale per innestarvi, attraverso il quotidiano circuito lavorativo, un sistema di mercato che fosse totalmente libero, creatore di nuova storia e di nuova linfa vitale a uno stato già avanzato. Una dinamica in progress che avrebbe permesso di saltare la normale gradualità storica e di mettere in moto una libertà economica assoluta, sopra la quale ancorare una sovranità politica. Lo Stato sarebbe sorto in seguito, naturalmente nella forma di una democrazia cristiana. E sarebbe stata questa nuova libertà acquisita a creare il diritto pubblico tedesco, rendendo la nazione perdente il cuore pulsante di una sofisticata evoluzione del capitalismo.
Un progetto facile da servire a una popolazione uscita sconfitta dalla guerra senza possibilità di appello. I partiti politici di destra e di sinistra, investitori, operai, padroni, sindacati, come un’unica entità compatta accettavano e si coinvolgevano nel nuovo gioco economico creando, inconsapevolmente attraverso automatismi lavorativi, un consenso a circuito chiuso che sarebbe diventato anche e soprattutto consenso politico. Una negazione della memoria storica e del conflitto sociale a tutto vantaggio di un’orgogliosa accettazione di massa della crescita economica nazionale.
Così Simon, atterrato per cercare una memoria, si ritrova nel mezzo di un rovesciamento dell’asse temporale. Il tempo della storia è diventato tempo comprato al minuto del libero mercato.
Mentre la Germania – vinta e senza una guerra di liberazione da presentare al tribunale della storia – negli anni dal ’45 al ’48 si è vista guidata per mano dagli Alleati verso la nuova forma di Stato democratico, l’Italia, grazie alla Resistenza, si è ritrovata legittimata a uscire dalla dittatura con le proprie forze. E il primo problema che il nuovo potere borghese ha dovuto affrontare è stato il conflitto di classe di cui erano portatori i partigiani rossi.
Questo voleva dire che gli occorreva trovare la maniera di trasformare in perdente una parte di coloro che avevano vinto. E per riuscirvi occorrevano due mosse iniziali: disarmare quei partigiani e trovare alleanze che garantissero il sostegno al governo De Gasperi. Entrambe questioni che Togliatti si sarebbe affrettato a risolvere. La prima grazie all’aiuto dei vertici del Cln, e la seconda direttamente, promulgando un’amnistia che avrebbe contribuito a rimettere in circolo nel sistema linfatico della politica uomini, strutture e istituzioni appartenenti al vecchio regime. Dinamica alla quale si sarebbe aggiunta la rimessa in sella dei capitani d’industria, adesso diventati democristiani. A sparare addosso agli operai, ora che non c’era più Balbo, ci avrebbe pensato il democristiano e antifascista Scelba con i suoi celerini, perché fossero chiari i valori del nuovo Stato liberale.
In questo modo, la Resistenza, che aveva legittimato l’Italia davanti alla storia, veniva spogliata di quella componente conflittuale che ideologicamente si scontrava e contraddiceva il nuovo potere borghese restauratore.
Nessun romanzo italiano ha fatto ritornare un Simon sulle tracce della memoria. Buon per lui, visto che cosa ne è stato della verità storica. Anche se, per trovare una situazione simile a quella incontrata dal suo omonimo tedesco, sarebbe dovuto tornare qualche decennio più tardi, nella prima metà degli anni Novanta, durante i giorni della concertazione.
Avrebbe visto i figli del fascismo tornare al governo, e i figli politici e i capitani d’industria della restaurazione sepolti da avvisi di garanzia e accusati di avere messo in piedi un sistema economico totalmente protetto e corrotto. Avrebbe assistito alla nascita e all’ascesa di un partito razzista e xenofobo. Avrebbe trovato i lavoratori narcotizzati e privati di una coscienza di classe, insieme a un ‘nuovo’ gruppo dirigente – questo sì, consapevole della propria forza di classe – pronto per una profonda restaurazione produttiva, che avrebbe ridotto l’impresa a semplice contenitore organizzativo di risorse, rivoluzionato il mercato del lavoro e i suoi rapporti di produzione, sconvolto l’intera struttura sociale del Paese; deciso a sferrare l’ultimo attacco ai lavoratori. Violento, seppure per altre vie, quanto lo squadrismo del 1921.
Mantenuto in vita quando sarebbe dovuto morire, il fascismo è stato dal ’45 a oggi utilizzato dal potere (inteso nella commistione mafia, politica e industria) ogni qualvolta la democrazia si dimostrava troppo debole nei confronti della piazza. Fino a renderlo, tra progetti eversivi e tentativi di golpe, presenza costante della vita sociale e politica del Paese, al punto di influenzarne le scelte e di agire, in completa complicità con gli apparati militari e i servizi segreti, in funzione di forza paramilitare nel conflitto di classe contro gli operai, con stragi ed esecuzioni mirate.
Ma non vanno dimenticati i cospicui finanziamenti provenienti da grandi industriali. È sufficiente ricordare il supporto economico, logistico e spirituale garantito, nel bresciano, dai ‘re del tondino’ negli anni Settanta a giovani neofascisti (1), o i fiumi di soldi versati nelle casse del Msi di Almirante, di Leghe, di gruppuscoli della destra eversiva, da parte di industriali, albergatori, agrari e banchieri.
La massiccia rimozione ha mostrato i suoi frutti, coloriti e sani, nel 2008. I saettanti saluti romani che hanno accolto l’elezione a sindaco di Roma di Gianni Alemanno sono stati l’inizio, non di una resurrezione giacché solo chi muore può eventualmente risorgere, ma di una rivendicazione di spazio, chiesta a chi ha raccolto politicamente l’eredità dei massacratori del Ventennio. A un uomo che crede e sostiene essere la promulgazione delle leggi razziali l’unico errore di Mussolini; lo dicono anche calciatori, attori, lo si fa credere in programmi televisivi; lo sostiene La Russa, che ancora in una commemorazione è riuscito a celebrare la brigata Nembo. Salvo poi negare in maniera indiretta la stessa faticosa ammissione, chiedendo la repressione e la deportazione di extracomunitari ogni volta che qualcuno di loro viene coinvolto in un fatto di nera, e spingendo gli italiani all’odio, com’è strategia della Lega, facendo loro credere che la disoccupazione sia colpa dello straniero che gli porta via casa e lavoro.
Tuttavia i paragoni con il 1921 e gli anni Settanta sono impropri. Mentre allora il fascismo è stato usato per prendere il potere o come strumento di difesa da parte delle classi dominanti, oggi i gruppi neofascisti, come quelli di Fiore, della Mussolini, di Tilgher, di Adinolfi o di Romagnoli, esigono una legittimazione politica. E il guaio è che dal loro punto di vista hanno persino ragione a chiederla. Perché oggi il fascismo, seppure nella sua forma più moderna realizzata nel programma della P2 di Licio Gelli, seppure riuscendo ad apparire più velato dalle maglie di fasulle maschere democratiche, c’è! Permane e affligge ancora gli italiani, compresi quelli che credono di volerlo. È qui, presente, tra le righe della riforma della giustizia, nel pacchetto sicurezza, nella militarizzazione delle città, nella distribuzione di telecamere a ogni angolo, nella social card per i poveri; c’è nel consumismo, nell’analfabetismo di ritorno, nel liberismo protetto dei capitani d’industria e nel precariato in cui essi costringono la vita dei lavoratori, nella sottocultura politica degli italiani, nelle tante celebrazioni e nelle ricorrenze che sotto sotto mirano a salvaguardarne il retroterra culturale.
E quanto la rimozione sia stata conveniente alla sinistra quanto alla destra è testimoniato dai fatti della storia più recente. A Fini ha dato occasione di riciclare se stesso e di trasformare Alleanza nazionale da partito fascista a partito conservatore – ed essere così più presentabile in Europa – al semplice prezzo di un’abiura molto ambigua e un giorno della memoria; alla sinistra ha permesso di spennare la Resistenza, per bocca di Violante, fino a denudarla completamente di qualunque connotazione rivoluzionaria, occupare così uno spazio politico di centro e vendersi definitivamente ai poteri forti del capitale.
Ai capitani d’industria, ai banchieri, agli speculatori della finanza i quali oggi, dietro la plastica della mediazione politica democratica e del cosiddetto benessere creato dal consumismo, non hanno smesso di riprodurre, nel mercato del lavoro, condizioni di sfruttamento e di controllo che da sempre negano i tanto esaltati principi democratici. Le medesime sotto il fascismo e in democrazia. Tant’è che per queste persone le cose non sono mai cambiate, visto che di qualunque regime sono i finanziatori e i diretti responsabili di quanto accade alla popolazione. Cadono i dittatori, cadono i governi, eppure loro sono sempre lì, immobili e immortali.
Peccato, comunque. Sarebbe stata una bella sorpresa per gli italiani scoprire che gli uomini del duce non hanno ucciso solamente Giacomo Matteotti come per anni hanno fatto credere loro! Che colpo accorgersi d’un tratto che la guerra civile – che c’è stata, eccome – non l’hanno iniziata i partigiani nel 1943, bensì gli industriali e gli agrari nel ’21 per difendersi dai moti del biennio rosso, durante i quali i lavoratori, i proletari e i sottoproletari avevano rivendicato dei diritti davanti ai capitalisti che si erano vergognosamente arricchiti durante la grande guerra: sfruttando gli operai fino al midollo, producendo scarpe di cartone e divise di cotone per “i coraggiosi soldati italiani” (per dirla come La Russa) mandati a morire al fronte.
Già, ma poi il fattore economico rischierebbe di diventare parte integrante della storia. Allora, magari, sarebbe tutta un’altra storia.
(1) La sottile linea nera, Mimmo Franzinelli, Rizzoli